Che giorno è oggi?
Questa domanda mi è stata posta durante uno dei quindici giorni che intercorrono tra l’inizio delle vacanze natalizie e il 6 gennaio. Temporalmente, sarà stato più o meno di pomeriggio. Fisicamente, mi trovavo a casa, nel letto, a leggere.
Quando ho provato a rispondere andando indietro nei giorni e nelle ore e passando attraverso i panettoni e i pandori e i bussolotti della tombola e le carte di Saltacavallo e qualche partita all’unico gioco veramente stimolante di tutta questa infinita sequela e che conoscono veramente in pochi, ovvero Las Vegas, mi sono accorto che, in quel preciso istante, dentro l’appartamento, avevo perso la cognizione del tempo. Cioè, sapevo che era pomeriggio e potevo anche indovinare più o meno che ore fossero, ma non avevo altri riferimenti che indicassero non solo la data, ma anche quale giorno della settimana stessi vivendo.
Questo succede quando gli appuntamenti quotidiani – a scelta tra orario di lavoro, lezioni universitarie, coincidenze della metropolitana, allenamenti di qualsivoglia sport e altre cadenze che potrebbero riempire frotte di vite per eoni a venire – saltano. I giorni, ça va sans dire, sono gli stessi: 60 secondi per 60 minuti per 24 ore per 7 giorni per 4 settimane per 12 mesi che vanno a formare un anno. Ma durante le vacanze, i punti cardinali, quegli ancoraggi rispetto ai quali strutturi la tua percezione del tempo non-natalizio, si sospendono per un periodo limitato, facendoti perdere, in alcuni casi, la bussola temporale. O, meglio, il centro.
È più o meno la stessa sensazione che si prova – altro esempio per chi a Natale solitamente lavora o, per qualche idiosincrasia particolare, non lo festeggia (ma in compenso consuma Thc) – quando si fuma erba di pomeriggio: fuori il mondo prosegue a starnazzare, ma all’interno del tuo appartamento il tempo si dilata, i porti si allontanano, le ore diventano di gomma e il corridoio di casa, prima dritto come una superstrada, inizia a curvarsi, finendo in un luogo vicino eppure lontanissimo, mentre la sera fa il suo ingresso nel salone e il sole va a spegnersi in qualche mare, come un fiammifero.
Poi ti riprendi, sia dalle vacanze che dal Thc.
Il tempo torna a scandire la tua esistenza, la metropolitana riattacca a cigolare, il telefono riprende a squillare e tu ticchetti di nuovo da destra a sinistra come il braccio meccanico di un metronomo chiamato quotidianità, incapace di ammettere che non solo devi tornare a occupare il tuo tempo in maniera fruttuosa ma anche che sì, in fondo ti piace farlo. Perché almeno non sei più in balia di te stesso, e hai trovato uno scoglio, un qualsiasi scoglio, al quale restare ancorato. Infine, accade che a tutte queste metafore marinare, e ai problemi che comportano, si sostituiscono gli Impegni, e semplicemente non ci pensi più.
In mezzo a questo ballo vacanziero e fuori sincrono mi è capitato, anche se i libri non capitano mai, di bussare alla casa di Ash Tree Lane, dimora-labirinto protagonista del romanzo Casa di Foglie, opera prima dello scrittore americano Mark Danielewski, recentemente ripubblicata dell’editore romano 66thand2nd.
La storia, veramente troppo complessa per essere riassunta qui, attacca con un personaggio di nome Johnny Truant, impiegato in un negozio di tatuaggi di Los Angeles, che trova nell’appartamento di Zampanò (stesso nome del saltimbanco in La Strada, di Federico Fellini), uomo anziano morto da poco in circostanze misteriose e vicino di casa di un suo amico, il manoscritto di un saggio critico – La Versione di Navidson – su un documentario apparentemente inesistente girato da Will Navidson, rinomato fotografo internazionale e vincitore del Premio Pulitzer. Il testo è presentato quindi come il saggio di Zampanò, curato da Johnny Truant, pieno zeppo di note di Zampanò e di commenti di Truant alle stesse, e infarcito di appendici contenenti materiale altro ma significativo, come le lettere scritte dalla madre fuori di testa di Truant.
Il tema del documentario a cui il saggio si riferisce è il trasferimento della famiglia Navidson nella casa di Ash Tree Lane. Questo trasloco, che all’inizio contiene tutti i migliori auspici, viene improvvisamente interrotto dall’apertura di un interstizio all’interno dell’abitazione, uno spazio lungo non più di 7mm, che a poco a poco si allarga fino a diventare un corridoio nero e infinito. L’edificio, all’esterno, resta identico; ma all’interno, ignorando qualsiasi legge della fisica, si espande.
Ho riletto questa sinossi e continuo a pensare quello che pensavo prima di scriverla: detto così, non si capisce quasi nulla.
Ma questo non è solo un demerito dell’articolista (che si attribuisce comunque un buon 60% di colpe). In Casa di Foglie, infatti, la stessa esperienza della lettura è parte integrante del romanzo. E l’esperienza, per la stessa etimologia del termine, è da fare in modo diretto. È più o meno lo stesso concetto che Shelley Levene, agente immobiliare protagonista della drammaturgia Glengarry Glen Ross di David Mamet (da cui è stato tratto il film Americani), prova a spiegare a John Williamson, contabile della stessa azienda, comunicandogli, molto velatamente, che lui di vendite non potrà mai capire nulla, perché non ha fatto esperienza delle stesse. «Cambia, il vento. È lì che non ci arrivi. Sai perché? Perché sulla piazza non ci vai, John. Sulla piazza non ci vai, e la storia non la sai. Non la sai perché non c’eri. Non c’eri e non chiedi. Non c’eri, non chiedi, non pensi, non sai, ma allora che cazzo vuoi?»
Dunque.
Casa di Foglie è un viaggio strano. E in questo viaggio ti potrebbe capitare, mentre le lucette dell’alberello sfrigolano come piccole stelle a corrente alternata e tu sei con il naso dentro le pagine, di percepire che qualcosa non va, non nel libro ma in te, associando questa sensazione a qualche tipo di malessere fisico. La nausea, per esempio. A quel punto potresti strizzare gli occhi, e non noteresti grandi cambiamenti. Allora alzeresti le pupille dalla pagina, e attorno a te vedresti che tutto è apparentemente in ordine, solo leggermente spostato. Come se tu, e tutto intorno a te, aveste perduto il centro.
In che modo e per quali ragioni l’autore sia riuscito a creare questa condizione è l’argomento delle prossime non troppo numerose righe.
Partiamo da H.P. Lovecraft. La frase introduttiva del Richiamo di Cthulhu fa più o meno così: «Penso che il destino degli uomini sarebbe ancora più crudele di quanto sia già, se la nostra mente non fosse incapace di mettere in rapporto tra loro tutte le cose che avvengono in questo mondo. La nostra vita si svolge nei confini di una pacifica isola d’ignoranza, circondata dagli oscuri mari dell’infinito, e non credo che ci convenga spingerci troppo lontano da essa». In poche parole, restate sull’isola e non vi allontanate, perché l’infinito è un abisso salato e cupo, e se ci cadete dentro sono cazzi amari.
Ma immaginatevi, per un solo momento, che quel mare buio non rimanesse mare per sempre, ma mutasse forma, incanalandosi dentro il letto di un fiume. Questo fiume da incubo, come ogni corso d’acqua che si rispetti, dovrebbe arrivare da qualche parte, magari un lago. O magari no. Magari, dopo una serie di tortuose anse e continui saliscendi, potrebbe giungere in un innocuo giardino di una villetta della Virginia. Infine, facendo un ultimo sforzo, supponete che questo fiume salga i due-tre scalini del portico, passi sotto l’uscio senza bussare e si innesti dentro un interstizio che misura non più di 7 mm. Infine, ipotizzate che davanti quest’interstizio compaia una porta, che questa porta sia chiusa a chiave, e che quel fiume, da dietro, si espanda di nuovo, lasciando le misure esterne della casa completamente intatte. A questo punto, concedetevi di credere che la casa in questione si trovi in Ash Tree Lane, che la famiglia che aprirà la porta si chiami Navidson, e che voi, come loro, non abbiate la più pallida idea di cosa vi troverete davanti.
Questa è la casa di Ash Tree Lane, ovvero uno spazio infinito che si allunga dentro uno spazio finito. Ovvero, il paradosso di Zenone.
Sarebbe stato formidabile se ci avessi pensato io. Ma il romanzo, come ogni meta-narrazione che si rispetti, te lo presenta già da sé. La forma scelta per renderlo palese è quella di una finta intervista alla quale, secondo quanto troviamo scritto, molti intellettuali degli anni ‘90 si sarebbero sottoposti dopo aver visionato il documentario di Navidson. Tra questi appare il filosofo statunitense Douglas Hofstadter che, gentilmente, ci delucida sul paradosso.
«È molto semplice. Se la freccia è qui nel punto A, e il bersaglio è nel punto B, allora per arrivare a B la freccia deve percorrere almeno metà della distanza, che chiameremo punto C. Per arrivare da C a B, la freccia deve percorrere metà della distanza, punto D, e così via». In poche parole, puoi continuare a dividere lo spazio all’infinito, tagliuzzarlo in miriadi di particelle, ma non arriverai mai a B.
Per quanto illuminante, però, dobbiamo ricordarci che qui non ci troviamo all’interno di un’aula universitaria.
Qui si parla di case.
Dentro, ci abitano delle persone, e tra queste spicca la figura di Will Navidson fotoreporter che, individualmente o accompagnato da altri personaggi (uno dei quali avrà, dentro la casa, un attacco di «mal de mer»), entra in un corridoio apparso da un giorno all’altro nel salone della sua nuova abitazione, che si stende come una lunga lingua nera apparentemente senza fine. In più, metteteci che quel corridoio cambia continuamente forma, e conduce in stanze sempre differenti e senza luce dove, se si aguzza l’orecchio, si possono sentire ruggiti bestiali. Già con queste basi, perdere ogni tanto la bussola, perdere il centro, è, se non giustificabile, credibile. «Come faccio a sapere dove andare se non so neanche dove siamo? Voglio dire, dove si trova quel posto in relazione a questo, a noi, a tutto?» si chiede Navidson, in una delle sue esplorazioni.
L’impaginazione è anch’essa funzionale a incrementare il disorientamento. Le parole si sovrappongono, scorrono parallele, si invertono, rimbalzano a distanza di centinaia di pagine, si allargano e restringono come le mura della casa-labirinto. Il testo si scompone con l’ampliarsi o il restringersi di questa vastità ferina, e tu, durante la lettura, non hai la più pallida idea se alla fine del libro manchino 20 pagine o 200.
Le vie percorse dall’autore per arrivare a questo senso di spaesamento sono, a mio parere, due.
La prima riguarda le peculiarità della corrente letteraria di cui il romanzo è uno degli esempi eccellenti: la letteratura ergodica. Questo genere prevede uno sforzo da parte del lettore che non è ascrivibile alla lettura canonica e lineare, ma che richiede un ruolo attivo all’interno del libro, mandando l’individuo alla ricerca di informazioni, citazioni, parole nascoste, significati celati tra i ribaltamenti di pagina. Per i nerd è lo stesso concetto dei libri game, in questo caso senza la scelta dei finali alternativi. Per i nerd letterari, appartiene alla stessa corrente dei Calligrammi di Apollinaire o S. La nave di Teseo di J. J. Abrams e Doug Dorst. Per chi legge articoli online come questo, il processo è simile, e viene chiamato ipertesto: si interagisce con le parole in modo differente, spaziando all’interno del contenuto e andando alla ricerca di fonti provenienti da altri siti, cliccando con l’indice il mouse, e con il mouse il link.
Ma esiste anche una seconda strada, riconducibile al concetto di ipersitzione Nick Land, cofondatore della Cybernetics Culture Research Unit, la mette così: «L’iperstizione corrisponde a un elemento della cultura effettiva che si rende reale». Dunque, la capacità della finzione di manifestarsi nel mondo fisico. Questa definizione calza come un’ombra sull’esperienza che Johnny Truant, l’assistente tatuatore che scopre il saggio sul mockumentario di Navidson, compie durante la lettura. Truant, l’essere più vicino al lettore che potrete incontrare nel corso del romanzo, inizia a comprendere che il testo, con lo scorrere delle pagine, lo sta contaminando, popola i suoi pensieri (e i suoi incubi) e influenza profondamente le relazioni che intrattiene con gli altri individui, al punto da innestargli un irrefrenabile bisogno di isolamento. «Sentivo che stavo ricominciando a farmi prendere dal panico, non stavo bene. Forse era per via del fatto che avevo perso la bussola, avevo perso la cognizione del tempo e anche dei brandelli di fatti accaduti». Ma come è possibile perdere la bussola dentro una casa (che tra l’altro non è nemmeno quella di Ash Tree Lane, ma l’appartamento sudicio dello stesso Truant)?
Perché l’autore, quello vero, ci toglie, parola dopo parola, la terra sotto i piedi. Per descrivere un oblio privo di direzioni, costruito dentro mura che si modificano a ogni sospiro, inizia ad elencare nel romanzo tutto ciò che la casa non è, tutti gli stili architettonici ai quali non si ispira (783) o tutte le strutture o oggetti che non possiede al suo interno (434). Danielewski, tramite Zampanò, elenca ciò che non c’è per definire ciò che c’è, ovvero un immenso spazio vuoto, il nulla. «Provate a immaginarvelo, nei vostri sogni».
È così che l’autore americano erige un vero e proprio pantheon dell’assenza, che non è nemmeno un pantheon, perché questo vorrebbe dire identificare una struttura dove non c’è, assicurare un riferimento di salvataggio a una mente in maremoto. Cosa che, fondamentalmente, non avviene mai.
Per queste ragioni Mark Danielewski, nella casa di Ash Tree Lane, struttura, a mio parere magistralmente, un’anarchitettura dell’incubo.
Infatti, come il movimento di Matta Clark si prefiggeva, tra gli obiettivi, la parziale demolizione di edifici per evidenziarne la struttura retrostante, ciò che sta dietro l’estetica del palazzo, così Danielewski decostruisce qualsiasi possibile concezione di incubo, qualsivoglia casa maledetta che alberghi nel nostro immaginario collettivo, ogni modellino cronenbergiano di essere deforme, per gettarci nella struttura che abita ancora prima della paura, e che altro non è se non l’abisso, la tenebra priva di senso o, per dirla à la Lovecraft, «l’oscuro mare d’infinito».
Dunque, che fare se ti ci trovi in mezzo? Come rispondi, se qualcuno ti chiede: che giorno è, oggi?
La casa di Ash Tree Lane può funzionare come una gigantesca vasca di deprivazione sensoriale, in grado di rimuoverti dal mondo esterno. Questo potrebbe provocare un leggero senso di nausea, una perdita di equilibrio, come dopo un girotondo troppo lungo. Il tempo si sente infatti in funzione di qualcosa che lo scandisca. Un centro, che nella casa non esiste. «La nozione di una struttura priva di centro rappresenta di per sé l’impensabile assoluto» dice Jacques Derrida.
Ovviamente, puoi chiudere il libro e tornare a ticchettare, ricostruire i muri neri che hai attraversato, magari ritinteggiarli e ripopolarli di stanze e appuntamenti imprescindibili. Fare in modo che il metronomo torni a battere.
Io l’ho fatto.
Ma adesso una parte di te è cosciente che non sono altro che appigli, scogli di un mare nero nel quale navighi da sempre e, dove, a un certo punto della tua vita, affogherai. Te ne andrai dalla casa di Ash Tree Lane, ma in realtà non oltrepasserai mai nemmeno il giardino. È come nel paradosso di Zenone: cammini cammini, ma al punto B potresti non arrivare più. E questo potrebbe anche andarti bene. Perché, parafrasando le parole di Zampanò, il valore di un minuto o di una settimana ora non è più affar tuo.
Redattore di Marvin, scrive racconti, poesie, articoli di approfondimento culturale e contributi sul tema dei future studies. Appassionato di cinema horror e B-movies, ha sviluppato un feticismo per Sharknado, per il quale è attualmente in cura.