Dieci

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La parola ‘esegesi’ evoca un legame, spesso indissolubile, con ‘religione’ e, si sa, l’ermeneutica dei testi sacri ha avuto perlopiù interpreti maschili. Einaudi pubblica Dieci (2019), l’ultimo libro di Elena Loewenthal, una fresca rilettura dei Comandamenti tramite l’interpretazione di sfaccettature inedite delle Scritture, incomprensibili se non ci si predispone all’’incoerenza, che, secondo l’autrice, è alla base delle stesse.

Ma prima della Legge, uno sguardo alla Creazione.

Il breve saggio – poco più di cento pagine in tutto – fa parte della collana Vele e si apre con la storia della conoscenza dell’uomo, la quale, ancor prima del frutto proibito, passa attraverso una domanda: Ayeka? È la prima parola pronunciata da Dio all’indomani della creazione di Adamo ed Eva, ma, per rispondere, sarà bene rivedere alcuni passi.

La Genesi racconta che, in principio, Dio li creò maschio e femmina, ma si parla di un’endiadi ermafrodita, un’idea nella mente divina che non ha materialità; dopo il settimo giorno, serve infine qualcuno che domini sulla terra e un posto in cui il soffio (nefesh) possa abitare. Adamo non è fatto dal lògos, dall’intelligenza ordinatrice di Dio, bensì da un materiale preesistente, dalla polvere della terra; con questo atto si parla di una ‘seconda creazione’ a tutto tondo dell’uomo. A questo punto, però, Adamo ha bisogno di qualcuno che gli stia knegdo, cioè ‘di fronte’, termine tradotto con ‘compagnia’, che in realtà indica un’opposizione visiva, necessaria affinché possa riconoscersi, ma prima che tale volontà sia esaudita, Dio istruisce l’uomo su quella che diventerà la storia più vecchia del mondo: “non mangiare dei frutti dell’albero della conoscenza del bene e del male”. Il primo punto della scoperta del divino passa attraverso il rapporto di Adamo con Dio, il secondo è l’acquisizione della consapevolezza, ossia disobbedire al divieto intorno all’albero della conoscenza.

Eva, però, non era ancora stata creata, dunque di chi è la colpa? Della donna, che non c’era, o dell’uomo, che non l’ha avvertita? Loewenthal chiarisce un punto che scagiona la donna dall’immaturità di un’accusa primigenia; chi si dimostra più acuto nella fatidica scoperta della conoscenza, a ogni modo, è Eva: lei per prima prende il frutto senza conoscerne il divieto, ma di un divieto, a ben vedere, non si tratta. Quell’albero non è un indicatore morale: «Il giorno in cui mangerai da esso, morire morirai», non si parla né di minaccia né di ingiunzione. L’infinito che rafforza il verbo coniugato precisa che la morte entra in gioco non come effetto del frutto mangiato, ma come cognizione. Sapranno di dover morire, un giorno, e l’ingenua nudità originaria sarà persa per sempre.

E quella domanda?

Iniziare un’indagine esegetica da una domanda è una scelta non frequente, a partire dalla quale l’autrice tesse il suo lavoro. Loewenthal, cioè, stabilisce sull’interrogazione il fulcro di un’apertura all’insolubile, perché la conoscenza, quando arriva a una scoperta, prosegue verso altre mete. Ma la vita è anche determinazione e, perché inizi, è necessario pronunciare la prima lettera, l’alef, che apre la bocca in sospensione prima che la domanda venga fatta: Ayeka. «Dove tu?». Dove sei, Adamo? È Dio a cercare l’uomo, non l’uomo a cercare Dio. E l’uomo rispose anokhì: «La tua voce ho sentito nel giardino e ho avuto paura perché nudo io, e mi sono nascosto» (Genesi 3, 10). Anokhì: io. In verità è una ricerca reciproca che ricorrerà più volte nelle Scritture, ancor prima dell’elezione del popolo di Israele.

La semplicità di un’interpretazione popolare sulla natura spesso violenta di Dio ha defraudato della pienezza che gli spetta il complesso rapporto tra l’Eterno e l’uomo; si sente dire con consapevole e preoccupante arroganza che Dio non può essere buono, visto il male che procura più e più volte all’uomo. La verità è un’altra ed è tramite i Dieci comandamenti che Loewenthal cerca di spiegare meglio la questione.

Innanzitutto, la Torah è un’alleanza. Ad Abramo, la Legge viene data attraverso una voce, la consegna è un fenomeno acustico. Hinneni, «Eccomi», dice Abramo, ti ascolto, anche se dovrò uccidere Isacco. Viceversa, Mosè è il prototipo del dubbio, è titubante, insicuro, ha bisogno che il Signore gli parli attraverso dei prodigi. Non a caso l’autrice sceglie due figure così in contrasto tra loro, quasi a simboleggiare la molteplicità umana che apre l’orecchio al divino e alla sua capacità di comprendere la voce (qol) che gli parla. A un livello di interpretazione letteraria e non fideistica, la bellezza di un tale atteggiamento giace su una passionalità che non ha nulla a che vedere con la coerenza; Dio non è buono o cattivo, è passionale, nel bene e nel male, e, così facendo, si riflette nella naturale incoerenza umana.

Incoerenza: la Legge consegnata da Dio gioca proprio su questo principio, non è mai stabile e si avvale spesso di una frattura tra il cielo, infallibile ma passionale, e la terra, fallace ma curiosa. «La contraddizione,» dice Loewenthal «non è il manifesto dell’assurdo bensì l’indicatore della complessità insita nel creato. Di fronte alla contraddizione non c’è resa ma lavoro di interpretazione». L’aporia, prosegue, è la chiave per entrare in quella frattura e lavorare di ermeneutica. La stessa frattura che si genera nelle tavole dei Dieci comandamenti, quando Mosè, disceso dal Sinai, le scaglia per terra vedendo i suoi compatrioti adorare il vitello d’oro. Anche in questo caso, la passionalità come cedimento all’ira è la misura dell’errore umano e la sua possibilità di rimediarvi. La riparazione delle tavole necessita, una volta di più, dell’ascolto di Mosè, così fragile, di quella voce che lo comanda, senza la quale il popolo d’Israele non potrà riavere la sua Legge; Dio gli dice di scrivere su altre due tavole che siano come le prime, ma il come indica una similitudine, più che un’uguaglianza, questo sta a significare che nessuno potrà mai sapere cosa fosse stato scritto sulle tavole originarie; il vero peccato non è ciò che viene mangiato nell’Eden, passo necessario per la cognizione di una vita destinata a concludersi, ma la mancanza del ‘com’era prima’, l’eco di tutte le future nostalgie, che non potrebbe nemmeno dirsi un peccato, piuttosto un vuoto.

Il Decalogo è una prima forma di ‘costituzione’ ebraica che riunisce il popolo d’Israele sotto un’unica Legge codificata da Mosè, scelto come colui che interpreta la qol, la voce dall’alto che, a conferma della passionalità di Dio, pone l’accento sul secondo comandamento:

Non avrai altri dèi al mio cospetto. Non ti farai statua o alcuna immagine che sia in cielo sopra o in terra sotto, nell’acqua sotto la terra. Non ti prostrerai ad esse né le adorerai perché io sono il Signore tuo Dio, un Dio passionale che punisce le colpe dei padri sui figli fino ai tre, ai quattro, per chi mi odia, che fa il bene ai mille per coloro che mi amano e osservano i miei precetti.

Se non è questa una dichiarazione di gelosia. Tale da impedire in assoluto la raffigurazione del divino, di per sé non rappresentabile. Una precisazione così dettagliata sul peccato di idolatria rafforza il principio della gelosia divina, quasi Dio avesse paura di perdere il popolo prediletto, e qui entra in gioco la minaccia che funge da deterrente; Dio giudica secondo passione, è più umano dell’umano. Ma i Comandamenti non sono tutto. Hinneni è, in fondo, la disposizione all’ascolto e a ciò che verrà; anche se scritta e destinata alla tradizione, la Legge non può essere portata a termine, perché l’ultima parola, come prescritto dal Talmud, non è di questo mondo. Ama il tuo prossimo come te stesso, ancor prima dell’avvento evangelico, è la reale complessità, perché la complessità medesima si conosce al confine dell’io, varcando quella soglia che fa entrare nell’altro; un tale atteggiamento ne presuppone un altro che, pur essendo assente dal Decalogo, potrebbe essere reso così: «Non causare dolore». Dio parla al tu, non al voi: non uccidere, non avrai, ricorda, osserva. Perché? Semplice, è la connessione perfetta tra l’io del cielo e il tu della terra, ma la Legge si rivolge alla collettività tutta, dunque come conciliare il tu col voi? Proprio qui si stabilisce una legge che anticipa la Legge: chi salva una vita, salva il mondo intero, come verrà detto nelle generazioni a venire. Una vita è come tante vite. Il dolore, per l’ebraismo, non è uno strumento di sublimazione, perché il dolore sfigura l’individuo e lo rende non giudicabile.

Il conciso e puntuale lavoro di Loewenthal è costruito su uno stile asciutto, che non lascia adito a sotto-interpretazioni. Ma si rivolge ai soli credenti o anche ai laici? A un’analisi onesta, Loewenthal sospende qualsiasi giudizio che non giochi sull’apertura al dubbio anche quando, forse, si sia trovata una risposta. Ed è un male? Può la conoscenza acquisita essere deprivata del diritto che spetta per natura alla conoscenza senza fine? Anche così, la domanda gioca a svantaggio di chi si accontenta. Ma l’imperfezione piace tanto al divino, a quanto pare.