Annegare nella parola “mare”
Ho letto la maggior parte di L’inchino del gigante (L’orma editore) mentre ero in viaggio: vivo negli Stati Uniti da quasi quattro anni ma qualche settimana fa, per la prima volta, mi sono allontanata significativamente da New York per trascorrere una settimana tra Colorado e Nevada. Il libro di Christoph Ransmayr si è rivelato un compagno di avventure perfetto: comprende cinque parti, ma ciascuna è divisa in capitoli brevi o brevissimi, che si prestano a sedute di lettura rubate, fra il gate di un aeroporto e la sala di attesa di un’agenzia di autonoleggio.
Sono storie molto diverse fra loro, al punto da sembrare, a prima vista, disconnesse. Lo sono sicuramente nella forma, dal momento che alcuni capitoli sono discorsi pronunciati dall’autore in occasioni formali, come il conferimento di premi o l’inaugurazione di festival, altri sono racconti di finzione, altri ancora resoconti di viaggi di lunghezza varia. Nel contenuto poi i “capitoli” sono ancora più vari: il sottotitolo recita Cinque libri di viaggi e metamorfosi, eppure il testo racchiude la storia della vita del padre di Ransmayr (in Sulla bara di un uomo libero), o un’invettiva contro la distruzione arrecata dal colonialismo (in La bambina con il vestito giallo), o ancora una riflessione su autori siciliani come Vittorini e Pirandello (in Corleone). Insomma, pur non avendo molta familiarità con la narrativa di viaggio, mi pareva fin da subito che quello che stavo leggendo ne era un esempio eterodosso.
La prima sezione e alcuni dei racconti che compongono la seconda sono effettivamente resoconti di viaggi: storie di luoghi perduti – come il teatro a picco sul mare di Glaisín Álainn, dove nessun canto o danza si svolge in inverno perché «ogni nota di canto, ogni parola, ogni grido sprofonderebbe in un istante nel mugghiare che riempie l’intera costa fin nelle sue più remote cavità e insenature», o il cinema di Pottuvil, in cui al posto dello schermo «crescevano ormai rigogliosi fichi strangolatori, muschi e liane» – e storie di luoghi estremi – come il lago Phoksundo in Nepal, dove l’autore «[cadde] fuori dal tempo». Ci sono poi storie di viaggi in luoghi della mente, come quello del narratore che «inventa il mondo» mentre porta i suoi personaggi sulla carta fuori dalla sua immaginazione ed esposti a quella di chi legge; o come l’ode del «teatro del castello in aria», un palcoscenico immaginario su cui Ransmayr e un anonimo «signor direttore» mettono in scena pièce teatrali che scrivono e producono nella loro fantasia. Ci sono però brani che è molto difficile definire “letteratura di viaggio”. La terza parte, che si intitola Signore e signori sott’acqua è un bellissimo racconto che definirei forse di fantascienza: incontriamo la voce narrante, un calamaro di Lesson, mentre si adatta alla sua vita subacquea dopo aver misteriosamente e improvvisamente abbandonato le apparenze umane. È solo quando, sguazzando negli abissi, intercetta come per telepatia la voce “umana” di un gamberetto imperatore che si rende conto di non essere solo nel suo destino di metamorfosi: scoprirà diversi altri abitanti dell’oceano con cui è in grado di comunicare col pensiero distanti dalla propria forma umana precedente, e si interroga sul significato di queste trasformazioni, arrivando a concepire una teoria dell’evoluzione in cui l’essere umano tornerà a essere idrogeno.
È stato a questo punto del libro, più o meno a metà, che ho iniziato a pensare che forse L’inchino del gigante non parla affatto di viaggi, ma di comunicazione, di come noi esseri umani cerchiamo disperatamente di dirci qualcosa nonostante sembri, ancora e ancora, un compito impossibile.
Un primo indizio è nella storia che dà il titolo al libro: l’autore racconta di trovarsi a bordo di una nave a largo di Hong Kong e di assistere ai festeggiamenti in onore della dea del mare Tin Hau, in compagnia di un suo amico e di «due poetesse di Chung Wan, il distretto centrale di Hong Kong, che, sedute al nostro stesso tavolo, ci narravano le storie della dea». Il sottotitolo del racconto è Un pellegrinaggio nel Mare Cinese Meridionale, e la storia sembra a tutti gli effetti il resoconto di un viaggio, con le descrizioni del mercato di Kowloon e le storie della dea Tin Hau. Eppure il racconto si chiude con un aneddoto in cui il viaggio è solo un pretesto: il compagno di Ransmayr ha scritto un poemetto che si intitola La fine del Titanic e racconta alle poetesse di aver chiesto a una persona conosciuta in viaggio «di ritradurgli in tedesco il titolo – giapponese?, cinese?, coreano? – del suo poemetto La fine del Titanic, e come per incantesimo in quel susseguirsi di riscritture e rinarrazioni la “fine” si era trasformata in un “inchino”, il “Titanic” in un “gigante” e quindi la catastrofe nell’“inchino del gigante”». Si parla spesso di ciò che viene lost in translation, tutti i significati e le sfumature che leggendo un testo in traduzione si perdono. Eppure questo mi pare un caso di qualcosa che viene “guadagnato”, nella traduzione, e poi nella ritraduzione.
Forse questa raccolta è dunque un catalogo di perdite e guadagni, una rassegna di episodi in cui ci sono terre lontane, certo, ed esplorazioni avventurose, ma dove ci sono soprattutto (in)comprensioni e momenti di decodificazione dell’altro, visti sia come fallimenti che come fonti di ricchezza. Ogni comunicazione umana, anche all’interno della stessa lingua, anche non mediata dalla parola, anche fra chi si ama profondamente, richiede una traduzione, e credo che questo libro racconti diversi modi di farci i conti.
Ne è un esempio Il cantante, che fin dal suo meraviglioso incipit evoca la musica come strumento più istintivo di comunicazione: «Ricordo un uomo che, dopo aver maledetto ad alta voce il mare e tutti i tormenti del mestiere di pescatore, passava poi a coprire di ingiurie un frigorifero finché di colpo i suoi lamenti e improperi non si trasformavano in un canto». Nell’indifferenza degli altri avventori del pub, il cantante ha tutta l’attenzione dell’autore, che riflette su «la facilità con cui scrittori e lettori tendono a credere a una sorta di congruenza tra parola e realtà; come se non sussistesse una differenza incommensurabile tra il termine “mare” e ciò su cui veleggia verso occidente l’eroe di una storia o in cui un altro annaspa per non affogare, ma alla fine comunque annega. In fin dei conti, persino un narratore che ricorra al parlato, al dialetto o allo slang per essere il più vicino possibile alla realtà deve ammettere come la parola potrà magari trasportare mille messaggi, ma certo mai una nave». Qualcosa è stato trasmesso, in quell’incontro, ma è difficile dire se era ciò che il cantante voleva comunicare, ed è quasi inutile crucciarsene.
Mi pare che lo stesso tipo di frustrazione ritorni nel già menzionato Signore e signori sott’acqua, in cui la voce narrante da un lato è entusiasta di poter comunicare, sebbene telepaticamente, tramite “linguaggio umano”, con i compagni e le compagne di metamorfosi che incontra nell’oceano, dall’altro concepisce una teoria su come l’esito della metamorfosi stessa sia proprio «una progressiva semplificazione», fino «ad abbandonare ogni traccia di comprensione, ogni segno e ricordo del mondo di sopra». Sembra quindi immaginare una realtà futura in cui le pene di questo continuo esercizio di traduzione non esisteranno più. Quando ne parla alla sua «tenera amica Purpleheart» (ex reginetta di bellezza, ora Pesce pipistrello dalle labbra rosse) lei risponde solo «Ah, che tipo che sei…», ma questa apparente incapacità di farsi capire non gli impedisce di vagheggiare una ancora più «fantasmagorica metamorfosi» di quella già subita, in cui «le forme torneranno a essere mere possibilità prive di realtà, le antiche forze della gravità e dell’elettromagnetismo recupereranno la loro efficacia spingendo le microscopiche rovine sparpagliate per il cosmo a farsi di nuovo gli occhi dolci, ad attrarsi – vi prego! – a vicenda, a riunirsi per un’altra sacrosanta volta e creare fenomeni e modi della materia chiara e oscura mai visti o sognati prima, generando figure e creature più grottesche e malvagie, ma forse – così trasmettevo per radio ittica alla mia tenera amica Purpleheart –, forse però anche più affettuose e benevole di quanto noi non siamo mai stati».
Come dicevo, però, l’incomunicabilità non è solo frustrazione, e l’autore sembra tornare, ancora e ancora, a quell’inchino del gigante del titolo, alla magia di quello che può nascere anche nel non capirsi. Ad esempio, in Quando ero ancora immortale l’autore racconta la scoperta dell’alfabeto, e dice di aver provato «una strana felicità e un senso di potenza pensando che – ormai iniziato ai misteri della scrittura – ero in grado di racchiudere nel vocabolo “mare”, composto di sole quattro lettere di pasta, quell’immensità rappresentata nelle illustrazioni dei libri di fiabe come un infinito deserto d’acqua o come una tempestosa montagna di onde mugghianti», e descrive «il fatto che non si potesse annegare nella parola “mare”, sprofondare nel vocabolo “abisso” o congelare nel termine “banchisa”» come un tratto pacifico della «metamorfosi delle cose in lingua». Quando sua madre, che gli ha insegnato a leggere, è in punto di morte, Ransmayr si rende ulteriormente conto di come per ogni cosa che la lingua ci consente di comunicare a chi amiamo, c’è un mondo di altre cose che restano indicibili: «Fragile e affranta, se ne stava sprofondata in enormi cuscini, segnata dai tormenti e dalle metastasi di una malattia furiosa, e io, disperato al suo capezzale, faticavo a trovare le parole per comunicare con quella donna già quasi scomparsa, quando d’improvviso aprì gli occhi e stremata sollevò la mano premendosi l’indice sulle labbra esangui: Silenzio. Zitto. Taci. Non parlare. Richiudendo le palpebre rimase in quella posizione, come se in un ultimo estremo sogno fosse ritornata al bordo del nostro piatto di porcellana a ricordare al suo allievo, sedotto dal vortice delle lettere, che, per quanto fosse preziosa e straordinaria la magica metamorfosi delle cose in lingua e in scrittura, il resto, l’immenso, inattingibile resto, perduto negli abissi di uno spazio infinito, era comunque silenzio».
Cosa c’entra, allora, la narrativa di viaggio? Forse non avrei avuto una risposta a questa domanda se non avessi letto questo libro mentre ero io stessa fuori di casa, in un posto lontano da dove vivo e lontanissimo da dove sono nata. Fra le montagne del Colorado e nel deserto del Nevada, io non capivo quasi niente delle vite che facevano le poche persone che incontravamo in tantissimi chilometri silenziosi, non saprei spiegare granché del “carattere” dei posti che ho visitato, eppure ho percepito con molta chiarezza la differenza profonda rispetto ai luoghi che frequento di abitudine. Il viaggio è uno stato in cui, mi pare, la fertilità e la frustrazione dell’incomprensione dell’altro sono più evidenti che mai. Mandare una foto non sarà sufficiente a dire a chi non era con noi come ci siamo sentit*, ma getterà le basi per un piccolo frammento di un immaginario comune. Guardare e ascoltare con attenzione non basterà a decifrare la complessità di un posto così diverso da ciò che è familiare, ma sedimenterà una curiosità che potrebbe dare i suoi frutti in momenti inaspettati. Condividere uno sguardo con la nostra compagna di viaggio non ci garantisce di star vivendo quel momento nello stesso identico modo, ma si aggiunge al bagaglio di esperienze condivise. Penso che per chi desideri con ardore inestinguibile essere visto e capito dalle altre e dagli altri sia impossibile non percepire la profonda impossibilità di questo auspicio, e penso che il viaggio sia un momento in cui questa complessità viene racchiusa più che altrove.

Ha 28 anni, vive a New York e fa il dottorato in Economia, ma giura che è simpatica lo stesso. Ogni tanto scrive di libri per Ghinea e Supplemento.