Cameretta del latte. Solitudine e silenzio come territori inventivi
A volte, quando penso agli sfortunati che ho incontrato nella mia vita, mi pare che vivano circondati dalla loro specie.
Notti insonni, Elizabeth Hardwick
I always had a hunch
I would crumble in the crunch
Yeah, maybe I’m the only one for me
Maybe I’m the only one for me, Purple Mountains
La linfa vitale della società è il suo dialogo, gli esseri umani cercano di esplorare lo spazio e di seppellire i propri ricordi nelle capsule del tempo per evitare il silenzio intergalattico e quello temporale, nella speranza di riuscire a sviare la fitta vena di solitudine che ci scorre dentro. Vogliamo vedere la storia della nostra voce dispiegarsi come un filo, raccolto e inserito nella cruna di un ago, per essere d’uso in una scala di visione più grande. Desideriamo annullare la distanza e fissare l’esperienza nei nostri bulbi oculari trasparenti, ma cosa significa davvero per ognuno di noi essere vicini ed essere lontani? Qualche anno fa assistetti ai provini per una rappresentazione dell’Amleto di Shakespeare, sedevo nel buio della sala con gli occhi fissi sul palco e l’udito teso al calpestio di una lunga fila di aspiranti Ofelia. Ognuna delle attrici muoveva in silenzio le labbra, ripetendo a mente il famoso monologo della pazzia. Ofelia è colei per cui la lingua inglese ricorre al neologismo della solitudine, legandolo ai suoi sentimenti covati e al suo corpo di donna. Nel suo monologo, Ofelia si rivolge al pubblico immaginario e attorno a lei c’è la materia dell’assenza; nella rappresentazione di questo momento così denso, le attrici cercavano appigli per gli occhi e per le braccia, si muovevano con fare sincopato, inseguendo oggetti inventati che qualcuno insisteva a portare lontano dalla loro vista, a far ricomparire per magia e poi sparire di nuovo. Vidi lì per la prima volta l’idea della solitudine creata per l’osservatore esterno, e il modo in cui si faceva tanto più credibile quanto lo era lo sfondo contro il quale percepirla, che vi fosse dunque una radice di vita condivisa in quelle due sfere che sembravano appena sfiorarsi (da una parte Ofelia in sé stessa, e dall’altra il resto del mondo). È ciò che accade nelle pagine bianche che separano i giorni in un diario, aprono un conforto e la possibilità del respiro, creando di fatto un varco verso la vita. Ho un amore per le frasi che respirano, per ciò di cui sono capaci, e per l’idea sottile che si possa in qualche modo sostare dentro di esse in un bozzolo sicuro e a prova di stridori esterni. Auden definì la poesia come un discorso memorabile (The Poet’s Tongue), lasciandoci guardare le manifestazioni epiche di silenzio o i sospiri intensi come ai possibili frammenti di una stanza. Nel suo saggio Rhyme’s Rooms: The Architecture of Poetry, Brad Leithauser scrive che nulla potrà eguagliare, per memorabilità, il suono del primo pianto di un neonato, suggerendo che i maggiori poeti scriventi potrebbero muoversi in un territorio prelinguale. Il bambino ha un accesso originario al linguaggio, che verrà poi intaccato e represso e gerarchizzato e punito e classificato; l’essenza della poesia è rilevare l’estraneità nel linguaggio, la sua natura increata. Ogni grande scrittore è il traduttore della propria lingua inaccessibile, ed è capace di allestirla spogliandola dall’atmosfera asfittica del suo segreto. Lo fa seguendo il richiamo di un amore per la lingua diversa da quella familiare, per dividere, per raddoppiare, per accompagnare i nuovi suoni e le nuove forme. Tutta la letteratura richiede presenza e tutti i poeti chiedono una nuova lingua, una lingua che potremmo definire straniera, perché cresciuta in un corpo diverso da quello del poeta, diventando un territorio distante e di preziosa conquista. Il poeta si interroga sull’identità della propria lingua quando è sola e sull’identità che assume quando partecipa alla lingua dell’altro. C’è una congiunzione violenta tra coloro che vogliono dedicarsi alla scrittura del pensiero e il silenzio che incontrano per esercitarla.
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Quando sono a casa da sola, vivo nella sottrazione degli echi, gli unici suoni che mi arrivano sono quelli dei tasti del computer, o il canto di un uccellino fuori dalla finestra dello studio, a volte una voce che grida alla ricerca di un nome, e verso le due ci sono le voci dei bambini che escono da scuola muovendo tutto il corpo come molecole frenetiche. Se mi concentro, riesco a distinguere i fruscii dei loro giubbotti che vengono accartocciati e gettati tra le braccia di qualche genitore, sento i loro piccoli passi cominciare a saltare per tornare a manifestare la piena libertà dopo le ore di costrizione. Trascorro la maggior parte del giorno a lavorare alla mia scrivania e ho dovuto istruirmi al suono, imponendomi di pensare ad alta voce, di pronunciare frasi intere a beneficio dell’accuratezza del pensiero che sto cercando di affilare. La mente ci induce a credere che il pensiero non abbia bisogno di rifiniture, che sia già compiuto in quanto perfettamente comprensibile per noi che lo abbiamo prodotto. Ovviamente è un errore, solo l’affaccio verso l’esterno può vagliare la sua efficacia, deve esserci un contrasto di voce per renderlo credibile e dargli una spinta verso l’espansione. Le parole muoiono in bocca se non abbiamo qualcuno a cui destinarle.
In Passi Falsi, Maurice Blanchot scrive di come sia grottesco e meschino che l’angoscia, la quale apre e chiude il cielo, abbia bisogno, per manifestarsi, dell’attività di un uomo seduto a tavolino per tracciare lettere su un foglio. Per quanto appassionato sia il materiale dello scrittore, sono necessari una certa distanza e un certo distacco prima che il concetto possa essere realizzato, ed è in questo regno solitario che nasce la sensibilità dell’esiliato, dell’esilio stesso in quanto universo dinamico – l’immagine del giovane chino sulle sue carte logore in una biblioteca gelida che gli ammorbidisce i polmoni appartiene ormai a un mondo concluso, la tranquillità necessaria per il lavoro creativo deve ora presumibilmente svilupparsi nella coscienza dello scrittore stesso. Si potrebbe obiettare che questo meccanismo di volontaria esclusione dal mondo finisca col ridurre i margini dell’esperienza letteraria (una delle domande che viene posta spesso agli scrittori riguarda proprio la quantità di biografia versata nel loro lavoro, e molta narrativa contemporanea e di autofiction stimola particolarmente questa inchiesta), ma il vero limite è nella definizione di esperienza alla quale costantemente ricorriamo. Esperienza è per noi ciò a cui abbiamo assistito, qualcosa di vissuto direttamente nella nostra pelle, ma dobbiamo trovare la forza di riconoscere come esperienza anche ciò che è vissuto nelle vite immaginarie e ciò che osserviamo nelle vite degli altri. Il materiale è sempre interessante se è vivo e contestualizzato; se c’è una pulsazione al centro, se il corpo della narrazione è attaccato al pianeta e penetra nel mondo intorno. Ciò potrebbe persino rispecchiare le carenze del pensiero e i suoi fallimenti, ma non è interessante vivere dentro una bolla di persone le cui esperienze confermano la nostra senza ampliarla. Implicherebbe una resa all’uniformità.
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Sono cresciuta in una fattoria circondata da boschi e montagne, nell’entroterra abruzzese, in un paese con seicento persone sparpagliate. Entrambi i miei genitori lavoravano da mattina a sera, intervallando la loro fatica con qualche controllo per assicurarsi che noi figli avessimo superato il giorno mantenendoci integri. Ricordo che nel pomeriggio, dopo la scuola, facevo i compiti in uno stanzino ristrutturato – il luogo più vicino alla sorveglianza che i miei genitori avessero trovato, dentro c’erano un tavolino, delle sedie e una finestra con un vetro che non ho mai visto limpido. Questa stanza veniva chiamata cameretta del latte, perché in passato, circa trent’anni prima, quando mio nonno era ancora vivo, veniva utilizzata come deposito per conservare il latte prima che venisse venduto. Da quella cameretta, sentivo tutti i suoni del mondo e anche tutto il silenzio che riuscivo a immaginare, vivevo la mia esperienza soggettiva nello spazio liminale, e una solitudine che non sapevo riconoscere (era il modo in cui vivevo e in cui vivevano tutti gli altri che conoscevo, dunque l’unica versione convincente) – solo a tratti l’atmosfera mi appariva con una profondità diversa, cupa e disorientante, nel modo in cui il dolore si avvicina a un cucciolo i cui occhi sono ancora incollati. Sedevo con i gomiti sulle ginocchia, il mento appoggiato sui palmi delle mani, consapevole che da qualche parte c’era uno spazio altrove, un altro mondo, vasto e rumoroso, desiderabile con la sua idea di sporcizia confusa. Nel suo saggio Coventry, Rachel Cusk descrive una condizione simile, seppur collocata tra confini puramente immaginari. Scrive di un’espressione idiomatica inglese: “to send someone to Coventry”, mandare qualcuno a Coventry (una cittadina del Warwickshire che fu distrutta durante la Guerra civile del Seicento), un luogo immaginario in cui i suoi genitori la spedivano quando c’era l’intenzione di punirla, ignorandola come se avesse smesso di esistere. «Sono stata terrorizzata da Coventry, dalla sua vastità, desolazione e solitudine, e da ciò che rappresenta, che è l’espulsione dalla storia. A volte, a Coventry, riflettevo sulla libertà», Cusk scrive di essere riuscita a sentirsi libera nell’invisibilità, libera come qualcuno che sa di dover vivere a Coventry per sempre e di doverne trarre il meglio, di dover trovare un percorso quotidiano tra i rifiuti e gli edifici distrutti. Crescendo, quel particolare tipo di esilio assume per lei un significato benefico, risultando persino confortevole, un posto sicuro in cui vuole restare, rifiutando di rimanere all’interno della sicurezza data dall’appartenenza. Coventry permette di riflettere sulla scrittura e sulle condizioni in cui si svolge, vivere in un luogo di silenziose rovine ha un potere speciale per uno scrittore, è un modo per dislocare sé stessi dalla storia, dalla sicurezza della vita sociale e di descrivere il mondo così come si mostra. Rendere alieno l’Io permette di percepire le condizioni materiali della vita da un punto di vista esterno, di manovrarlo nella santità della solitudine. Una volta completata la separazione iniziale, la soggettività tornerà a unirsi alle realtà materiali da cui è emersa. Uno scrittore che sa come dare al contenuto soggettivo una forma oggettiva saprà sempre restituire la sensazione della verità. Senza il processo di oggettivazione dell’esperienza soggettiva, avverte Cusk, il lavoro creativo può solo progredire fino a un certo punto. E aggiunge, «Non è semplice, non può esserlo, devi rischiare il fallimento» forse intendendo dire che non può esserci espressione naturale o istintuale (questi concetti, accostati alla creazione artistica, sono meno che eccitanti, sono il contrario di eccitanti) e che si corre il rischio di affrontare il linguaggio usando solo le sue frattaglie, o di scrivere qualcosa sulle angosce sontuosamente banali che ci accompagnano quotidianamente, ma per tornare ad Auden, «La poesia non è magia. Nella misura in cui si può dire che essa, o qualsiasi altra arte, abbia uno scopo, è quello di dire la verità, disincantare e disintossicare», concludendo che: «La poesia non fa accadere nulla».
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Una freccia indica Sei qui.
Respira.
Sei solo un punto. Uno spazio vorticoso.
Respira.
Nessuno ti troverà mai.
Quando la luce del Sole sembra ostruire piuttosto che rivelare, quando avviene il disagio e senti di essere incompatibile con la tua stessa visione del mondo, quando la solitudine rischia di farti disapparire emotivamente.
Ho impiegato anni di analisi per tradurre questo concetto in realtà e prima che qualcuno me lo dicesse usando parole prese da un dizionario di psicologia, credevo che fosse un’esperienza normale, o addirittura soltanto periodi che si sarebbero conclusi prima o poi. La prima volta avevo circa sedici anni e credevo che stare distesa fosse la mia vocazione. Rimasi chiusa nella mia camera così a lungo, con le finestre serrate, che cominciai ad avere forti emicranie per mancanza di ossigeno. Mio padre ipotizzò che fosse un problema di circolazione del sangue, cronicizzato dallo stare distesa: il sangue ristagnava in certi punti del mio corpo e intaccava le capacità cognitive e il cervello. Fu una mia insegnante a suggerire che andassi da uno psicologo, lo disse a mia madre, che aveva l’aspetto più accogliente, e infatti lei mi caricò in auto come un grosso cane da portare a una visita veterinaria e restò seduta in una sala d’attesa mentre una psicologa indagava sulla mia identità mettendomi in imbarazzo (un imbarazzo che avrei sempre riconosciuto, che si sarebbe impresso nella mia memoria sensoriale come un odore). Dopo la seduta, mia madre volle rincuorarmi offrendomi un pasticcino alla crema, che mangiammo in auto facendo commenti sulla qualità della panna – un argomento che ci permetteva di evitare le parole crisi e depressione. Tornando verso casa, avvertii il momento in cui il corpo percepisce il proprio rientro nello spazio che sente sicuro, i muscoli si rilassavano alla visione dei campi di silenzio. Una lieve euforia di ripristino che sostituiva la tensione al centro degli occhi, volevo solo tornare a curare il mio stato di assenza, tornare a fare niente, a sentire niente, a vedere nessuno. Ci volle ancora qualche anno, un apparentemente infinito depositarsi di giorni, prima che tutte le cose che vedevo – le recinzioni, gli animali, la polvere, le strade, gli ulivi, un trattore rosso parcheggiato, le rocce di ghiaccio che rilucevano dalla cima del Gran Sasso, divenissero cose coscienti e schiacciate dal peso del mondo reale che iniziava a emergere. Improvvisamente, l’idea di restare sola col mio corpo fermo divenne tremenda, così presi la mia solitudine e la spostai altrove, in una città con milioni di abitanti e una topografia delle strade così fitte da farmi sentire sempre disancorata, ma comunque presente, in movimento, con gli occhi glassati di smog. La nuova solitudine ebbe inizio quando respirai l’aria della strada nell’ora di punta della sera. Vidi tutte quelle persone chiuse nelle loro auto, inferocite dall’attesa, un fumo sottile che si sollevava e solidificava lo spazio, così che camminarci dentro significava sentire ogni centimetro di pelle sottoposto a una pressione per impatto.
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Voglio ansiolitici, rilassanti, stimolanti, allucinogeni – in un ordine confuso.
Nel futuro la solitudine potrà essere curata con una pillola che indurrà i nostri corpi a produrre ossitocina, per farci credere che qualcuno abbia carezzato la nostra pelle con intenzioni di soccorso amorevole o che si sia preso cura di noi durante un uragano. I nostri ricordi si riempiranno di felicità senza forma alla quale non sapremo dare spiegazione e così la falsa felicità sarà indistinguibile dalla felicità intera e diventerà un ammasso di plastica lucente che ci terrà a galla per un miracolo privo della sua natura celeste.
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Ogni viaggio è una metafora di tutti i viaggi compiuti o in lavorazione, in esso troveremo le reminiscenze di un volo verso altre vite che magari abbiamo solo sognato, ma che vivono cucite sulla nostra pelle per accrescere la nostra sensibilità verso la ricerca, l’oblio, il ricordo, il silenzio. Spesso arriviamo a trovare noi stessi quando sentiamo di aver raggiunto una distanza salvifica dal nostro nucleo attivo, o quando crediamo di aver agito una rivoluzione della nostra stessa materia. Ho l’idea che la poesia si presenti a noi nelle forme che cerchiamo per intuito, e che avanzi come un percorso – nel momento della massima disperazione, ci troveremo circondati da parole che custodiscono i nostri bisogni, i nostri desideri, le esperienze che cerchiamo da lungo tempo, diventando un flusso di orientamento. Certi luoghi esistono solo perché qualcuno li ha descritti, ed è particolarmente vero per ciò che riguarda i paesaggi sensoriali ed emotivi. C’è un piacere intenso nel riconoscere questi luoghi in un linguaggio rivendicato dalla finzione, come se in condizioni abituali ci si trovasse all’interno di una camera anecoica, una stanza priva di riverbero in cui si può sentire il proprio sangue scorrere e le ossa all’interno del proprio corpo raschiare, e da qualche parte provenisse un suono che articola per noi un pensiero che da sempre ci si mostra offuscato: è lì che avviene un’inondazione di ornamenti che trasforma il silenzio in parole vivide (vedo parole che si muovono le une sulle altre, che riempiono tutti gli spazi, una scatola che contiene la totalità del suono prodotto dalla visione interna). Nei suoi Sonetti a Orfeo, Rilke scrive di una danzatrice e della connessione tra l’essere umano e la forma naturale. Al culmine del balletto, la ragazza sta vorticando in un punto, Rilke ne parla come di un albero fatto di movimento, trasfigurandola: un modello umano di movimento diventa un albero, una forma naturale. La velocità del movimento la rivela all’occhio che la osserva come una superficie statica, un’illusione ottica. Il movimento si delinea persino nell’oggetto immobile e ancorato. Un albero fatto di movimento vivo e impercettibile. Questa carne solida si scioglie, la forma scorre, il flusso si ripresenta in un nuovo spirito. Davanti ai nostri occhi, la danzatrice di Rilke passa dalla forma umana a quella dell’albero e infine diviene creta che gira sul tornio di un vasaio. Le forme si incontrano e coesistono, elementi di un quadro naturale. Il silenzio che accompagna gli occhi è il punto fermo, il divario transitorio tra soggetto e oggetto. Cosa facciamo se possiamo vedere ma non essere visti? Come riusciamo ad assumere il ruolo di occhio e di puro movimento?
Nel romanzo Le cure domestiche di Marilynne Robinson, le due sorelle protagoniste (Ruthie e Lucille) si ritrovano a trascorrere una notte nel bosco – escono di casa per percorrere un sentiero, ma si addentrano troppo nella foresta e la luce inizia a scomparire, intrappolandole. Giacciono fianco a fianco in silenzio, in una capanna improvvisata, ascoltando i suoni nel buio della foresta intorno a loro. Dopo un po’ si addormentano, Lucille con un sonno leggero e Ruthie in uno stato tra il sonno e la veglia, piuttosto allucinato: sogni, ricordi ed echi le risuonano nella mente. L’esistenza che le due bambine hanno condotto fino a quel momento è decisamente transitoria, hanno perso la loro madre, non hanno mai conosciuto il padre, hanno perso la nonna che si prendeva cura di loro e si ritrovano a vivere con zia Sylvie (una donna eccentrica, che viaggia per la nazione sui treni merci, coltivando strane ossessioni e stringendo amicizia con personaggi svitati) in una casa che pian piano accoglie colonie di gatti e di polvere e di foglie secche, costruita con un legno instabile che viene smosso dal vento gelido (i fianchi della casa si spezzano, il soffitto trema sulle loro teste). La casa si trova a Fingerbone, una cittadina che sorge accanto a un lago che talvolta si riempie d’acqua causando potenti inondazioni e annegando ogni cosa in una palude. Quando le bambine emergono dal bosco, accade una scissione: fino a quel momento erano state un unico corpo, inseparabili, ma la loro esperienza si divide. Ruthie ha trascorso la notte in ascolto, ricordando e sentendo nell’oscurità una fluidità con il mondo che la circonda, rivelando a sé stessa: «La solitudine è una scoperta assoluta». Sua sorella Lucille invece prende una direzione opposta, rifiuta il corpo suo e quello della sorella (la forma dell’occhio, il flusso) per cominciare una vita normale, più adatta alla coscienza degli abitanti di Fingerbone – un vero tradimento, spezza il cuore. Ruthie accetta sé stessa, capisce di essere come Sylvie, che la sua solitudine è preziosa, poiché contiene un rifiuto ed è un ponte sospeso verso la libertà. Ruthie lascia Fingerbone alla fine dell’alluvione, fianco a fianco con zia Sylvie, su un treno per l’Idaho. Sono libere e un tutt’uno con il mondo, la voce di Ruthie (che pareva essersi indebolita dopo la separazione dalla sorella) è ora di nuovo intensa e vibrante, così come tutti i suoi ricordi e le sue aspettative. Sul treno, dall’altra parte del lago, verso est, ovunque: continua a muoversi, a tenere vivo il suo silenzio, a posare quanti più occhi possibili. Le cure domestiche è un libro così attraente sulla vita solitaria per il modo in cui percorre la linea sottile tra il temuto orrore di stare a guardarsi dall’esterno e la sensazione che la solitudine possa essere il proprio desiderio più fervido. Conferma che, per alcuni, le insicurezze imbarazzanti (come quelle che di solito associamo all’adolescenza, il primo approccio al di fuori del corpo) non scompaiono mai. Per quanto Ruthie si sforzi di resistere, trova allettante la versione di vita offerta da Sylvie (per cui le cure, il riordino, sono l’accumulo compulsivo e curioso): l’esistenza solitaria è il Santo Graal.
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Muovo il mio corpo attraverso la città assecondando il prurito nelle vene che mi indirizza verso l’esterno, per fare una passeggiata e per guardare i giochi di ombre sulle strade che vengono calpestate. Trovo un posto in cui sedermi e leggo alla luce del sole, mentre osservo di sfuggita gli altri corpi che si muovono. Nella solitudine, il mio approccio è a spirale, i presagi mi attraggono, mi sembra che ci siano segreti da inseguire, vorrei prendere nota della tenerezza e della stanchezza che osservo, e perdo il senso delle dimensioni, persino di quelle del mio corpo. A volte ho bisogno di uscire per ricordare come sono fatti i corpi e per dimostrare che nel mio non c’è niente di mostruoso che dovrei cominciare a temere (ho sempre lo stesso numero di dita, di occhi, di cicatrici all’altezza delle ginocchia, di labbra…) Mi sento: fratturata, spaccata, guardata, inguardabile.
Esco e penso: guardatemi. E poi: non guardatemi.
La solitudine, che la si osservi dall’interno o dall’esterno, può sembrare un’infermità, qualcosa da compatire. Qual è la condizione di un problema quando il problema sei tu vivente? È come meditare sulla struttura di una cucitura infetta che tiene insieme i tuoi pezzi.
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Voglio tornare indietro nel tempo fino al momento che fa scattare la molecola dell’impulso a sentirsi accerchiati, quando si vede quello che si vuole vedere e lo si ricerca strenuamente, in una specie di contemplazione utopica e protetta – il momento in cui esplori uno spazio nuovo, in cui non ci sono ancora volti che riconosci o che riconoscano il tuo, e cerchi di sovrapporre quello che senti ad alcune parole che abitano lo spazio, per spostare la tua identità o per intensificarla. Vedo me stessa seduta in attesa della metropolitana, con i miei abiti più invernali e comunque impreparata alla presenza del freddo in una città che avevo creduto potesse essere solo calda o caldissima, mentre cerco di ricondurre qualcosa a me stessa tramite le pagine di un libro, studiando i solitari che abitano la solitudine in modo permanente. Nei saggi che affrontano l’argomento dei solitari, le biografie narrate trovano sempre un punto in comune: un desiderio molto forte di nutrire una lingua e aprirla alla vista, con la fragilità e il terrore (dell’incomprensibilità, dell’incapacità) implicati nel processo. Nel suo saggio La sentenza di morte, Blanchot paragona la perdita del silenzio all’esperienza del lutto, un rimpianto incommensurabile il cui dolore è esso stesso votato al mutismo – l’unico elemento, impercettibile, è il suono del respiro. Sviluppa così l’idea di un ciclo di silenzi schiacciati e congiunti: soli in una stanza, non c’è nessuno in casa, quasi nessuno fuori, la solitudine inizia a parlare, e noi dobbiamo a nostra volta parlare di questa solitudine parlante, non per derisione, ma perché sopra di essa aleggia una solitudine più grande, e sopra quella solitudine un’altra ancora più grande, e noi, prendendo la parola per soffocarle e farle tacere, invece facciamo loro eco all’infinito, e l’infinito stesso ne diventa l’eco, aprendoci a un orizzonte di conflitto che ci paralizza. Torniamo quindi agli occhi, all’osservazione – l’impegno a localizzare l’esperienza della meraviglia in ciò che si rivela e che scegliamo di tenere a una distanza intoccabile.
Nel romanzo Indelicacy, Amina Cain racconta la storia di Vitória, una giovane donna che vaga da sola per la città. È una flâneuse, e si può essere flâneuse solo quando si è sole. Per lei camminare è assorbire, assorbire è scrivere, e scrivere è essere vivi. Così come andare al balletto, ai concerti, al museo, a teatro e stare seduta alla scrivania. Questi sono i momenti che le danno il vero piacere. Vitória è sempre sola, eppure vive nell’eccesso sensoriale, attratta dall’arte alla quale può assistere quotidianamente – si occupa delle pulizie in un museo e il desiderio di essere una scrittrice nasce osservando le tele, davanti alle quali vive vere e proprie esperienze di trance (vengono menzionati i lavori cupi di Caravaggio e di Goya). La scelta di Cain è quella di staccare il racconto dal tempo e dai costumi, la storia potrebbe avvenire oggi, ma ha un sapore antico, di luce la cui unica fonte può essere una candela. Non c’è dubbio che la scelta della solitudine di Vitória sia un esilio autodeterminato, è lei a scegliere da chi farsi avvicinare, prima due amiche che condividono le sue passioni e poi da un uomo che diventa suo marito, con la promessa di uno spiraglio di futuro ideale: uno spazio per scrivere e il regalo del tempo senza preoccupazioni economiche. Dopo un po’, quella situazione le appare opprimente, quella nuova configurazione è un compromesso che la tormenta – per il lettore è una variazione di campo impercettibile (la narrazione si mantiene isolata e meditativa), ma per lei diventa inquietante, troppo da sopportare. Si sente come se stesse perseguitando la sua stessa anima, riconoscendo nella solitudine una pratica tanto quanto un istinto di piaceri contestuali. Il matrimonio finisce con il marito di Vitória che la istruisce a una versione della storia: lei sarà la donna instabile che non vuole avere figli per potersi dedicare a sé stessa (alla scrittura). Vitória obietta: “Ma non sono instabile”. Lei vuole solo avere uno spazio silenzioso in cui la sua anima possa divenire. La solitudine, per l’occhio esterno, è un processo transitorio che porterà (che deve portare) di nuovo verso la luce del sole, verso una cena con gli amici, verso una famiglia, verso una serata in un locale affollato di facce senza occhi. Per il solitario, colui che cerca la distanza col mondo, la solitudine è un processo che richiede tutte le sue energie.
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Due anni fa, alla fine di settembre, ero tornata in Abruzzo per far visita ai miei genitori. Mi trovavo nel paesaggio collinare e primitivo che avevo sempre sentito come il mio posto nel mondo, ma i miei muscoli erano meno rilassati di quanto ricordassi possibile e c’era uno strano potenziale inventivo nella terra che avevo conosciuto solo come materia immobile – la vedevo mutata, aveva dei suoni che prima non ero riuscita a osservare. Sin dalla mia prima intuizione dell’idea del mondo, avevo immaginato che le proprietà fondamentali del suo spirito includessero una specie di luce soporosa e un silenzio architettonico – è quello che succede quando vedi la natura morire di continuo – e che per vivere si dovesse insistere in una pratica di allineamento della materia piena (un corpo, un cranio) verso la sua lenta erosione. Con me c’era l’uomo di cui ero innamorata e ricordo di essere stata invivibile per tutto il tempo, nervosa, infantile, capricciosa, insopportabile. Sentivo che quello era un varco, stavo lasciando che qualcuno vedesse il mio silenzio originale e temevo che avrebbe dato l’impressione sbagliata, un’impressione troppo modesta di quello che mi aveva offerto e di come fosse riuscito a inventarmi. Faceva molto caldo, l’aria era secca e incollata, e c’erano stati degli incendi nei boschi: tutto odorava di cose polverizzate e di fuoco vivo, di una sottile paura. Eravamo in auto su una strada piena di curve e all’improvviso un cervo è saltato sulla nostra corsia. Dietro di lui doveva esserci il fuoco, sembrava terrorizzato e doveva essere in fuga da ore, aveva un respiro violento e le sue zampe tremavano. Il cervo ci ha fissato per un istante e poi ha spiccato un altro salto ed è tornato indietro. L’immagine mi aveva così sconvolto che ho continuato a raccontarla al mio ragazzo, nonostante avesse assistito alla scena proprio accanto a me. Nel rievocarla ad alta voce, ho scoperto che le nostre versioni non coincidevano, io ero sicura che il cervo fosse tornato indietro, terrorizzato più da noi che dal fuoco, lui che avesse attraversato la strada e che fosse sparito in un cespuglio. Forse l’avevo immaginato, volevo una versione in cui sentirmi l’intrusa, così sparire sarebbe stato più semplice, come fare un salto all’indietro verso una paura già esplorata che ti dissolve dai bordi. Forse ero di nuovo sola con le mie visioni. Credo di avere abbastanza spazio dentro di me.

Sara Verdecchia è nata in Abruzzo nel 1997, ora vive a Napoli, dove lavora come traduttrice, editor e ghostwriter. Collabora con la casa editrice Pidgin Edizioni ed è stata artista residente presso la Giancarlo DiTrapano Foundation for Literature and the Arts.