La genealogia orfana e meticcia di Gabriela Wiener
C’è qualcosa che manca in questo museo: è la mummia di un bambino del Chancay, Perù. Ci troviamo nella collezione Wiener del Museo du quai Branly, a Parigi, uno dei centri di sviluppo della disciplina antropologica occidentale, ossia nel centro di uno dei “centri” del mondo, l’Europa. Osserviamo, però, i reperti archeologici da una prospettiva diversa, periferica, laterale, quella di una donna peruviana e migrante che curiosamente porta lo stesso cognome dell’esploratore che dà il nome alla collezione, il suo “autore”, quindi, colui che portò questi reperti in territorio francese; oppure, soltanto un saccheggiatore di tombe. L’autrice, e voce narrante, si riflette in una teca vuota (quella che dovrebbe ospitare la mummia mancante), il cui vetro muta per un attimo in uno specchio poroso, e il suo “profilo incaico” ne diventa, per alcuni secondi, l’unico spettrale contenuto.
Nel suo nuovo romanzo, tradotto da Elisa Tramontin e pubblicato da La Nuova Frontiera, Gabriela Wiener, affermata scrittrice e giornalista peruviana residente a Madrid, si addentra nelle trame fitte di un mestizaje (meticciato) irrisolto, e irrisolvibile, per ricostruire e decostruire la sua storia, quella della sua famiglia e dei suoi antenati. Da qui il titolo, Sanguemisto, in lingua spagnola Huaco retrato, ossia un pezzo di ceramica preispanica che cercava di rappresentare i volti degli indigeni nel modo più accurato possibile così da catturarne l’anima.
Nel ripercorrere le tappe della sua identità frammentata, la scrittrice inizia con il visitare la collezione del suo trisavolo, l’esploratore franco-austriaco Charles Wiener, un celebre avventuriero che nella seconda metà del XIX secolo viaggiò a lungo sulle Ande peruviane, dalle quali portò in Europa diversi reperti archeologici (e un bambino indigeno). Un viaggio a ritroso dentro quel cognome europeo, in quell’eredità pesante che è un fardello di cui volersi disfare, più che un lignaggio di cui andare fiere: l’identità sudaca della protagonista (termine dispregiativo che sta per “latinoamericano”, nel testo orgogliosamente rivendicato) «cerca di scacciare il Wiener» che porta dentro. Tuttavia, fare i conti con quella storia è anche riconoscere alcune parti di sé, pensare e pensarsi nella complessità; più che aspettare o cercare di ricucire i lembi di una ferita probabilmente (tragicamente) irriducibile, accettare lo squarcio da cui si genera la propria identità, aprirsi al processo di continua ridefinizione, cercando di tenerne insieme i pezzi nella loro inconciliabilità.
Quello di Wiener è un libro onesto, una confessione autofinzionale, un puzzle che combina la storia dei suoi antenati, il rapporto con il padre appena morto e con la sua “famiglia parallela”, gli equilibrismi emotivi di una relazione poliamorosa e riflessioni sulla propria maternità. La protagonista cerca di comprendere il “tradimento” di suo padre, che si svela umano e fragile attraverso il lutto, mentre cerca di gestire l’amore per un uomo cholo (nello spagnolo andino, un individuo meticcio in cui però prevalgono i tratti indigeni), quello per una donna bianca, spagnola, e quello per la figlia cresciuta in questa relazione impossibile, inaccettabile per la società in cui viviamo.
Con un impianto diaristico e uno stile risoluto e diretto, Gabriela Wiener sviluppa il racconto a partire da un dato biografico per realizzare un’esplorazione identitaria più amplia, collettiva, che giunge a un tentativo di avvicinamento ai progenitori di una stirpe orfana e bastarda, fatta di padri assenti e sempre in fuga, per arrivare a una riflessione sulla colonialità del desiderio erotico, delle forme dell’amore e delle relazioni. Sanguemisto è un piccolo manuale autobiografico di decolonialità, che porta alla luce questioni capaci di accompagnare la lettrice o il lettore europei in riflessioni sulla propria posizione, sul proprio modo di concepire identità, saperi, relazioni.
Sanguemisto è anche il tentativo di aprire uno spazio, anche se breve, di immaginazione, per restituire voce e corpo a chi è stato lasciato ai margini di questa storia, della Storia. Come, per esempio, María, la madre che in Perù ha cresciuto da sola Carlos, il figlio di Charles Wiener; o la madre di un ragazzino indigeno, costretta a venderlo all’esploratore per sfamarsi. Carlos e il piccolo anonimo: due bambini diversi ma dal destino speculare. Il primo rimane nel paese dove è stato concepito e il futuro gli riserverà una discendenza meticcia, quella, appunto, dei Wiener, a cui appartiene la scrittrice del nostro libro. L’altro, invece, viene portato in Europa da Charles, forse, secondo una deplorevole pratica di fine Ottocento, per essere “esposto” in un museo; non sappiamo molto altro. La sua assenza, il suo essere senza nome si rispecchiano nell’anonimato spersonalizzante e nella mancanza della piccola mummia del principio. Questa, ci dice Wiener, è la vostra parte di eredità, quella europea. E ci chiede di occuparcene, di guardarla. Cosa ce ne facciamo di questo bambino, di questa mummia, e della loro contemporanea discendenza?
Ed è così che l’erede imprevista di Wiener – una sopravvissuta che scrive – inventa un’immagine per quel bambino perduto: un istante in cui il piccolo indigeno torna ad avere un corpo, anche se solo tra le ultime pagine di un libro. Lo trasforma in un «simbolo in cui riconoscersi» e, pur senza lasciar presagire false speranze, attraverso il quale evocare con cautela una possibilità, uno spiraglio di ricongiunzione; oppure, soltanto, un tenero addio.

Ilaria Stefani è romagnola ma ha vissuto in diverse parti d’Italia, Irlanda, in Galizia (si vanta di saper parlare fluidamente il galego) e in Ecuador, dove ha insegnato in una scuola indigena (ma il kichwa non è riuscita ad impararlo granché). Odia il turismo e ama la scoperta. È una camminatrice, un’ottima spettatrice di teatro e danza contemporanea, e dottoranda in letterature ispanoamericane.