Per il lettore di Il vecchio figlio di Luciano Allamprese (Atlantide, 2022), la questione se si tratti di racconto autobiografico o di autofiction pagina dopo pagina si scioglie come è miscibile l’olio nell’acqua per certi rituali del malocchio, in Calabria. Non importa se a un livello di consapevolezza scientifica sia impossibile (liquidi apolari non si sciolgono in liquidi polari, e viceversa): ciò che conta è il processo, o il riconoscimento, da entrambe le parti, che il malocchio c’è e va dissolto. L’esergo che Allamprese pone al romanzo – anzi: al prologo al romanzo, perché per primo lascia parlare Italo Svevo – viene da Giuseppe Berto e dal suo Il male oscuro:
«Uno scrittore è sempre autobiografico. Tuttavia si può dire che lo è un po’ meno quando scrive di sé, cioè quando si propone più scopertamente il tema dell’autobiografia, perché allora il narcisismo da una parte e il gusto del narrare dall’altra possono portarlo ad una addirittura maliziosa deformazione di fatti e di persone. L’autore di questo libro spera che gli sia perdonato il naturale narcisismo, e quanto al gusto del narrare, confida che sarà apprezzato anche da coloro che per avventura dovessero riconoscersi alla lontana quali personaggi del romanzo».
Per proseguire con la similitudine sudemagica (che mi viene, chissà come, per questa costruzione quasi rituale dei rapporti in Allamprese, ma sono impressioni): come è importante, nel rituale per il malocchio, riconoscere ed esporre la malanova (sarebbe la maledizione) attraverso il comportamento delle due “sostanze”, le quali non si potranno, comunque, mai mescolare, così è fondamentale riconoscere ed esporre l’insolubilità di autobiografia e autofiction. Questo equilibrio precario caratterizza le fondazioni del romanzo, la sua struttura.
Ma quale storia? Il vecchio figlio è un romanzo di invecchiamento, non di formazione: il primogenito, l’io-narrante, racconta il proprio rapporto col padre e come questo rapporto sia stato l’elemento generativo del proprio carattere, per differenza. Il casus belli di un riavvicinamento, almeno spaziale,è la morte, precoce per così dire, della madre. Niente spoiler, si tratta delle prime sette righe:
«Anche se tra noi figli non se ne faceva parola e non avremmo mai osato formularlo in un pensiero compiuto nessuno dubitava che, malgrado di sedici anni più giovane di nostro padre, la mamma se ne sarebbe andata prima di lui. Per questo non se ne parlava mai e non per quel pudore che adorna l’idea della morte o perché pensassimo di stornare, tacendolo, l’evento che l’avrebbe per sempre allontanata da noi».
Io credo, davvero, allo spoiler prima di tutto stilistico, come non mi stancherò mai di ripetere, e vorrei non dirvi troppo, o almeno ci provo. Nell’incipit, in soli due periodi, Allamprese anticipa (ora che ci penso fa tutto da solo) il tono dell’intero libro: l’altezza di una sintassi equilibratamente ipotattica – classica col senno di poi; e l’uso sconsiderato di un lessico altalenante (cioè, diastratico) che va dall’eleganza di un “adorna” o di uno “stornare”, alla colloquialità della prima persona, singolare o plurale, nome o aggettivo, che include tanto quanto esclude.
Il meccanismo anticipatorio funziona anche nel breve segmento che allontana “padre” da “mamma”: cinque caratteri, cioè due spazi, una sillaba e una virgola: due genitori anzitutto diversi – aspetto rilevato dalla differenza lessicale, che dimostra la diversa percezione che i figli hanno di loro; poi vicini, anzi contigui, però separati sintatticamente, uno subordinato all’altra, come meccanismo “parodico” di ribaltamento in morte della gerarchia in vita (alla fine cosa rimane? L’eredità affettiva o anaffettiva). Sono movimenti che vedremo in tutto il libro, tanto nel piccolo del poligono mamma-padre-figli quanto in un senso, direi, più ampio, di natura della narrazione. Elaboro (provo: i libri migliori ti lasciano a metà tra comprensione e non; ma critica significa dissipare l’“oscurità di un testo”?).
Nel romanzo, la costruzione dei personaggi, cioè la loro vita, si dà per avvicinamento agli epifenomeni del linguaggio e del gesto, perché quello che c’è prima è sicuramente inconoscibile. Alla maniera di un diagnostico, o di un filologo, per accerchiare le figure di suo padre, soprattutto, di sua madre e poi della moglie, «Serenella», Allamprese va dritto ai loro modi. Un esempio:
«Ma la lingua di mio padre era invero qualcosa di più: […] la sua lingua costituiva soprattutto la testimonianza più integra di una convenzionalità del sentire in cui trovavano posto l’amore per la misura e il timoroso rispetto per l’Autorità, la tendenza a moraleggiare e la diffidenza verso ciò che non capiva, e perfino una buona dose della nostra furbizia nazionale temperata da una, altrettanto nostrana, sentimentalità».
Qualcosa di più. In questo libro dove fatti non ce ne sono granché ma c’è soprattutto il discorso commentativo ai fatti, la lingua, i gesti e poco altro – soprattutto l’occupazione degli spazi in casa, la vera e propria abitazione – vogliono dire tutto (al già lettore di Allamprese, questo linguaggio che progressivamente si adopera a una maschera di sé, a una certa burocraticità, a farsi linguaggio “alto” nonostante la commedia, significa soltanto una modifica, anch’essa progressiva, dell’empatia riguardo alla figura paterna. Non è un caso se quest’avvicinamento, questa, a un punto, sovrapposizione, si darà, alla fine, spoiler, attraverso uno stile non linguistico, dunque dal reciproco riconoscimento dato dalla moda – come portare la barba, per esempio –, e dalle abitudini). Ma vogliono dire tutto perché elaborati, cioè parodizzati, attraversati da un atteggiamento di “traduzione”, di “ponte” dalla dimensione privatissima della famiglia verso fuori.
Il romanzo, alla fine, se si vuole, agli occhi del lettore non è più autobiografia né autofiction; il suo significato sta nella paradigmaticità dell’intreccio di relazioni, dei due matrimoni che si sovrappongono, alla fine (spoiler pure qui) all’insegna dell’assenza, da un lato, della donna da amare e della presenza, dall’altro, delle donne come ricordo, come esperienza pregressa che accomuna padre e figlio (nella continuità genetica, per risultati simili bisogna almeno vivere simili vite). Al centro la comprensione dei meccanismi dell’istituzione della famiglia tradizionale, ribaltati, parodizzati in senso non rivoluzionario e però prossimo, vicino: lo spazio dedicato a «Serenella», con tutto il racconto del male oscuro affilatosi reciprocamente, è consolatorio, è pacifico. La donna-angelo, in quanto reticente, della tradizione letteraria viene alla fine descritta, resa viva, messa in ipotiposi come donna disamata.
Il vecchio figlio è – seppure in una certa continuità per quanto riguarda il rapporto tra i genitori – estremamente differente da altri libri che indagano la relazione padre-figlio. Da Un’odissea di Daniel Mendelsohn (Einaudi) al recentissimo Animale di Giuseppe Nibali (ItaloSvevo): perché il primo si pone all’interno dell’Epica (con quel gioco ad “anelli” a cui lo scrittore americano ci ha abituato) e l’ultimo all’interno dell’esperienza autobiografica (pure trasformata, ma permane l’esperienza in una sorta di diario della morte del padre), mentre Allamprese rimane a metà, indeciso, dall’alto della sua natura di discorso sopra gli eventi senza, in sostanza, eventi. Come se rimanesse fermo su un ponte di per sé inattraversabile (uno dei giudizi che questo padre-milite era solito dispensare riguardava, proprio, il ponte che la famiglia attraversava intera durante le passeggiate. L’ho messo a titolo).
A me, poi, è rimasto, questo romanzo, come una figurina traslucida da applicare su (è o non è il senso di una parodia ben costruita): la mia famiglia, il rapporto tra mia madre e mio padre, il rapporto tra i miei nonni e le mie nonne, il rapporto che costruisco, giornalmente, con la mia partner. Una sorta di parabola, ecco, quasi un fantasma, sull’imperfezione costitutiva delle relazioni.
Demetrio Marra è laureato in Filologia moderna all’Università di Pavia, con una tesi su Luciano Bianciardi. Ha frequentato il Master “Il lavoro editoriale” della Scuola del Libro di Roma. È vicedirettore di Birdmen Magazine, rivista di Cinema, Serie e Teatro. È direttore editoriale di lay0ut magazine, rivista di Letteratura, Traduzione e Cultura Visuale. Collabora con la sezione Lingua italiana di Treccani. È ufficio stampa e redattore della casa editrice Industria&Letteratura. Attualmente vive a Milano lavorando come professore.