All’inizio del 2019 ho comprato un biglietto andata e ritorno per Londra. Le ragioni erano tre: il bisogno di una breve fuga estera, il tè inglese delle cinque, e il punk. La capitale inglese si conserva, infatti, come l’unica città in cui è presente ancora l’eco di quel movimento nato in America sotto gli Stooges e i Velvet Undeground e in seguito preso, masticato e digerito da Johnny Rotten e Joe Strummer. Londra, infatti, alla metà degli anni ’70 venne incoronata come la regina di questo movimento, spodestando la legittima reale d’Inghilterra, Elisabetta II, che non prese alla leggera questa detronizzazione.
La forza attrattiva che da sempre mi richiama verso la Uk capital e la sua musica si compone di una miscela di elementi diversi: un adolescente, una periferia dove nulla succede, un leggero spirito di contestazione neanche troppo ragionato, un pizzico di rabbia a sorreggerlo. Ed ecco che in un attimo ti ritrovi ad ascoltare Combact Rock con una voglia irrefrenabile di fuggire per Londra. Per i puristi della miscela si aggiunga al preparato una dose di nichilismo autodistruttivo, che fa sempre molto punk. Personalmente, ho raggiunto il culmine della vena autodistruttiva da adolescente, quando finii un pacco intero di biscotti Gocciole rischiando l’occlusione dell’aorta.
Quello che mi aspettavo da questa fuga era girovagare per Londra ascoltando il sassofono degli X-Ray Spex, scoprire cosa ne era stato del negozio “Let it Rock”, vivere l’atmosfera che fino a quel momento avevo ascoltato solamente con i Buzzcocks, ballare da sola i Generation X e i Siouxsie and the Banshees, The Jam e banalmente i The Clash e Joy Division. Quello che ho trovato, però, come ogni aspettativa che si rispetti, è stato tutt’altro. Camden Town straripava di bancarelle dai gadget discutibili, mercati generali di magliette di gruppi in serie, street food in ogni angolo. Un fenomeno da baraccone del passato, buono da fotografare. «Avevo scelto Londra come avrebbe fatto un’adolescente, con un’idea romanticizzata del punk e dell’apocalisse urbana quotidiana» dice Claudia Durastanti in La Straniera. «Volevo sentirmi dire come era pogare al palco ai suoi tempi, poi ho iniziato a rendermi conto che per quanto fossero affascinanti quei racconti, non mi appartenevano. Non era la mia storia, era la loro». Ripensandoci adesso, alcuni campanelli d’allarme sul fantasma del punk londinese la Durastanti me li aveva dati, eccome.
Ma d’altronde, come dicono i The Damned, «Life goes on», e di ritorno da Camden, nella inglesissima Tube, vedo decine di poster per il concerto di una band di Bristol. Prendo le cuffie e metto Colossus, la prima traccia del loro album. All’inizio è carica di sinistra tensione (grazie alla batteria asciutta e la distorsione del basso), ogni parola è lenta e ben scandita, poi un crescendo d’impatto si fa strada fino ad arrivare alla parte finale, dove musica e parole esplodono e ribaltano il ritmo. La serie di rime baciate è ironica e tagliente: «I’m like Stone Cold Steve Austin / I put homophobes in coffins». I toni sono crudi e la voce fa frizione, il cantante Joe Talbot ti dà un pungo allo stomaco, e la prima cosa che mi viene in mente è: viscerale. La tecnica musicale non è pretenziosa: «Questa canzone è stata scritta in dieci minuti» ha dichiarato il cantante in un’intervista, ma è stata scelta come prima traccia perché in grado di incapsulare l’essenza dell’intero album: sperimentazione e divertimento per trattare tematiche non piene di gioia come l’omofobia e il bullismo, per citarne due. Il gruppo sono gli Idles e l’album è Joy as an Act of Resistance.
Uscito nel 2018, questo è il loro secondo album, preceduto da Brutalism e quattro Ep. Già solo dai titoli quasi antitetici dei dischi si può intravedere la trasversalità delle tematiche affrontate dagli Idles. Le canzoni spaziano infatti da temi iconici del movimento punk, come la contestazione politica – non manca l’inno contro la Brexit in GREAT, «he cries at the price of a bacon bap», «Blighty wants her blue passport», o le invettive contro i Tories –, la rappresentazione dell’isolamento e l’immobilismo della provincia inglese, con la canzone Exeter, dove viene urlato con rassegnazione «Nothing Ever Happens», passando per l’inno antifascista in Rottweiler. Il disco contiene però anche tracce più intime e personali, come la straziante June, che rappresenta il saluto commovente del cantante alla sua bimba nata morta, per la quale fa proprie le parole di Ernest Hemingway «Baby shoes for sale: never worn», alle quali aggiunge le sue: «A stillborn was still born/ I am a father». Il testo di Mother, invece, affronta la lunga malattia e la morte della madre.
Ma il filo conduttore di Joy as an Act of Resistance è la mascolinità tossica con le sue conseguenze conclamate: il bullismo e il crollo dell’autostima. La sarcastica canzone Never Fight A Man With A Perm è, ad esempio, la celebrazione della mascolinità come insieme di «bullshit» (non parafrasando le parole del cantante). In Inghilterra, infatti, il 94% dei crimini violenti è commesso da uomini, e la domanda che si è fatta questo gruppo è semplice: perché?
Joe Talbot spiega come il libro The Descent of Man di Grayson Perry (inedito in Italia) l’abbia aiutato a comprendere quanto la mascolinità tossica sia un problema radicato nella società inglese, o più in generale di qualsiasi società. Gli Idles puntano col loro album a rompere i canoni di quella vulnerabilità forzata («I’m a real boy / Boy, and I cry / I love myself / And I want to try» – Samaritans), così come a rimediare all’isolamento per un modello machista in cui non tutti gli uomini vogliono identificarsi. È ironico pensare che la canzone che più esplicitamente veicola questo messaggio, Samaritans, assomigli musicalmente a un inno militare atto a fomentare forza, resistenza e potenza («Grow some balls, he said/ Grow some/ The mask/ Of masculinity/ Is a mask/ A mask that’s wearing me»).
Altro bersaglio colpito e affondato dai cinque indolenti è il razzismo. Lo fanno con la traccia più melodica dell’album, Danny Nedelko, (dedicata al loro amico e membro di un’altra band di Bristol, gli Heavy Lungs), con un chorus nato per essere cantato in un pub con le birre in mano: «My blood brother is an immigrant / A beautiful immigrant, He’s made of bones, he’s made of blood, He’s made of flesh, he’s made of love, He’s made of you, he’s made of me, Unity». Più chiaro di così. E se per caso vi stesse chiedendo da dove viene tutto questo rigetto per il diverso, nella società inglese come nel resto del mondo, la risposta che danno gli Idles è chiara e logica, una conseguenza causa effetto, così brillantemente riassunta che smette anche di essere banale: «Fear leads to panic, panic leads to pain / Pain leads to anger, anger leads to hate».
Non è soltanto nei messaggi che gli Idles dimostrano di essere contemporanei e rivoluzionari, – non sono neanche l’unica band inglese post-punk che canti il proprio pensiero sulla condizione britannica (altri esempi, Cabbage, Shame, Slaves), il comun denominatore è sempre lo stesso, – la loro musica è intrisa di una profonda sperimentazione, originata anche dalle loro numerose influenze musicali, quali rap, hip hop, o techno (Love Song). Il gruppo di Bristol riesce a mixare e far confluire tutte queste contaminazioni in un sound personale, eretto su una batteria dai ritmi serrati e filastrocche strillate con una voce che Joe Talbot sembra prendere direttamente dalle sue viscere.
A parte alcune eccezioni come June e Danny Nedelko, il loro non è un album radio frendly, e non vuole esserlo. Suonano sporchi e violenti con chitarre affilate e nervose, e quasi tutte le canzoni ricordano degli inni arrabbiati da pub, dove invece di gettarti addosso la birra questi ragazzi ti gridano in faccia che siamo tutti esseri umani, fragili e vulnerabili, e che abbiamo bisogno di «Much Love», mantra del cantante.
Spesso gli Idles sono stati paragonati a gruppi come i Protomartyr sia per la violenza musicale che per lo spoken word borbottante, o ai connazionali Sleford Mods. Il loro, però, non è un nichilismo ripetitivo e fine a se stesso, questi cinque indolenti brutti e cattivi portano il post-punk a un livello superiore, viaggiando in controtendenza rispetto ai valori moderni, fondati sull’apparire e diventare personaggi. La loro musica è gioia come atto di resistenza a tutto questo. E se c’è una cosa che ha sempre distinto il punk è proprio questa violenza grezza che non chiede il permesso, diretta nel messaggio, senza sovrastrutture tecniche, priva di retorica, che ti arriva come un pugno allo stomaco dallo stomaco del cantante. Gli Idles, inarrestabili, non mentono, come il punk.
Vorrei dire alla Durastanti che come lei sono andata a Londra per le ragioni sbagliate, ma fortunatamente in quella metro a Camden Town di ragioni giuste ne ho trovate.
Johannesburg, per gli amici Chiara Branchini, nasce e vive a Roma. Appassionata di musica e contraddizioni, canta e suona nel gruppo ‘Set on a Sail’, ‘na solita band di periferia.
Quando non è presa ad accarezzare il suo gatto, si occupa delle Playlist musicali di Marvin.