Tutto pur di mantenere viva quella fiamma

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È lunedì 5 giugno. Ho un appuntamento alle 11:00 di mattina con Marescotti Ruspoli, quattro giorni dopo avere visto il suo esordio cinematografico, Amusia. Un film sognante, lontano da qui.

Lontanissimo dalla stazione Termini dove io e Marescotti ci diamo appuntamento, in un piccolo bar gestito da una famiglia cinese. Una sorta di luogo di passaggio, di motel aperto solo a colazione e a pranzo. A fianco a noi una strada enorme. Un costante inquinamento acustico.

Marescotti è già seduto a bere un caffè. Indossa gli occhiali da sole perché la luce delle giornate nuvolose «crea cerchi alla testa». Approvo, ma io ho dimenticato gli occhiali. E l’accendino. Lo chiedo alla cameriera, e ne approfitto per ordinare un succo d’arancia. Io e Marescotti facciamo due chiacchiere; rompiamo il ghiaccio.

Amusia è il tuo primo film. L’hai scritto e diretto. È un’opera che ti appartiene totalmente. Perché hai scelto proprio questa storia?

Ho scelto di raccontare questa storia per ragioni emotive. L’amusia (una patologia che non permette alla persona che ne è affetta di “codificare” la musica, e quindi tantomeno di ascoltarla, NdR) è vicina a me, poiché ascolto musica da sempre. Sono riuscito così a relazionarmi con qualcosa di assente in un’altra persona, ma presentissima in me. Come un’immagine in negativo.

Mi pare che Amusia esista in un luogo fuori dal tempo. Non è un passato, non è un futuro e tantomeno un presente.

Amusia è ambientato in un’epoca sospesa. Volevo raccontare l’inizio di una storia d’amore, e le storie d’amore pare non abbiano luogo, non abbiamo tempo. Volevo ambientare il film in un luogo onirico. Poi io sono un po’ old school: mi piace il cinema costruito, mi piacciono i set. Ovvio che non potevo costruirmi tutti i set. Perciò, già dalla fase di scrittura ho cominciato a pensare al luogo in cui ambientarlo.

Mio padre è un fotografo, e in casa ha questo libro di Luigi Ghirri che si chiama Viaggio in Italia. Ghirri scattò una foto al Cimitero di San Cataldo di Aldo Rossi, a Modena. Nella foto nevicava sopra questo enorme cubo rosso, che è il cimitero. Volevo architetture così per Amusia. Quindi sono andato a San Cataldo, per vederlo dal vivo. Mi sono innamorato, e ho cominciato – prima da solo e poi con parte della troupe – a cercare questa architettura razionalista nel modenese, che ne è pieno. Questo gioco di spigoli e forme, sempre diversi per la luce del giorno e della sera, mi ha colpito profondamente.

L’unico vero set in realtà era il motel. Cercavo un motel all’americana, un modello da cui sono sempre stato affascinato. Li vedevo sorgere dalle foto delle highway nei libri di mio padre. Lucio (uno dei protagonisti, NdR) volevo individuarlo lì. Mi incuriosiva capire cosa piacesse o non piacesse a una persona che fa questo genere di lavoro, solitario, lontano da tutto.

Da cosa hai tratto ispirazione per la messa in scena?

Le mie influenze estetiche per il film sono i paesaggi di Ghirri, l’architettura di Aldo Rossi, la pittura di De Chirico e quella di Hopper. I neon di Dan Flavin.

A me ha un po’ ricordato anche il cinema di Nicolas Winding Refn. Proprio per la questione dei neon.

Sì, me l’hanno detto. Forse qualcosa sì. Però a parte Drive, che considero molto interessante, i film di Refn non mi entusiasmano. Però ha un’estetica particolare e un ottimo gusto musicale.

Tornando ad Amusia, si potrebbe dire che è un film che racconta di un sogno?

A me piace quando il cinema ti trasporta in una realtà lontana. Credo si possano suddividere i film in due categorie: viaggi fatti e viaggi sognati. Alcuni film raccontano di viaggi reali, altri di viaggi onirici. Amusia fa parte della seconda categoria, senza dubbio. Questo non significa che tenda a essere irreale. Tutto ciò che è reale, diciamo così, sono i rapporti umani; le relazioni tra i personaggi. E ogni personaggio di Amusia viene travolto veramente nella sua vita, come succede a chiunque. E tutti i personaggi di Amusia alla fine devono accettare qualcosa per evolversi. Sacrificare qualcosa per completarsi.

Il tuo primo film è un film autoprodotto. Come mai questa scelta?

Abbiamo creato Umifilms per partecipare a un bando. Ho studiato cinema prima a Londra e poi a Praga, quindi rientro in Italia senza avere nessun contatto. Quando la sceneggiatura aveva raggiunto una forma accettabile, le prime persone che ho contattato sono state Lorenzo (Lorenzo Fiuzzi, NdR) e Bardo (Bardo Tarantelli, NdR) perché erano le uniche persone di cui mi fidavo; i miei amici. Uno aveva già prodotto un film e l’altro lavorava sui set da anni. Volevo intorno a me persone fidate. Abbiamo preso il punteggio più alto al bando, e con il bando statale avviene un po’ un effetto domino: abbiamo vinto poi il bando in Emilia-Romagna e ottenuto i fondi da Rai Cinema ecc. È stato ovviamente un percorso segnato da tantissimi errori, ma si impara sbagliando.

Oltre quello di avere un controllo maggiore sulla propria opera, quali altri lati positivi ha l’autoproduzione?

Senza una casa di produzione, soprattutto in un’opera prima, sei più libero. Perché non hai un tetto. Nessuno ti dirà: «Guarda Luca Bigazzi (direttore della fotografia di Amusia, NdR) non verrà mai, non ci provare nemmeno a sentirlo: perdi tempo». Senza il tetto puoi vedere il cielo. Puoi sognare. Poi in fase di distribuzione ti ritrovi molto più in difficoltà. Non ti interfacci con il mondo del cinema italiano finché non arrivi alla distribuzione, se la produzione è tua.

E immagino sia grazie anche a questa determinazione che poi, alla fine, Luca Bigazzi, Fanny Ardant e altre persone che nel cinema si sono fatte una certa fama abbiano accettato di lavorare con te.

Assolutamente.

Da una parte questo, fossi nel tuo caso, mi darebbe grandissimo orgoglio, ma dall’altra mi metterebbe anche un po’ a disagio. Lavorare subito con dei grandi nomi, intendo. Com’è stato per te?

Sai, lavorare con Fanny Ardant rende il lavoro del regista più semplice. Perché è un essere umano così intelligente e generoso e umile, ed è un’attrice talmente capace, che ti legge come un libro aperto. Quindi è bastato un piccolo passo da parte sua per dare a me la confidenza necessaria, e a quel punto le ho solo indicato le direzioni emotive delle scene, e poi «Vai pure». Ci manca solo che io spieghi a Fanny Ardant come recitare.

Luca (Bigazzi) se rispetta e capisce la tua visione è il migliore amico che tu possa avere sul set. È la prima persona che guardavo appena terminato il ciak. Lavorando con lui, bisogna cercare di scolpire al meglio la propria visione, così che lui possa avere ben chiara la tua idea del film. A quel punto, messo in un’ottima condizione per lavorare, Luca non può che migliorare il film. Mi sono circondato di persone che erano tutte più brave di me. L’unica bravura che ho avuto io è stata quella di sapere ciò che volevo.

Mettila così: all’inizio avevo l’idea di Amusia, ed era come un blocco di marmo informe. L’obiettivo a quel punto è arrivare a un mese dalle riprese che quel blocco di marmo l’hai cesellato e levigato talmente bene da farlo diventare una scultura. Così sarà visibile agli altri, e gli altri non potranno fraintendere. Se lo vedono, lo migliorano. Così hanno fatto Fanny Ardant, Luca Bigazzi, ma anche Monica Sallustio, Maurizio Lombardi, Maurilio Mangano e tutti gli altri. Io sono l’ultimo arrivato. Posso solo, appunto, cercare di avere le idee il più chiare possibile.

Questo non è proprio anche uno dei valori del regista, in qualche modo?

Certo. Non mi ricordo quale regista disse che fare un film è come essere Cristoforo Colombo sulle Caravelle: devi convincere l’equipaggio che tu sia sicuro che l’America sia lì. Non bisogna essere falsi e opprimenti, ma seguire la propria convinzione e convincere gli altri che si ha bisogno di loro per arrivare lì, in America, alla realizzazione di un film.

Senza incorrere nei luoghi comuni, mi pare che in Italia sia piuttosto difficile emergere per un giovane regista, specialmente rispetto ad altre realtà europee. Sei d’accordo?

Sai, siamo un paese che prende pochi rischi. Ci incanaliamo nelle correnti che non sono le nostre e che sono create dagli altri. E così cerchiamo di rimanere dentro quegli argini. Tutto ciò che non rimane in quegli argini, come magari il mio film, diventa un prodotto difficile da piazzare, come mi è stato detto dai distributori.

Che significa “difficile da piazzare”?

Che non rientra nei criteri di valutazione del mercato italiano. Che può far fatica a percorrere un iter, anche in termini di festival, classico per i film del nostro paese. Però sono speculazioni. Alla fine bisogna cercare di migliorarsi, non di migliorare gli altri.

Noi ad esempio siamo entrati al Black Night di Tallinn (dove il film ha ricevuto il Premio del Pubblico, NdR) che è un festival molto importante. Certo non è conosciuto come Venezia: non ha la stessa visibilità. Ma se vedi la selezione di questo genere di festival è una selezione globale e molto coraggiosa.

Questo ha creato difficoltà per la promozione del film?

No, il film ha intrapreso un percorso suo, di nicchia, che è stato al di sopra di ogni aspettativa.

Ho girato l’Italia in lungo e in largo, accompagnando Amusia, visitando città e sale, parlando con il pubblico, con le persone. E questo mi ha fatto capire una cosa: che il cinema deve essere inclusivo, non esclusivo. Nei festival ti senti figo, ti fai le foto, sei guardato e ascoltato. Ma i festival sono esclusivi. Io credo invece che il cinema debba tornare a essere una forma artistica inclusiva, ovvero che riesca ad abbracciare tutti, coinvolgere tutti. Per fare questo serve uno sforzo collettivo: registi, produttori, distributori, esercenti.

Vedremo Amusia sulle piattaforme?

Sì, dopo gli ultimi giri nelle sale di certo sarà possibile vederlo su qualche piattaforma.

Rimanendo su questo argomento: cosa ne pensi delle piattaforme? Si parla molto di limitazione artistica: il grande schermo è grande per un motivo, vedere un film su un cellulare o sul computer o anche in televisione è diverso. Inoltre, Amusia in particolare credo sia un film estremamente “cinematografico”, tra attenzione estetica e sonora.

Il mio è un film che ti arriva in sala. Sarà interessante vedere come viene percepito su schermi piccoli. Non sono contrario alle piattaforme, credo che siano un mutamento del cinema. Ormai ci sono anche televisori che reggono la qualità. A me però dispiace che si vada perdendo il concetto di agorà. Condividere l’esperienza. Il cinema è ancora una scusa per incontrarci, una delle poche rimaste, mentre scivoliamo nell’individualismo. Il cinema è anche un collante sociale. Perdendo tutto ciò andiamo invece sempre di più verso un mondo individuale.

Per me il cinema non deve insegnare ma segnalare. Uno al cinema può scegliere di vedere un film piuttosto di un altro su una base ristretta, scelta da una persona terza. Da casa invece la scelta è infinita, enorme. E spesso, anche con questo tipo di scelta, si rimane sempre nello stesso circolo, non ci si lancia alla ricerca di qualcosa di nuovo fuori dalla nostra comfort zone.

Essendo Amusia la tua opera prima, hai la sensazione di “rischiare” di rimanere agganciato a questo genere di cinema, a questo stile? Voglio dire: ti spaventa l’idea di fare qualcosa di differente, nel caso in cui capitasse?

Sto già sviluppando il mio secondo film, e appartiene a un genere totalmente diverso rispetto ad Amusia. Credo che sia divertente e interessante per chi si esprime artisticamente evolversi e confrontarsi con cose nuove. Perché se ci si abitua – o si abituano gli altri – alla stessa forma si rischia di annoiarsi o annoiare, e diventare prevedibili.

La domanda che mi faccio prima di scrivere è: a me interesserebbe vedere questo film? Sì? E in che modo, in che forma? Non è importante che sia in linea con quello che ho già fatto. Lo stile poi sarà il mio. Si dice che Picasso dipingesse un quadro al giorno: io credo che quella ricchezza di creatività derivi dall’accettazione che ogni giorno sia diverso. Altrimenti ti incagli, ti fermi a pensare a come dovrebbe essere rispetto a ciò che è stato fatto prima.

In generale, da dove si comincia per realizzare il primo film?

Ho cominciato a scrivere un copione perché vomitavo dolore. Per me la sfida più grande è stata, e credo lo sarà sempre, non sentirsi ridicoli mentre si scrive, riuscire a prendersi sul serio. Cercavo di sopprimere questo senso del ridicolo andando a cercare gli scorci del film, pensando ai costumi, alle musiche. Tutto pur di mantenere viva quella fiamma interna che poi ha preso il sopravvento, conferendomi il coraggio di creare un film.

Illustrazione di Silvia Gariglio