Leggere un libro per leggerli tutti, e viceversa
Leggendo La casa sul cartello di María José Ferrada (Tamuco, 1977), pubblicato nel 2022 da Edicola Ediciones nella traduzione di Marta Rota Nùñes, qualcosa sfugge. La storia sembra semplice: Ramón, che lavora come manutentore in cambio di voucher, a un certo punto della vita decide di salire su un cartello della Coca-Cola che si staglia tra la strada e le palazzine e di non scendere più. Costruisce sul cartello, appunto, una casa, un «nido caotico che pareva messo insieme da un uccello poco interessato agli insegnamenti della sua specie». Ramón è il compagno di Paulina (che nonostante i tanti anni assieme lo conosce «come una persona può conoscere un’altra, ovvero: così così»), zia da parte di madre di Miguel, il bambino che racconta. Ma la trama si complica presto: oltre a Ramón, Paulina e Miguel, la storia riguarda un quartiere quasi integralmente – o almeno sembra – abitato da migranti interni; e una comunità nomade stanziata proprio sotto il cartello. La lotta silenziosa di Ramón avviene nel teatro della lotta per la sopravvivenza tra comunità marginali (però integrate) e accasate e comunità emarginate senza casa, per l’abitare. Una lotta tra ultimi.
La casa sul cartello è allora, prima di tutto, una favola sulle conseguenze sociali delle migrazioni[1]. Per la commistione di atmosfera favolistica e realismo sarebbe facile tirar fuori quello magico, ma no. Anche se Calvino ovviamente c’entra.
Il modello calviniano
Si pensa immediatamentea Il barone rampante di Italo Calvino cioè all’idea che, cambiando prospettiva, osservando le cose dall’alto e con “leggerezza” (la leggerezza delle Lezioni americane – «planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore»), una vita possa rovesciarsi:
«Legami tra quel che accade in alto e quel che accade in basso: Ramón era certo che esistessero. Ci aveva messo trentasei anni per trovare l’osservatorio di cui aveva bisogno per portare avanti la ricerca del silenzio interrotta a nove anni».
Però, tra il romanzo della trilogia araldica I nostri antenati e La casa sul cartello intercorre una differenza sostanziale. Lì il protagonista, Cosimo (un nobile) dà il via a una ribellione che dura tutta una vita, quasi aprioristicamente, cioè per principio, a partire dal rifiuto di un piatto di lumache. Qui il protagonista si ribella alla fine, dopo una vita passata a lavorare.
In entrambi i casi è, per di più, un bambino a raccontare. Per Calvino si tratta di una strategia interna, linguistica soprattutto, in linea con la sperimentazione del fantastico, commistione di immaginario medievale, folklore e favola (Il visconte dimezzato e Il cavaliere inesistente, per forza). Per Ferrada è una strategia sia interna sia esterna: interna perché come per Calvino è un’occasione di ricerca nel linguaggio immaturo; esterna perché è un modo per ribaltare il tradizionale rapporto tra chi racconta le storie e chi le ascolta, cioè tra chi pretende di storicizzare e chi dovrebbe solo riceverla come dato. È insomma un modo, un dispositivo, per rimettere in discussione la Storia, di riavviare la mitopoiesi[2].
Al di qua del mito
Continua a sfuggirmi qualcosa, il qualcosa dell’inizio. È un disturbo, un’interferenza di segnale. Come se La casa sul cartello non fosse solo la storia di La casa sul cartello, che bisognasse interpretare. La conferma ce la dà Ferrada:
«Il carattere di Ramón era qualcosa che gli altri sentivano di dover interpretare. E, come succede con le interpretazioni, ognuno inventava quel che gli pareva. Nella fabbrica di PVC, dove aveva lavorato fino a un paio di settimane prima, dicevano che fosse rimasto traumatizzato quando, qualche anno addietro, la macchina da taglio aveva confuso il braccio di uno dei suoi colleghi con un tubo. Il giorno successivo tutti parlavano della pozza di sangue e di come si contorceva la vittima, descrizione che avrebbero ripetuto mesi dopo, durante il processo a cui si andò perché l’azienda era decisa a non pagare la protesi, visto che lo stupido non era stato il macchinario, ma l’attuale monco. Ramón, a differenza degli altri, ricordava soltanto lo stridio roco che era uscito dalla macchina mentre tagliava l’osso».
La paradigmaticità di Ramón (come del resto di ogni mito, anche in costruzione) è legata al punto di svolta non esattamente del trauma, ma dalla inermità traumatica del lavoro. Si è soltanto uomini mentre si lavora, ma Ramón dal momento in cui è salito sull’albero, per Miguel, è diventato «un amico, un uccello e un maestro», quasi un eroe.[3]
Noi saliremo sopra gli alberi
Non c’è modo di capire – leggendo solo La casa sul cartello – che tipo di frequenza generi il “disturbo”. Per questo, vado a ritroso: Topipittori ha pubblicato nel 2019 (anno di uscita anche in Chile) Un albero, una gatta, un fratello, nella traduzione di Marta Rota Nùñes. È, se ho capito bene, una sorta di autobiografia parziale nello stile particolarissimo di Ferrada: paragrafi brevi, uso delle righe e degli spazi poetico (si legga: ritmo intenso dell’intensità dei ricordi), una certa essenzialità sintattica. È sicuramente il racconto della propria infanzia durante la dittatura di Pinochet (1973-1990), fino al plebiscito e al trasferimento, personale, a Santiago.
Dal punto di vista di una bambina, così che la Storia emerga solo alla fine, quando i genitori non possono più continuare a comportarsi normalmente, a rimanere in silenzio («Mia madre […] ha imparato che anche stare in silenzio è un modo per urlare fortissimo»). Pinochet, a pagina 84 su 94, è finalmente «un maiale». Così, possiamo rileggere i pochi brani “politici”, come questo (dove chiaramente è raccontata la latitanza di un dissidente):
« Mia mamma l’ha detto a qualcuno per telefono: “Jaime (uno dei bambini che abita a due vie da casa nostra) è andato in giro a dire che è perfettamente possibile vivere per varie settimane in un sottotetto. Che c’è posto per un letto, una lampada e persino una casetta della posta. Perché a suo zio, che da qualche mese abita nel sottotetto di casa loro, arrivano un sacco di lettere. E che quando sarà grande, anche lui vuole vivere in un posto così”».
Alla luce anche della metafora degli uccelli, per esempio («Per i primi mesi [i miei nonni] hanno dormito in case provvisorie, un incrocio tra una tenda di campagna e un nido d’uccello») e quindi del volo, e quindi dello stare sugli alberi, sui rami, a guardare di sotto: con Alberto (il fidanzatino-nonfidanzatino; oppure con gli amici. Dagli alberi arriva anche il pericolo della “banda” di ragazzini avversaria). Il libro finisce [sorry, spoiler, ndr] con la protagonista che è costretta a lasciare ai vicini la gatta che aveva trovato. La saluta per l’ultima volta proprio sull’albero: «Lo sai che oggi è l’ultimo giorno che ci arrampichiamo quassù», con l’intensità emotiva, un po’, di chi sta salutando una versione precedente, già storicizzata, di sé. Il fratello del titolo arriva a Santiago e funge da correlativo oggettivo per la vita “dopo”.
Storie di fantasmi
Alberto in Un albero, una gatta, un fratello a un certo punto racconta la storia di un fantasma, un uomo che è stato visto partire ma non ha mai raggiunto la destinazione. Le persone che erano sul treno con lui hanno detto che «così come l’avevano visto, d’un tratto avevano smesso di vederlo». Non è una storia horror, in verità, è – e forse consapevolmente per Alberto – una delle tante storie di desaparecidos. Cioè delle almeno 1102 persone scomparse durante la dittatura di Pinochet.
Il libro è intimamente legato a Kramp, primo romanzo per adulti di Ferrada del 2017, pubblicato in Italia da Edicola Ediciones nel 2020, sempre tradotto da Nùñes. È il racconto sorprendente di una bambina che si assenta molto spesso da scuola per seguire il padre, che di mestiere fa il commesso viaggiatore dei prodotti Kramp, proprio come era commesso viaggiatore il padre in Un albero, una gatta, un fratello. In questo romanzo, la «storia più grande» è affidata a un fotografo in cerca di fantasmi (che poi si scopriranno essere i cadaveri dei dissidenti politici) e alla madre, dissociata e in sostanza muta, apparentemente incapace di volontà. Anche qui il punto di vista preponderante è quello della bambina, che nell’ossessione per i prodotti Kramp mi sembra sfoghi l’assenza della figura materna e, tutto sommato, di quella paterna.
Quando penso ai desaparecidos non posso non pensare ai libri splendidi di Nona Fernández, su tutti Chilean Electric e Space Invaders, entrambi pubblicati in Italia da Edicola Ediciones. Libri essenziali, veloci, corti, spesso caratterizzati, proprio come Kramp (che fa quasi una mitologia dei commessi viaggiatori, con regole da osservare, etica e rituali collettivi), da una sorta di sovrapposizione di immaginari (da un lato è la storia della compagnia che ha portato la luce in Cile, dall’altro è il gioco Space Invaders). Una specie di nascondimento, precognizione del disvelamento, che è un meccanismo simile alla liberazione del Cile dopo la dittatura (non voglio banalizzare, ma ci siamo capiti). Ferrada ha scritto anche, nel 2013, Niños, libro illustrato – da María Elena Valdes e tradotto da Giulia Giorgini per Edicola Ediciones nel 2020 – che dedica un testo poetico a ognuno dei trentaquattro bambini scomparsi durante la dittatura. Per esempio questa, dove torna la metafora dell’uccello e del volo, che non è solo analogica, come dire, ma desiderativa:
Jaime
«Si è fatto amico dell’uccellino che vive sull’albero di fronte alla sua finestra.
Capisce ogni suo trillo e pensa che se fosse piccolo
di pomeriggio potrebbe andare a trovarlo nel suo nido.
Potrebbe anche imparare a cantare, fare insieme un concerto».
Ora, il punto è che immaginare una presenza laddove non c’è è proprio fare fantasmatica (in un pezzo su Boris, serie prima FOX poi Disney, parlavo della figura retorica del fantasma, l’ipotiposi). Nel caso di Ferrada (e di Fernández – ci sarà una ragione), parlare di fantasmi vuol dire parlare di case.
Dell’abitare
Topipittori pubblica di Ferrada anche Il segreto delle cose (illustrazioni di Gaia Stella) e Case (traduzione di Nùñes e illustrazioni di Pep Carrió). Quest’ultimo è una sorta di catalogo di case immaginarie attraverso i suoi inquilini (con nome e cognome, spesso allusivi), un po’ borgesiane o forse un po’ pessoaiane (si può dire?). Poesie in prosa, quasi, che rivelano via via che si legge una rete di potenziali narrazioni, ma completamente inespresse, proprio come sono inespresse le vite di chi è sorpreso nell’atto di abitare. È l’occasione anche di fare aforismatica, anche se per parodia:
«Una casa, nel bene o nel male, significa una routine, e così ogni mattina, dopo aver letto il giornale, Luis Pereira apre la finestra e osserva il suo passato».
Oppure:
«L’Uomo Casa e l’Uomo Scatola sono una manifestazione dell’invisibilità dell’essere umano in società altamente tecnologizzate e razionaliste. Camaleonti che deambulano per le strade delle capitali, mimetizzandosi con il calcestruzzo degli edifici e con i loro abitanti: centinaia, migliaia, milioni di salaryman».
Mi ha colpito molto la storia di Pedro Cisternas, che ha un preciso disturbo (ricordate il “disturbo”, l’interferenza?): vede le cose scosse da un piccolo movimento, un tremore, «come se ogni oggetto fosse seguito da un fantasma che il mio occhio riesce a catturare soltanto una frazione di secondo dopo». Il dottor González è convinto di avere in cura «uno di quei rari casi di persone in grado di percepire il movimento della terra». Ora, a parte l’allusione a un senso di irrealtà che mi sembra quasi biofisico (noi vediamo e percepiamo cose in leggero ritardo, sempre, anche se non ce ne accorgiamo perché è il nostro modo di percezione), mi sembra che qui venga tematizzata, anche se nel processo di rimozione, una pacata ribellione all’illusione sensoriale della realtà. Non c’è ricerca del “trauma” (il braccio tagliato per Ramón) o di particolari segnali (del treno che fischia pirandelliano, per dire; o il “miracolo” montaliano), c’è una piena e totale giustificazione della dissociazione.
In Ramón, protagonista di La casa sul cartello, opera una simile dissociazione. Sceglie di abitare su un cartello pubblicitario, lontano in verticale da tutti, stipulando un compromesso lavorativo, per dedicarsi a una vita finalmente contemplativa. Tutti lo vedono come ammattito, Miguel no, e forse neanche Paulina: sanno che è una presa di responsabilità sul proprio destino. E il fatto che quando viene menzionata la “libertà” del volo degli uccelli, nei libri che abbiamo attraversato, o anche solo la loro “altezza”, ci sia sempre un verbo ottativo, un desiderio espresso, ci dice proprio che questo gesto è una volontà radicale.
Letteratura come conoscenza congetturale
Mi sembra di aver detto pochissimo, nonostante lo spazio impiegato. Riepilogo: c’è una “interferenza”, qualcosa che non torna nel romanzo La casa sul cartello di María José Ferrada. Questa interferenza si inspessisce se pensiamo a come ribalti il modello di Il barone rampante di Italo Calvino, dal momento che non c’è il racconto di una ribellione aristocratica e per principio ma una rivolta basata sull’esperienza; senza dimenticare il ruolo “esterno”, cioè politico, della mirada infantiles. Quindi ho cercato una “risposta” nei libri precedenti, affrontando l’autobiografia Un albero, una gatta, un fratello, che parla di altro tutto il tempo, di preadolescenza e di natura, per poi detonare con un insulto: Pinochet è «un maiale», talmente liberatorio che sembra una preghiera. Da quel momento, il sipario cade: lo zio di un vicino si rivela essere un dissidente e per la prima volta diventa chiara la natura politica dei “fantasmi”. Ergo: il “magico” realismo non è magico, la tipica interruzione di senso che si avverte ha a che fare con l’interruzione di senso della politica dittatoriale di Pinochet, arbitraria (il magico non è mai arbitrario). Quindi siamo passati da Kramp, una storia di sovrapposizioni di immaginari come per i romanzi di Nona Fernández, per arrivare ai libri illustrati, che insistono sulle metafore, che mostrano come le case siano spazi abitabili solo nell’immaginazione, eccetera. Dimenticavo la bellezza di Una nave di nome Mexique, pubblicato da Clichy (illustrazioni di Ana Penyas, traduzione di Maria Pia Secciani), che racconta l’esodo di alcuni bambini e alcune bambine durante la Seconda guerra mondiale[4].
Mi sembra di non aver detto nulla perché ho l’istinto di “conoscere”, sento il bisogno di “capire”, ma capire non è possibile. Ferrada sembra scrivere sempre lo stesso libro, un cubo a migliaia di facce che non si può srotolare. È come se stesse cercando anche lei di trovare un senso, di fare mitopoiesi per processare un dolore individuale e collettivo, una frattura politica.
Per fortuna, tra tutto questo non capire, viene in soccorso Antonio Tabucchi. In La gastrite di Platone (Sellerio, 1998), cercando di rispondere a un articolo di Umberto Eco sul ruolo dell’intellettuale – per il quale, al massimo, vedendo una casa che brucia, può solo chiamare i pompieri – Tabucchi sottolinea che lo scrittore, l’artista, il poeta produce, differentemente da ogni altra figura, una conoscenza «di disturbo», una «conoscenza congetturale». Citando Maria Zambrano:
«Conoscenza congetturale e creativa, ovvero qualcosa “che non è conoscenza intellettuale e che non si può tradurre in essa eppure la precede e la sostiene e senza la quale rimarrebbe fluttuante, per quanto grande sia la sua precisione e chiarezza”».
Dico io (o provo): lo scrittore è in grado di creare cortocircuiti che siano tanto veri quanto una verità ritenuta “oggettiva” o “razionale”, proprio perché a essa complementari. La complessa verità storica della dittatura di Pinochet viene sviscerata, raccontata dal punto di vista del bambino, omessa proprio come altre verità storiche venivano omesse, e poi viene “assorbita” da una storia di migrazione e di liberazione di un working class hero. È una stratificazione nel segno della complessità. Rimane qualcosa che non torna, fortunatamente. Significa che bisogna continuare a cercare.
[1] Almeno quanto Male a Est di Andreea Simionel è un romanzo sulle conseguenze emotive, e quindi personali, della migrazione.
[2] Andrea Jeftanovic nel saggio Hablan Los Hijos. Discursos y estéticas de la perspectiva infantil en la literatura contemporánea (Editorial Cuarto Proprio, 2010) – con le coautrici María José Navia, María Belén Pérez e Lucía Sayagués – sostiene che l’utilizzo dello sguardo infantile può in generale essere visto come un “polifunzionale dispositivo di problematizzazione” utile, nel quadro della trasmissione memoriale, per trattare in modo differente gli immaginari, l’universo concettuale e i patti socio-culturali prodotti in dittatura. Ringrazio Giuseppe Calì per la dritta.
[3] Ascoltate, intanto, Gli alberi dei Ministri, su YouTube: https://www.youtube.com/watch?v=1F2A7uKR2uE
[4] Bello il meccanismo di contestualizzazione storica solo alla fine. Comincia così: «Il 27 maggio 1937, il Mexique salpò da Bordeaux, Francia, verso il Messico. A bordo c’erano 456 bambini, erano tutti figli di repubblicani spagnoli. Si sarebbero rifugiati lì dalla guerra civile che a quei tempi infuriava per le strade».

Demetrio Marra è laureato in Filologia moderna all’Università di Pavia, con una tesi su Luciano Bianciardi. Ha frequentato il Master “Il lavoro editoriale” della Scuola del Libro di Roma. È vicedirettore di Birdmen Magazine, rivista di Cinema, Serie e Teatro. È direttore editoriale di lay0ut magazine, rivista di Letteratura, Traduzione e Cultura Visuale. Collabora con la sezione Lingua italiana di Treccani. È ufficio stampa e redattore della casa editrice Industria&Letteratura. Attualmente vive a Milano lavorando come professore.