il dono oscuro

Il dono oscuro – Considera il buio ​

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Io non dovevo scrivere quest’articolo. Non è che non volessi scriverlo, anzi. È che non dovevo scrivere questo qui. Il soggetto su cui mi sarei dovuto concentrare, questo mese, era un altro. Avrei dovuto elaborare, più o meno in questa data, un (difficilmente) sintetico articolo sul reboot dell’Uomo Invisibile. Il lavoro era più o meno a metà: avevo letto il romanzo di H. G. Wells (1881) – interessante, ma penso che finisca dove sarebbe dovuto iniziare –, visionato la pellicola di James Whale del 1933 e, un po’ per interesse personale un po’ per cercare qualche aggancio, ero in pieno binge watching della serie di pellicole cinematografiche nota come “I mostri della Universal”.

Durante questo percorso di addestramento attendevo con moderata trepidazione l’uscita del summenzionato reboot, per la regia di Leigh Wannell (Insidious 3) con protagonista Elisabeth Moss, per intenderci la June Osborne di The Handmaid’s Tale. Le aspettative moderate dipendevano dalla discutibile scelta di rendere Jack Griffin, fisico che sogna di far calare il Regno del Terrore su Londra e il mondo intero, uno stalker. Ma mi reputo un tipo di vedute abbastanza ampie, e sarei andato volentieri al cinema per farmi sorprendere. Il nodo di questa introduzione è che però, come potete immaginare, alla fine, causa epidemia-globale-i-cinema-col-cazzo-che-fanno-proiezioni-a-porte-chiuse-solo-per-te, il film è stato rimandato.

Dunque, dovevo cambiare il soggetto. E mi sono guardato intorno.

Mentre leggevo il romanzo di Wells mi ero imbattuto in una frase che mi aveva colpito: «Ero in uno stato di grande esaltazione: mi sentivo come un uomo perfettamente normale si può sentire, con i piedi fasciati e senz’abiti, a muoversi in un mondo di ciechi». Quando l’ho letta, all’inizio mi era scivolata via bene. Metaforica ma anche realistica, descrive lo stato emotivo di un personaggio che scopre le immense potenzialità del suo nuovo potere. Allo stesso tempo, però, in quei giorni, ne avevo incontrata un’altra, di frase, che mi aveva fatto dubitare della precedente: «Per i ciechi l’invisibilità non esiste». Questa proposizione, inserita nella descrizione di un fenomeno conosciuto come “illusione dell’invisibilità” (ovvero una condizione comune a molti ciechi che, non vedendo, pensano di non poter essere visti) mi aveva spiazzato, facendomi riflettere su quanto, anche descrivendo i ciechi, i vedenti parlino in termini visivi. 

La frase sopracitata è tratta da Il dono oscuro di John M. Hull, recentemente ripubblicato da Adelphi nella traduzione di Francesco Pacifico. Hull, docente di teologia australiano, vissuto per buona parte della sua vita in Gran Bretagna, ha riportato in questo libro le riflessioni, registrate su cassetta, che lo hanno accompagnato dal 1983 al 1986, periodo del suo definitivo passaggio alla cecità più oscura. «Negli ultimi mesi ho smesso del tutto di percepire la luce. Ora non vedo davvero più niente. Non distinguo il giorno dalla notte. Posso guardare il sole senza avvertire il minimo bagliore». È difficile per i vedenti comprendere cosa voglia dire buio totale. Possiamo provare a chiudere gli occhi, certo. Potete tentare anche voi ora, come ho fatto io svariate volte leggendo il libro. Allo stesso tempo, però, come me, potreste accorgervi di quanto questo lavoro sia inutile. Personalmente, sentivo il bisogno impellente, dopo qualche secondo di oscurità, di riaccendere lo sguardo, ritrovarmi dentro l’appartamento, riacquistare le coordinate. Inoltre, più o meno a metà del libro, Hull ci spiega come, per comprendere le sensazioni che prova un cieco, non basta «eliminare la facoltà più direttamente coinvolta (nel nostro caso, la vista). Bisogna sperimentare tutte le ramificazioni di questa modalità eliminando un secondo senso (il tatto), in modo da rendere evidente come anche la natura di quest’ultimo, e la sua utilità complessiva, subiscano un mutamento». Insomma, potete fare l’esperimento, ma, specialmente dopo aver letto questo passaggio, potreste anche sentirvi abbastanza idioti.

Il dono oscuro (da cui è stato tratto il film documentario vincitore del British Independent Film Award Notes on Blindness) non è dunque un saggio, e nemmeno un’autobiografia. L’opera di Hull è una raccolta di pensieri attraverso i quali il teologo prova a descrivere, comprendere e apprendere le peculiarità di un mondo sconosciuto (tanto a noi quanto – all’inizio – all’autore) che Oliver Sacks, nella sua prefazione, chiama “il mondo trasformato”. Questa mutazione contagia qualsiasi aspetto della vita di Hull: il rapporto con la quotidianità (moglie, figli, colleghi); la percezione di ciò che lo circonda; il percorso delle sue indagini interne; le peculiarità dei suoi sogni. Il cammino di Hull è sincero: approfondisce l’analisi, espone problematiche e ostacoli, ma non si lascia andare mai ad autocommiserazione o giustificazioni teleologiche. Compie quello che lui definisce «un passo deciso in uno spazio di silenzio».

Questo “passo” è parte di un processo di ridefinizione o, meglio, di disgregazione e ricomposizione, che ha inizio nel mondo fisico e tangibile fino ad arrivare agli aspetti più insondabili dell’animo umano. Per disgregazione qui non si intende necessariamente la perdita di qualcosa, ma un iniziale smembramento a cui segue l’assemblaggio in una forma nuova. Una sorta di mutazione totale, come quella del Dr. Griffin passato in una notte da fisico a Uomo Invisibile.

Dunque.

Disgregazione n.1. Uno dei primi processi di disgregazione affrontato da Hull riguarda il mondo della quotidianità, e in particolare il rapporto con le persone. Ciò che Hull sente di perdere, infatti, una volta imboccato il tunnel dell’oscurità, è l’immagine degli individui che lo circondano. «Gli altri sono diventati delle voci senza corpo, che parlano dal nulla, e tornano nel nulla». Con la dissoluzione dei volti segue anche la scomparsa delle espressioni che, in una cecità buia, assumono un senso totalmente diverso. «Quando sorrido, me ne accorgo quasi sempre. Sono conscio dello sforzo muscolare […] forse perché non c’è riscontro. Niente da ricevere in cambio». Il sorriso, infatti, essendo una forma di reazione, uno stimolo in risposta a un altro stimolo, ha senso solo quando si vede. Andando più nello specifico, il teologo ci illustra come questi aspetti influiscano sulla percezione del mondo circostante: ad esempio, per un sordo (come anche per un vedente), «le persone hanno una presenza duratura. Sono lì per tutto il tempo, tutti i giorni. Per un cieco, invece, non ci sono finché non parlano». Così si modifica radicalmente anche il proprio ruolo all’interno del mondo, scoprendosi in un’inaspettata passività. «Quando sei cieco, una mano ti afferra all’improvviso. Una voce ti parla all’improvviso […]. Io vengo afferrato. Vengo salutato. Sono passivo rispetto a chi mi si avvicina».

Ma come si estende questo processo al mondo circostante?

Disgregazione n.2. Quando sei cieco, ci comunica Hull, tutte le precedenti definizioni visive con cui interpretavi il mondo, i riferimenti spaziali, perdono di senso e valore. L’albero di colpo non ha più colori. Le case perdono le loro geometrie, e ogni aspetto precedente si riduce alla sintesi sottrattiva di tutti i colori visibili: il nero. Quindi cosa può donare una forma a ciò che, in teoria, non ne ha più?

Il ruolo di “composizione” del mondo viene assunto dalla pioggia, dal vento, e più in generale dalle percezioni tattili e uditive. «La pioggia ha un modo tutto suo di dare un contorno a ogni cosa; getta una coperta colorata sopra cose prima invisibili; dove prima c’era un mondo intermittente e quindi frammentato, ora la pioggia, cadendo regolare, dà continuità all’esperienza acustica […] È come se il mondo, nascosto dietro un velo finché non lo tocco, mi si rivelasse improvvisamente». In poche parole, il monologo di Ben Affleck in Daredevil senza le sviolinate per Electra Natchios.

Come per la pioggia, così accade per il vento. Mentre i vedenti osservano le conseguenze dello spostamento d’aria, gli effetti, come le «banderuole che si muovono», i ciechi ne percepiscono le cause: un cieco, dice Hull, «entra con tutto sé stesso nella ventosità di una giornata», e la stessa invisibilità, del vento, «non rende il vento misterioso per i ciechi, per i quali l’invisibilità non esiste».

Il suono diventa dunque una parte essenziale della vita di Hull, né surrogato né sostituto ma semplicemente differente dal senso visivo che noi esercitiamo costantemente (anche ora). Infatti, mentre il mondo visivo fa parte di un universo fisso che «resta sempre lì» ad ogni apertura delle palpebre, quello sonoro è intermittente. «Capisco come si muovono le cose dal suono che fanno. Le automobili producono un sibilo, i piedi uno scalpiccio, le foglie crepitano […] ma dove non c’è movimento, tutto smette di esistere. Essere fermi vuol dire non essere. Muoversi, essere. Il mio non è un mondo dell’essere; è un mondo del divenire». Questo fa dello spazio acustico, per il teologo, «un mondo di rivelazioni».

Anche il tatto diventa fondamentale: chi è cieco, infatti, «vede con le dita». L’esperienza tattile, nonostante il prolungamento del bastone bianco che Hull porta sempre con sé, è profondamente limitata alla propria fisicità: «il mondo finisce dove finisce il corpo».

Se lo spazio si sfalda e si riforma, che fine fa l’altra dimensione che con lo spazio ha un rapporto a doppio filo: il tempo?

Disgregazione n.3. Se mancano alcuni riferimenti visivi, spaziali, cadono anche quelli temporali. Hull si sofferma su questa considerazione all’inizio del libro, sviluppandola poi nelle pagine seguenti. Michael, un suo collega dell’università, gli fa notare che, a suo parere, la percezione temporale di Hull, da quando è diventato cieco, sembra essersi modificata. «Dai come l’impressione di avere molto più tempo a disposizione», dice. Sicuramente, ciò dipende in parte dal fatto che Hull è sollevato da molte responsabilità che non può più adempiere. Ma c’è dell’altro. Non vedere l’avvicendarsi del giorno o della notte ha una profonda influenza sulla sua vita. «Schiaccio l’orologio. Dice che sono le 17:45. È una misura astratta del tempo. È un fatto, enunciato da una voce sintetica. Non avverto il nascere e il morire del giorno». Infatti, mentre i vedenti possono «piegare il tempo», ovvero inserire il maggior numero possibile di azioni in una finestra di ore o minuti molto breve, per lui questa dimensione diventa nient’altro che «lo sfondo in cui si svolgono le attività». Hull non ragiona più in termini di ore, ma di azioni, che incasella una dopo l’altra, costantemente, ogni giorno. 

Cosa resta, dunque, dopo tutte queste disgregazioni? Qual è il risultato? Dov’è la ricomposizione? Il teologo non dà soluzioni perché non ne è alla ricerca. La cecità, infatti, resta «un grande aspirapolvere che cala sulla tua vita risucchiando ogni cosa. I tuoi ricordi, i tuoi interessi, la percezione del tempo e la maniera di passarlo, quella dello spazio e del mondo stesso: tutto viene aspirato». Ma questa disgregazione, come spesso accade nella vita, si riaggrega in un modo totalmente nuovo. Il mondo trasformato. Per Hull si tratta di un’immersione in nuove modalità di conoscenza di sé: «C’è stato uno strano mutamento nello stato di attività del mio cervello. Sembra aver rivolto l’attenzione su sé stesso, per trovare delle risorse interne […]. Mi sento più capace di fare connessioni, di ricordare, di creare collegamenti fra le cose che ho detto e ho imparato negli anni». Spegnendosi il mondo di fuori, Hull compie una ricerca speleologica in un mondo nuovo, interno che, da studioso, ha voluto comprendere a fondo. Questa ricerca non è finalizzata all’accettazione o rassegnazione rispetto al proprio stato, ma alla sua comprensione, acquisizione di senso. Un percorso condiviso da chiunque abbia voglia di rispondere ai perché del mondo – o dei mondi – che lo circonda. «La cosa più importante nella vita non è la felicità ma il significato» ci dice Hull. «La felicità è il prodotto di catene di accidenti che tendono al benessere. La cecità non mi rende felice. Non l’ho scelta, né mi è stata inflitta. Ciò nonostante, come ogni evento accidentale, può acquistare un senso».