It e la doppia memoria

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Tre mesi fa ho promesso alla redazione che avrei scritto un pezzo su It-Capitolo Due. Un mese dopo sono andato a vederlo in un multisala di Roma, munito di aspettative e appunti vari su romanzo/miniserie tv/film. Poche ore dopo la visione della pellicola, però, mi sono reso conto che di tutte le domande sorte, prima e dopo la suddetta visione, una, particolarmente rilevante, sfuggiva ancora alla mia interpretazione. It-Capitolo Due di Andrés Muschietti, al di là dei jump scare, dei deludenti spargimenti di sangue e delle discussioni giornalistico-sartoriali sull’aderenza del romanzo alla trasposizione cinematografica, mi stava infatti richiedendo di sciogliere un quesito al quale non ero minimamente preparato a rispondere: per quale motivo ho visto It-Capitolo Due. Una cosa del tipo: hai letto il romanzo, ti sei guardato entrambi i capitoli, ora trovaci un senso e, se non riesci, lascia perdere. Così, non avendo elaborato una risposta soddisfacente nei giorni a seguire, avevo dimenticato tutto. 

Questo, fino a qualche giorno fa.

Lo scorso sabato sera, catapultato nuovamente in un multisala a rischio non-luogo, dove l’intrattenimento cinematografico era imbottito di ristoranti simil drive-in e sale giochi popolate da bambini a due vagiti dal crollo psichico, ho visto un’altra pellicola appartenente al multiverso kinghiano, Doctor Sleep. Il film, di cui l’unica nota di merito erano i titoli di coda, mi ha fatto tornare alla mente, per una serie di ponti sinaptici in parte a me oscuri, quella domanda che avevo momentaneamente accantonato nel ripostiglio del mio cervello e che, come tante altre, era solo in attesa del tasto “cancella”. Per quale motivo ho visto It-Capitolo Due.  

O meglio.

Perché tutte quelle persone, senza quasi alcuna distinzione di sesso/età/passione per gatti o cani, erano lì a vedere It-Capitolo Due piuttosto che partecipare a qualsiasi altro rituale sociale offerto dal caldo settembre romano.

Quindi mi sono messo a ri-pensare la questione, tentando, una volta per tutte, di dare una risposta esauriente.

Da fan del romanzo di King posso affermare che la ragione prima ad avermi attratto verso il secondo capitolo di Muschietti era stata la fidelizzazione all’universo orrorifico dell’autore del Maine, a cui il mondo letterario, ma soprattutto cinematografico (Shining, Il Miglio Verde, Misery non deve morire eccetera) deve, se non il giusto riconoscimento, gli incassi milionari. King è infatti riuscito a formare nell’immaginario collettivo una cosa che in pochi, quasi nessuno, sono riusciti a fare: la produzione di un immaginario collettivo stesso.

Questa indubbia qualità, però, se sfruttata fino allo sfinimento, può costituire un pericoloso boomerang. L’ambiente narrativo che emerge da molti dei romanzi dello scrittore sta di fatto colonizzando, che ci piaccia o no, la produzione cinematografica contemporanea. E in una catena di multisala dove si vendono film come in paninoteca i sandwich, la pietanza cucinata da Stephen King si dimostra uno dei piatti più consumati. Questo oggetto culturale, dunque, viene riproposto retromaniacalmente fino a riempire ogni pancia; e sarà così per molto tempo ancora, poiché, assoggettando la settima arte alle dinamiche di mercato, come ci ricorda Mark Fisher in Spettri della mia vita, «si afferma la tendenza crescente a sfornare produzioni culturali simili a quelle che avevano ottenuto successo in precedenza». In sintesi: dovremmo sorbirci film e serie tv di ragazzini ciclo-muniti, di età comprese tra i 10 e i 16 anni e abitanti cittadine infestate per molto tempo ancora.

Ma ho comprato il biglietto di It anche per un altro motivo: l’enorme fascino che il villain del romanzo (e del film) ha da sempre esercitato su di me nel corso degli anni. Creatura che assume sembianze differenti a seconda dell’incubo dell’interlocutore (per l’ipocondriaco Eddie, ad esempio, è un lebbroso), Pennywise non è soltanto un reietto che abita gli antri più oscuri delle strade, l’agente del terrore che le infesta, ma l’essenza della città stessa, incubo planimetrico del centro abitato, collegato a doppio filo alla storia di Derry fino al punto che, nelle battute finali del romanzo, la sua distruzione implica lo sprofondamento della città stessa.

Ma queste ragioni, per quanto mi potessero far dormire la notte, non erano ancora soddisfacenti. Per quale motivo ho visto It-Capitolo Due.

Il quesito non ha trovato la sua soluzione fino a quando, come menzionato molte righe sopra, sabato scorso, uscito dalla sala post-Doctor Sleep, non mi sono ricordato di un particolare che due mesi prima mi era sfuggito.

Accanto a me, su un paio di poltrone ergonomiche a prova allungamento gambe, mentre scorrevano le prime immagini di It-Capitolo Due durante la settembrina serata romana, sedeva una coppia di fidanzati. Lei appassionata della narrativa kinghiana, lui decisamente meno. Questa informazione l’avevo potuta dedurre solo grazie alla pratica diffusa in Italia (e quasi obbligatoria nei multisala) del dialogo in sala cinematografica. I discorsi di lei erano infatti infarciti di «Questa scena c’era anche nel primo, ti ricordi?», oppure «Ti ricordi che era successo tra Bill e Bevvie, eh?», o anche «Ti ricordi che questa era la casa» eccetera. La litania si infilava nelle mie orecchie ogni diciassette minuti circa, fino a diventare un’eco alla quale, dopo alcuni tentativi di mostrare il mio disappunto, mi ero arreso, registrando la conversazione monodirezionale come un personale rumore bianco. L’altra naturale reazione, forse più proficua, sarebbe stata voltarsi verso la ragazza e confidarle che se esiste un nesso logico tra i due capitoli di un film diviso in due capitoli non è solo degno di nota, ma anche decisamente normale.

Però.

Il ricordo del salmodiale ritornello della ragazza, il «Ti ricordi» che aveva tenuto in ostaggio le mie orecchie per buona parte del film, mi ha fatto pensare a un particolare abbastanza ovvio e, proprio per questo, fino a qualche giorno fa occamiamente celato ai miei occhi.  

La banda dei perdenti torna a Derry dopo ventisette anni, non ricordandosi quasi nulla di ciò che è successo. Il gruppo dei sei ragazzi ormai adulti è vittima di una perdita di memoria da stress post-traumatico, scaturita dallo scontro con Pennywise e amplificatasi dopo l’abbandono della città, alla quale solo Mike, rimasto a Derry, è immune. Per sconfiggere il clown, i personaggi hanno la necessità di ricordare ciò che è successo, e di rimettere le mani dentro le viscere di quella memoria traumatica che li potrebbe, e li fa, soffrire. Non è un caso che proprio la vita di King sia stata segnata da una simile perdita di memoria. Da bambino, infatti, mentre il futuro scrittore si divertiva a giocare nei dintorni di una ferrovia con un suo amico, quest’ultimo cadde sulle rotaie e venne travolto da un treno. Morì sul colpo, e King fu portato all’ospedale in stato confusionale, affermando di non ricordare nulla dell’accaduto.

Il recupero del ricordo legato a un trauma è dunque cruciale per King, ma questo ancora non basta a spiegare per quale ragione mi trovassi in sala quella sera di settembre romano, affiancato da una coppia di fidanzati dalla comunicazione monodirezionale.

Oltre alla prima memoria, infatti, ne possiamo individuare un’altra. L’immaginario collettivo chiamato It si nutre anche di quella che potremmo definire memoria magica, ovvero il ricordo di un mondo irreale che, per alcuni versi, appartiene quasi esclusivamente all’età infantile. I bambini, infatti, per loro stessa natura, vivono in un universo impregnato di fantasia che agli adulti, molto spesso, è celato. Questa peculiarità viene enfatizzata quando i ragazzi di Derry, in preda al panico da manifestazioni clownesche, tentano di convincere i propri genitori (senza essere creduti) della minaccia-Pennywise. L’incomprensione è evidente nel Capitolo Uno, quando Bevvie, dopo aver assistito a una fuoriuscita fluviale di sangue dallo scarico del lavandino, prova ad avvertire del pericolo il padre, Alvin Marsh, avendo di tutta risposta la frase che segnerà la sua vita da adolescente e da adulta: «Mi preoccupi molto Bevvie, mi preoccupi molto». E questa è la seconda sfida che i perdenti (ormai adulti) di Derry si trovano ad affrontare. Poiché non solo viene chiesto loro di ricordare, ma anche di rivivere i luoghi della loro infanzia con lo stesso sguardo del tempo, per sconfiggere It una seconda e definitiva volta. Devono riacquisire dunque quella visione magica del mondo, parte di una memoria che, a causa dell’evento traumatico e del percorso di maturazione individuale, era stata momentaneamente rimossa. Questo accade, ad esempio, quando Bill Denbrough recupera la storica bicicletta Silver in un negozio di antiquariato, oppure quando i perdenti ripiombano letteralmente dentro il loro vecchio nascondiglio nei Barren. Sarà solo grazie a questa doppia memoria, traumatica e magica, che, in definitiva, i ragazzi di Derry saranno in grado di sconfiggere It.

Ma la considerazione, che potrebbe costituire già una risposta soddisfacente alla domanda di cui molto sopra, fa nascere un’altra questione, alla quale è ora d’obbligo rispondere. Perché il viaggio attraverso la doppia memoria è, per Stephen King come per ognuno di noi, un cammino così imprescindibile?  

Perché ricordare, come scrive l’autore del Maine, «vuol dire attivare una ruota». Siamo le persone che eravamo, e le persone che eravamo già in potenza erano quello che noi siamo oggi. L’adulto che guarda in avanti deve necessariamente guardare indietro per comprendere appieno la propria natura e volgerla verso il futuro, in un continuo processo autopoietico. Questa è ciò che l’autore definisce l’«unica umana possibile concezione di infinito», una ruota che gira su sé stessa, i cui raggi sono i passati che ci abitano, e che faranno parte del nostro futuro. Così il circolo si chiude, la ruota gira e lo farà per sempre.

La ruota, stavolta, ha girato anche per me. Lontano dall’infinitarmi, mi ha portato, tramite un innesco, a rispondere a una domanda che mi ero posto due mesi fa, comodamente accantonata in un anfratto mnemonico. Ha inoltre attivato una seconda memoria, magica, ricordandomi (e spiegandomi) le ragioni della mia personale passione per la cittadina di Derry e dei personaggi che la abitano. Ma, come spesso succede, tornando alla prima pagina del romanzo, si scopre che la soluzione era già scritta all’inizio, inequivocabile, come solo una dedica sa essere: «Ragazzi, il romanzesco è la verità dentro la bugia, e la verità di questo romanzo è semplice: la magia esiste».