A bordo c’era Dio, l’albero di trinchetto e io

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A un certo punto in Grande nave che affonda, l’esordio di Andrea Cappuccini per Edizioni di Atlantide, uno dei personaggi ricorda la triste sorte del merlo che cantava Bandiera rossa ed era ghiotto di pinoli. In una danza fra la vita e la morte il padre di Camillo allineava pinoli sul tavolo e il merlo, fra una martellata e l’altra, ne arraffava qualcuno. «Ma poi una volta suo padre era stato distratto dalla moglie che quel giorno litigavano e litigavano – anche suo padre perdeva facilmente la calma – e niente quell’ultimo taaam non fu proprio ben calibrato e il merlo ci restò sul colpo».

Cappuccini descrive quel momento con una partecipazione amara e tragicomica. Il destino del merlo era segnato in partenza dalla sua posizione di incontrovertibile vulnerabilità: la sua condanna non era stata la ghiottoneria, ma un fato cieco e distratto.

Si potrebbe dire che il destino del merlo, sballottato dalle scomposte intemperanze di una divinità scostante, è simile a quello dei personaggi di Grande nave che affonda e di Torricella, il quartiere alla periferia di Roma che fra una stagione di caldo soffocante, piogge torrenziali e fitta nebbia, si trasforma.

Nel suo recente saggio La Restanza (Einaudi, 2022), Vito Teti scrive: «Ho iniziato ad adoperare il termine “restanza” per raccontare i rimasti, le loro storie “in assenza” di qualcosa o di qualcuno, ma mi premeva soprattutto riflettere su un aspetto apparentemente controintuitivo: il viaggio da fermo di chi resta, e, contemporaneamente, sul radicamento archetipico ad un luogo di chi parte».

Il romanzo di Cappuccini si sviluppa attorno all’assenza e alla coreografata attesa di Taddeo, il figlio maggiore dei Romano, che sta scontando la pena al carcere di Rebibbia. Ma è anche un racconto che si interroga sulla possibilità di creare un immaginario possibile al di fuori di quello conosciuto, scandaglia il rapporto conflittuale con il passato fumoso delle narrazioni e naviga all’interno della nostalgia di un tempo mitico e di un presente incerto in costante mutamento.

Torricella è infatti un luogo la cui identità è stata plasmata dalla generazione del nonno di Taddeo, Settimo, la cui memoria storica è brulicante di aneddoti, ed esiste in un universo narrativo a sé stante, mitologico, che nel suo immobilismo proietta nella generazione dei nipoti, quella di Taddeo, Aurora e soprattutto Diego, un senso di malinconia e incompletezza, «quando finivano quei racconti, perché nel farli pareva ogni volta dovessero condurre a un qualcosa di più che non c’era mai».  

Il quartiere misura la distanza dalla metropoli romana non in mancanze, ma in certezze: «Comunque c’era in quelle storie come un nebuloso filo comune, una traccia nascosta che le univa». Con la gentrificazione, l’avanzare del mastodontico e anonimo agglomerato metropolitano, l’attesa del ritorno, ma soprattutto la perdita di identità comunitaria in favore di un’esistenza atomizzata filtrano la narrazione corale delle vicende di Torricella attraverso i drammi individuali dei suoi protagonisti: i nonni Settimo e Patrizia, il padre Camillo e la madre Viviana, Aurora la secondogenita e Diego, il migliore amico di Taddeo, si muovono a modo loro nello spazio famigliare minacciato dall’erosione. Fra passeggiate notturne, scorribande alcoliche, vecchi amici redivivi e serie tv di culto, i Romano cercano di far fronte all’assenza, agli equilibri sfaldati e alle memorie frammentate e dolenti.

«Roma aveva fatto sì che Torricella restasse inosservata, affossata in una valle tracciata dalla capitale per poter lasciare Torricella, Casalino, Grotta Buja e tutti quegli altri posti alla loro solitaria esistenza. […] Ma poi le esigenze della città cambiano e, a poco a poco, i luoghi di confine, da colonie scordate di una civiltà padrona, vengono rimessi in gioco» e con loro gli abitanti, che osservano la toponomastica cambiare, mentre il paesaggio si squaglia al sole o si ricompatta gelido in una nebbia persistente. Proprio come il quartiere, anche i Romano e Diego si agitano scomposti, chi silenzioso e assente, chi tormentato e vagabondo, fra i rimasugli di un passato leggendario e un futuro che non si può possedere, ma solo subire: «Spasmi di ribellione confusi e sparsi, incazzature mute, e un logorante senso di inquietudine, per tutta Torricella era più o meno lo stesso. Ma un posto come Torricella è sempre animato da questi spasmi, dalla voglia di avere una rivalsa, di raggiungere un successo, da una strana speranza zoppa, tanto zoppa quanto più chiassosa, irrisolta».

Dalla Malattia dei Fulmini di Camillo, alla “vista” di Viviana, la noia che si propaga come una nebbia che incaglia i vecchi alla nostalgia e dirotta i giovani al centro scommesse, le droghe e l’abulia, alla rabbia, non solo «accesa e dura come quella di Camillo, né sprezzante e malinconica come quella di Diego, ma una rabbia triste e muta che faceva sì ci si potesse rompere una gamba da soli» (la rabbia di Aurora, che si inabissa nelle vicende grottesche di Twin Peaks in compagnia di un vecchio gatto morente).

Ma casa Romano, albero maestro di quel veliero in tempesta che è il quartiere, è anche teatro di «utopie minimaliste»,[1] luoghi di resistenza interiore e comunitaria, dove si sviluppa un’idea di famiglia allargata e non monolitica, di accoglienza sgangherata e convivenza slabbrata, dove transitano persone legate da fili confusi, da una memoria storica e territoriale che è sì faziosa ricostruzione, ma è soprattutto agglomerato di vite diverse che trovano il proprio filo conduttore nell’esperienza liminale della non appartenenza alla metropoli.

Grande nave che affonda custodisce al centro della sua narrazione la pietà, che non è il tentativo di preservare i personaggi dalla sofferenza, o mitizzarne le difficoltà, ma porta con sé un intento narrativo preciso, uno sguardo partecipe, alle volte persino sodale, delle loro disavventure.

Gli abitanti di Torricella non sono figure tragiche e bidimensionali, ma persone che si confrontano con un paesaggio in continua evoluzione e si fanno narratori delle loro storie per collocarsi in un tempo in transizione con un linguaggio scarno e quotidiano. Lo stile di Cappuccini restituisce ai Romano e a Torricella una «mitologia tribale» che si rispecchia nella natura picaresca degli aneddoti e nei dialoghi, essenziali eppure quasi mistici, dove al consueto si accompagna il leggendario e i generi si mescolano per rivelare le increspature della quotidianità. 

Saranno l’amore per Antonella, una vecchia amica di Taddeo, e la processione stanca di volti amici risucchiati dall’immobilità a spingere Diego oltre i confini di Torricella, dove a «furia di provare a essere allegri, un po’ più allegri ci si diventa, pure se con una certa nota amarognola». Ma non sempre ciò che nasce fra i moti ondosi e pigri della provincia sopravvive al mare aperto, alla città e alle sue distrazioni, le insidie delle possibilità che costellano il disamore. La fuga, che all’inizio si colora dei fasti della possibilità, diventa un solitario vagare fra le cicatrici d’amore in un paesaggio sconosciuto.

L’attesa dei personaggi è anche l’attesa di Torricella che, con il suo tempo sospeso ma scandito dal puntuale scorrere delle stagioni e i loro eventi atmosferici estremi aspetta immobile di essere fagocitata dalla metropoli. Quella di Grande nave che affonda è l’attesa che la nebbia si diradi per rivelare cosa è sopravvissuto. All’oralità viene affidato il compito di preservare la memoria del passato mentre si materializza un futuro incerto; nel presente niente esiste se non la tensione fra queste due tendenze inesauribili.

Ma Torricella, attraverso le voci dei suoi personaggi e le storie dei caduti e i vinti, diventa terreno di possibilità. Anche se Grande nave che affonda non offre un lieto fine in cui i moti ondosi di ribellione si ricompongono in uno scenario di pacificazione dei conflitti, arricchisce e ricrea il paesaggio con nuove energie vitalistiche. La restanza infatti «non è una scelta di comodo o attesa di qualcosa, né apatia, né vocazione a contemplare la fine dei luoghi, ma è un processo dinamico e creativo, conflittuale, ma potenzialmente rigenerativo tanto del luogo abitato, quanto per coloro che restano ad abitarlo».


[1]    L. Zoja, Utopie minimaliste. Un mondo più desiderabile anche senza eroi, Chiarelettere, Milano 2013