molotov,‹mòlotof› s. f. [dal nome dell’uomo politico sovietico V. M. Molotov ‹mòlëtëf› (1890-1986)]. – Nome, per lo più usato in funzione appositiva (bottiglia molotov o Molotov, meno com. bomba m., o anche, sul modello ingl., cocktail m.), di un rudimentale ordigno esplosivo, usato inizialmente come arma bellica d’assalto, poi divenuto caratteristico della guerriglia urbana, costituito da una bottiglia contenente benzina e materiale inerte (per es. sabbia, talora anche catrame) e fornito di miccia.
La combustione della benzina fa esplodere il vetro e schianta al suolo frammenti, schegge, detriti, fiamme. L’immagine di un dispositivo d’assalto che s’infrange e scoppia è ormai un luogo comune, specie nell’immaginario della guerra fra quartieri delle città metropolitane del terzo millennio. La molotov è per definizione uno strumento di disgregazione: la composizione eterogenea dell’oggetto riflette la sua funzione. Esiste poi una frangia della letteratura moderna e contemporanea che ne imita i meccanismi, di cui Witold Gombrowicz è il probabile antesignano: il tragitto che da Ferdydurke porta a Cosmo è un percorso di piccole esplosioni disgreganti, che obbligano il lettore a ricomporre i frammenti di senso che il fuoco ha disseminato nell’ambiente – cuciture che restituiscono un’immagine della realtà come patchwork, e non come unità. Allora non può che diventare motivo d’interesse, per chi apprezza il genere, il «fuoco letterario, meta-linguistico, che si è animato direttamente dalla pagina, come gli strambi segnali di Cosmo», che diventa motivo d’ispirazione per la stesura di La casa in fiamme di Filippo Polenchi (Industria & Letteratura) – scrittore che a partire dall’immagine di quel fuoco letterario elabora il suo breve e contorto dispositivo narrativo. In occasione di una recente intervista rilasciata a Birdmen Magazine (da cui è tratta anche la citazione precedente), Polenchi ha parlato di La casa in fiamme come di un «mistery play contemporaneo» ispirato in parte da Slavoj Žižek, Sam Shepard, Georges Didi-Huberman, Albert Serra: il contenuto della bottiglia, dunque, è eterogeneo. Alla sua seconda prova dopo Il figlio fortunato (edito 66thand2nd), Polenchi ha versato nella bottiglia la benzina necessaria e il racconto lungo si è acceso – in un’esplosione di frammenti che diventano schegge di coscienza del suo allucinato protagonista; il fuoco come segno barthesiano di riferimento.
«Nell’incendio claustrofobico farfalle dalle ali di fuoco piovono sulla strada»; «Sento fiamme accendersi sulla curvatura della pupilla ed è intollerabile riuscire a tenere le palpebre sollevate»; «Sulla superficie convessa delle pupille scoppiano i reticoli lampeggianti del tungsteno che s’infiamma e scoppia», e ancora, «È così che gli eretici si contorcevano fra le fiamme […] quando li mandavano a morire». Non è soltanto la casa da cui il protagonista fugge in apertura di racconto, a essere consumata dalle fiamme: Polenchi ci impone il punto di vista di un uomo i cui occhi surriscaldati vedono bruciare ogni cosa, ancora prima che una scintilla dia il via all’incendio fattuale – ed è tramite i suoi occhi che veniamo trascinati in un maelström che appiattisce le distanze fra il cielo stellato e la casa chiusa di Stella, un bordello simil-novecentesco, dove tutti i personaggi percepiscono la comune solitudine del pianeta Terra. Il titolo scelto da Polenchi per il suo racconto lungo – forma prediletta della collana “L’invisibile” di Industria & Letteratura, curata da Martino Baldi – investe con forza il simulacro archetipico dell’oikos, dell’ambiente domestico, nel momento in cui questo viene sconsacrato; nel momento della crisi cui segue la smania sacrificale del fuoco. Così spazio e tempo si dilatano, si restringono, impongono tagli di montaggio che rendono a tratti cinematografica la narrazione: che obbligano il lettore a un meccanismo di «ricomposizione dell’infranto» che diventa macchina epistemologica. Agli interni del bordello, dove si consumano rapporti sessuali al neon e balli e feste che ricordano il Climax di Gaspar Noé, si alternano gli ambienti mentali del protagonista senza nome: la narrazione, sempre più costrittiva e claustrofobica, intrappola fra le proprie maglie i fantasmi impalpabili dei personaggi – la cui raffigurazione letteraria mantiene un’ambiguità di fondo: all’esaltazione di una corporeità fisica molto evidente si oppongono voci ectoplasmatiche che sembrano provenire dall’oltretomba, in una maniera che ricorda il Pedro Páramo di Juan Rulfo. Si percepisce d’altronde un’atmosfera simile a una certa corrente della letteratura sudamericana del Novecento: l’immagine di un rogo che brucia uno spazio domestico richiama (in)volontariamente Sopra eroi e tombe di Ernesto Sábato e uno dei suoi personaggi più enigmatici, Alejandra – che di quello stesso rogo, dopo aver animato le oltre quattrocento pagine del romanzo, sarà fautrice e vittima.
La casa in fiamme da questo punto di vista invece prosciuga la parola, la trattiene; si mantiene in una posizione di confine e dosa con serietà il rapporto fra la paratassi e l’ipotassi, operando su un’aggettivazione circolare, reiterata, che stabilisce le coordinate del racconto. Come nel romanzo di Sábato, anche Polenchi avvia poi un discorso oscuro sul rapporto fra vista e cecità, acuendone la profondità in occasione del ritrovamento da parte del protagonista di una fotografia – la stessa che era rimasta incenerita dal rogo delle prime pagine –, che gli viene consegnata in circostanze incomprensibili: l’immersione del protagonista senza nome in questa fotografia rende permeabile il confine fra il dentro e il fuori, fra il reale e il finzionale, spingendo la sua coscienza in un labirinto catottrico di riflessi inaspettati. «Vedo nell’angolo all’estrema destra del letto di Velma uno specchio. Una forma rettangolare, che si sviluppa in verticale, alta più o meno un metro e mezzo. Lo specchio non punta sul letto ma fugge verso l’esterno e, fatalmente, inquadra me. Nello specchio ci sono soltanto io, seduto sul divano, che osservo me che mi osservo. […] Metto a fuoco il volto, ma nella lontananza tra il divano e lo specchio non è facile: le borse sotto gli occhi, la frenesia epilettica delle pupille mobilitate tra la messa a fuoco di sé stesse e dell’intera figura, il piano americano impossibile, vedere e vedersi al tempo stesso». È in questa messa a fuoco che si racchiude l’incendio come un germoglio, e il bestiario umano che s’avvicenda fra il bordello e la strada, sbattendo porte e spogliandosi dei vestiti, viene sezionato da un atto visivo diretto del protagonista (voyeur e osservatore di stelle), finché le fiamme non cancellano l’ennesimo ricordo di un trauma nascosto.
La seconda prova letteraria di Filippo Polenchi evoca scenari catastrofici, traslando nella forma il suo contenuto di magma e mistero: dal frammento alla ricomposizione dell’intero, il racconto-molotov La casa in fiamme lascia dietro di sé macerie che aspettano soltanto di essere smosse e indagate, suscitando un’onesta curiosità nei confronti di una (si spera) prossima fatica letteraria del suo autore. L’incendio brucia: l’importante è che nessuno lo spenga.
Pietro Bocca (Milano, 1998) si laurea in Scritture e Produzioni dello Spettacolo e dei Media con una tesi intitolata “Michael Haneke. Mediologia e cinema della catastrofe”. Da qualche anno collabora periodicamente con alcune case di produzione televisiva di Roma. Ha pubblicato racconti in antologie e riviste letterarie. Scrive di cinema e media per Birdmen Magazine.