Affermare di cosa parli Crapalachia. Biografia di un luogo (Pidgin edizioni, traduzione di Sara Verdecchia) non è semplice, soprattutto se si considera il titolo, fedele all’originale Crapalachia: A Biography of a Place. Gli Appalachi in effetti fanno da sfondo a tutto il romanzo: il luogo di cui si parla nel titolo è la campagna del West Virginia, dove il protagonista omonimo cresce e fa le prime esperienze. Tuttavia, il libro di Scott McClanahan non racconta tanto quel territorio quanto piuttosto la storia della propria famiglia. I primi capitoli sono tutti dedicati a delineare ascendenze e discendenze dello Scott personaggio – che poi è lo Scott autore. Colpisce sin dall’inizio l’asprezza di certe frasi, che danno il senso del tragico e del comico, un amalgama letterario agrodolce che è poi la cifra stilistica di tutto il romanzo: «E pensai a sua madre [alla madre della nonna di Scott] che perdeva bambino dopo bambino dopo bambino dopo bambino dopo bambino, e che continuava a partorirne, circondata dalle tombe dei suoi figli e delle sue figlie, fratelli e sorelle che non furono mai. Si trovavano sepolti lì, in quella grande massa di carne che chiamiamo terra». In passaggi come questi l’autore sembra gettare sul lettore una grande responsabilità: quella di staccarsi per un istante dalla lettura di un libro e fare i conti con il tempo, perché tutti – nessuno escluso – finiremo «sepolti lì, in quella grande massa di carne che chiamiamo terra».
Qualche pagina dopo però l’autore ci ricorda – parole sue – di cosa parla questo libro, e lo fa con una delle frasi più poetiche che troveremo all’interno dell’intera narrazione: «Il tema di questo libro è un suono. Un suono che fa così: tic tac, tic tac, tic tac, tic tac, tic tac, tic tac. Lo stai sentendo proprio adesso, ed è uno dei suoni più tristi del mondo».
Quindi possiamo rispondere alla domanda “di cosa parli questo libro?”. Parla degli Appalachi e del West Virginia? Non proprio. Parla della famiglia di Scott McClanahan? In larga parte sì. Parla del tempo che trascorre e non si ferma mai, di quel tempo che trascina tutte le nostre vite e ci fa finire «sepolti lì»? Forse sì, forse è proprio questo il nucleo del libro anche se, a guardare bene, tutti i libri parlano del tempo, inteso aristotelicamente come la misura del prima e del dopo, perché tutti i libri – anche quelli costruiti al contrario, anche quelli che sembrano fermi in una bolla – raccontano di come gli eventi cambiano le persone.
Ma se questo è vero, è anche vero che McClanahan sembra avere una vera ossessione per il tempo e soprattutto per il modo in cui, attraverso movimenti infinitesimali, produce cambiamenti epocali nelle persone e nei luoghi. L’autore ci parla di questo argomento in un modo peculiare, raccontandoci la vita quotidiana dello Scott fanciullo e adolescente, attraverso i ricordi di un sé precedente che – come tutti i nostri sé precedenti – non sembra apprezzare quelle piccole cose che ha finché non le perde.
Quindi ad esempio la nonna Ruby, considerata da tutti una ipocondriaca patologica (ma che in realtà non vuole rimanere sola e pertanto inventa di sana pianta malori con il solo obiettivo di avere qualcuno accanto) è una presenza costante nella vita di Scott, che ne ricorda con nostalgia i dettagli – come le giornate trascorse a preoccuparsi del figlio Nathan, nato con una paralisi cerebrale. Successivamente, quando Scott cresce, è tempo di Little Bill e degli altri amici di scuola, che trascorrono giornate intere a bivaccare e a perdere tempo. Anche qui tutto è vissuto con la patina giallastra della nostalgia, perché bivaccare e perdere tempo sono due attività concesse soltanto ai ragazzi che vanno a scuola, i cui pomeriggi e fine settimana sono costellati di attività inutili alle quali ci si può dedicare senza problemi. Quel tempo prezioso sfugge dalle mani come finissimo zucchero. Poi intervengono il lavoro, la famiglia, le responsabilità. Così Scott – il personaggio ormai grande e l’autore che ne parla – osserva tutto in retrospettiva. Scrive per non dimenticare, come osserva verso la fine del viaggio, quando afferma: «Volevo scrivere un libro su tutte le persone che ho conosciuto e amato prima di dimenticarle». Poi però, qualche riga dopo corregge il tiro, ammettendo di aver scritto questo libro perché era lui che non voleva essere dimenticato: «Per favore, ditemi che sono esistito».
Cosa c’è dunque in Crapalachia? Quali sono gli ingredienti di questa Biografia di un luogo? Molta nostalgia, s’è detto, che trapela da quasi ogni frase di McClanahan, attraverso un registro che si bilancia bene con una buona dose di ironia (ma anche qui: è l’ironia che fa sorridere perché riferita a eventi ormai lontani e irrecuperabili, e pertanto ancora più preziosi). C’è poi molto affetto verso i cari andati e qualche dose di preoccupazione per il futuro, due elementi che a tratti assumono il sapore di un’ossessione, o quantomeno di un pensiero dominante. Trova spazio una spruzzata di memoir condito con tanti elementi non autobiografici ma che nell’infanzia dell’autore trovano il proprio centro. Infine, un sottofondo di America rurale ormai estinta, odori e sapori locali che impreziosiscono il tutto e rendono questo testo una lettura in grado di risvegliare ricordi antichi, pur lasciando sulle labbra di chi legge un sorriso che sa di leggerezza.
David Valentini è nato a Roma nel 1987, è laureato in filosofia e lavora nella formazione finanziata. Fa parte del collettivo Spaghetti Writers, recensisce libri per Altri Animali, CriticaLetteraria e Marvin e ha pubblicato racconti su diverse riviste. Insomma, fa cose, vede gente. A ottobre 2022 ha esordito con Tutto ciò che poteva rompersi (Accento edizioni).