Vivere di storie e stile: il giornalismo secondo Wes Anderson

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Prima che la vita per me si riducesse a un oscuro cineclub solitario che manda a nastro capolavori alla Quarto potere e piccole perle come L’isola dei cani – che a mio avviso si legano benissimo per via di brevi e inutili citazioni di quest’ultimo nei confronti del film di Welles –, prima insomma che la mia vita diventasse un microcinema d’essai governato da pile di dvd che vengono su dal pavimento come alberelli sbilenchi, io, molto tempo fa, ero un inviato per un piccolo giornale romano assai periferico che oggi non esiste più, tirato in poche migliaia di copie giornaliere, e che neanche posso più nominare, ché non vorrei il lettore si mettesse a cercare su Google; di pentimento ne ho già avuto abbastanza.

Basti sapere che all’epoca avevo una moto, vent’anni e voglia di scoprire piccolissime e improbabili storie di strada, allo stesso modo di un Herbsaint Sazerac interpretato da Owen Wilson, cronista del French Dispatch che se ne va a zonzo in bici per Ennui-sur-Blasé, piccola cittadina francese inventata per l’occasione, mostrandone abitanti, scorci e luci come fosse un presepe animato.

Questo mio passato da giovane reporter wannabe, pazzo per le stramberie narrative offerte dalla città, dovrebbe già farvi capire da che parte tirerà il pezzo: The French Dispatch è un parco giochi per aspiranti scrittori, reporter più o meno smaliziati e cultori di ciò che si possa definire un buon racconto; un diorama della perfetta – fiabesca – redazione giornalistica di modello americano, una brigata di cacciatori di storie, l’odore del new journalism, andare in giro e cercare il fatto, le persone, le ragioni, i movimenti naturali di un ambiente cittadino; e poi metterci la propria voce, una scrittura che renda tutto omogeneo e sensato: lo stile è uno strumento che serve per restituire al mondo un oggetto estetico all’altezza del tempo rubato al lettore. Ed è la poetica del cinema di Anderson, dopotutto.

Il French Dispatch, giusto per darvi un po’ di contesto – ma mi pesa: e non credo vi serva – è questa rivista totalmente immaginaria, ispirata al New Yorker; anche i redattori, le personalità che la compongono e vi gravitano attorno sono ricalcati sui miti dell’Olimpo giornalistico di Wes Anderson: nei titoli di coda, infatti, viene mostrato un lungo elenco di autori cui il regista si è ispirato per i suoi personaggi – primo a saltarmi all’occhio è stato James Baldwin, scrittore su cui Anderson ha modellato il suo Roebuck Wright, interpretato da Jeffrey Wright.

Sono andato a vedere The French Dispatch al Greenwich di Testaccio, una sera di qualche settimana fa, e c’era in sala con me, ovviamente a qualche fila di distanza, solitario e severo, Nanni Moretti. Sono stato per tutto il tempo a chiedermi se a Nanni un film del genere potesse piacere; ho soppesato ogni inquadratura, ogni dialogo, mentalmente ho giocato un estenuante ping-pong tra le mie impressioni e le sue: quando c’era un’inquadratura troppo estetica, un chiaro riferimento alla nouvelle vague, soprattutto quando in campo compariva un Timothée Chalamet spettinato, indolente, in bianco e nero (e per mio gusto mi esaltavo), pensavo subito al brontolio della critica morettiana, la bava alla bocca come se gli si fosse stata nominata Wertmüller, immaginavo la sua vocina sfiatata e ammonitrice che mi rimproverava per il troppo entusiasmo, diceva di ritornare nei ranghi, perché il buon cinema non è per forza quella cosa per cui se pensi un’inquadratura che sembra un tableau vivant e ti danno carta bianca – i soldi – per realizzarla, allora il film è riuscito; ma Nanni, a me il cinema piace perché mi perdo nelle immagini, quando sono in sala vivo nel mondo del prelogico, lasciami stare un attimo, goditi i colori pastello e le wunderkammer, il gusto per il Novecento perduto, in fondo sei qui perché eri pure tu curioso di vedere l’ultimo lavoro di quel manierista di Anderson, lasciami fare le mie considerazioni. Comunque, una volta che il film è uscito dalla stazione del prologo e ha cominciato a macinare il suo ritmo, io e il mio Nanni interiore ci siamo dati una calmata.

Se French Dispatch sia un film riuscito, non riuscito, citazionistico, troppo citazionistico, e se troppo citazionistico perché, in che modo, di quali citazioni si parli, se sia un film appagante, da rivedere, se Nanni l’abbia approvato o meno, a me, in questo momento della mia vita, deluso come sono da molto cinema brutto e inutile ma soprattutto da molte cose della vita, prima fra tutte non esser riuscito a diventare un reporter che vive di storie e stile, che poi è il cuore del film, interessa poco. E comunque buoni indizi su un genuino gradimento, fin qui, li ho pure dati: è fra i migliori di Anderson.

La formula a episodi, dacché ogni redattore del French Dispatch è protagonista del proprio stesso pezzo, dà al film una cadenza sostenuta, dal momento che le storie raccontate sono relativamente brevi, dense di idee visive e con personaggi curatissimi tanto nella scrittura quanto nell’impatto estetico. Non ho annotato brodi allungati come in Grand Budapest Hotel e mancanze di carattere come nel Treno per il Darjeeling. Non ha senso starvi a raccontare per filo e per segno la geometria delle composizioni, le pellicole da cui certe posture degli attori sono ricalcate: per queste cose ci sono gli articoli sui siti di settore, molto accurati; io qua sto su Marvin e il patto con le ragazze e i ragazzi della redazione è stato chiaro: parlo comunque delle mie cose. Sicché, qui di seguito, tre “momenti” del film tratti da tre diversi episodi che mi hanno convinto a inserire questo decimo lungometraggio di Anderson tra i suoi più riusciti.

Uno: Léa Seydoux, la carceriera Simone. Una statua di marmo soffice, scolpita dal Bernini in un momento di estasi solitaria. Nuda, al centro di una specie di hangar abbandonato, grigio e scorticato, una dea che ammonisce ogni tentativo di avvicinamento del brutale Benicio Del Toro/Moses Rosenthaler, artista, pittore visionario astratto e inconsapevole, un pazzo omicida carcerato in un manicomio criminale: quella visione femminile perfetta e irraggiungibile – come si confà a una musa – diventa così la sua ossessione, il motore del proprio lavoro. Simone sa di essere ciò per cui un artista potrebbe vendere l’anima al diavolo, così come è cosciente che, il giorno in cui lei si concederà sia carnalmente che in spirito, la motivazione pittorica del povero condannato verrà meno: il desiderio appagato spegnerebbe ogni slancio vitale che spinge Rosenthaler, una pennellata alla volta, a uscire dall’inferno. La bruttezza di Del Toro è esemplare quanto la bellezza di Léa Seydoux, e ci fa capire che per un vero artista non esiste speranza.

Due: l’inno alla gioventù attraverso gli occhi della disillusa reporter Frances McDormand/Lucinda Krementz. Anderson non vuole proprio uscire dalla sua eterna adolescenza, l’arte per l’arte e le scorribande avanguardistiche, che servono a dare senso alla vita, a mischiare le carte quando le cose da dire sono finite. Solo dei ragazzini di liceo possono prendere tutto così sul serio e immolarsi per una causa politica che, ancora non lo sanno, politica non è, perché è solo voglia di scoprire la vita, creare tensioni fortissime e risolverle facendo l’amore. Chalamet/Zeffirelli si vergogna dei suoi nuovi muscoli dentro la vasca da bagno, ma poi non è vero, perché per esibirli, per fare l’eroe di una rivolta immaginaria, va a finire che ci rimette le penne.

Tre: lo chef giapponese talmente assorbito dalla propria arte, come solo un orientale o lo stesso Wes Anderson possono essere, che dopo aver rischiato di morire per aver assaggiato delle pietanze da lui stesso avvelenate, nel tentativo di sventare un complicato rapimento, con tutta la serietà del mondo, quasi commosso, sostiene che il sapore del veleno era uno dei pochi che ancora non aveva sperimentato; solo un orientale o Wes Anderson potrebbero sovrapporre la propria esistenza alla propria arte in modo tale da conservare con senso di meraviglia e gratitudine una scoperta potenzialmente mortale, ma pur sempre una scoperta, ancor più preziosa, però, perché arrivata in un momento in cui si pensava di aver sperimentato ogni cosa.