«Dov’è? Dov’è l’altro bambino? Nell’utero non c’è». Lampreht, il protagonista, è in un reparto di gravidanza. «Intanto arriva il chirurgo», «Manca la firma per l’anestesia», o magari no, si trova in una sala operatoria. «Al pronto soccorso non m’hanno manco controllato. Se ne sono fottuti dei frammenti di vetro, manco i punti mi hanno messo», oppure no, forse è in un pronto soccorso. «Dove hai messo gli eritrociti? Cerchiamo il bambino», «Dove sono i tamponi?», «Drena. Sbrigati. Sangue arterioso». No: è in uno spazio di frasi ellittiche e sincopate, di domande e imperativi privi di senso. Uno spazio che è la mente di Lampreht – «Le fasce muscolari. Tre, credo. Non puoi raddrizzar le gambe ai cani» – la sua paura – «Il giorno dopo emorragia. Tribunale. Fine. Errore tecnico. Hai ucciso una persona» –; uno spazio che è il punto di arrivo di un percorso che non comprendiamo perché Lampreht, che lo ha vissuto, ce lo racconterà all’inverso, dalla fine all’inizio. «La capisco», gli dice qualcuno che lui non ci presenterà mai. «No, non mi capisce. Ma non c’è bisogno che mi capisca. Non sto cercando di convincerla di niente, non le voglio stare a spiegare un bel niente. Io voglio solo raccontare».
«La nottola di Minerva inizia il suo volo sul far del crepuscolo». È con questa citazione hegeliana che si apre il romanzo Lampreht dell’autore sloveno Kazimir Kolar, edito in Italia da Wojtek edizioni nella traduzione di Lucia Gaja Scuteri. Se il titolo italiano mette il protagonista, Lampreht, al centro, «conferendogli centralità e dignità in quanto individuo», il titolo originale – Glas noči – letteralmente “La voce della notte”, offre elementi interpretativi importanti, che riempiono di senso anche le parole in esergo. Se da una parte, infatti, la nota metafora può essere letta secondo il suo significato tradizionale – la comprensione della realtà avviene a fatti avvenuti, e la narrazione del romanzo procede quindi a ritroso, iniziando dalla fine, come se solo partendo dal compimento degli eventi si potesse ricostruirne l’ordine e il significato –, dall’altra l’immagine della nottola di Minerva sul finire del giorno rimanda al viaggio di Lampreht.
Il percorso del giovane inizia proprio quando la luce della “ragione”, intesa secondo il comune sentire, viene meno (il primo episodio psicotico del protagonista, che conosceremo solo nell’ultimo capitolo) e, attraverso la “voce della notte” – la sua mente scissa – conduce alla conoscenza dell’Assoluto. Un Assoluto nuovo, rispetto a quello di Hegel, di cui Lampreht è portavoce. Il romanzo, infatti, ribalta la Fenomenologia dello Spirito hegeliana. La psicosi del protagonista è la strada per la conoscenza – «Stavo appunto leggendo la Fenomenologia dello Spirito di Hegel, ricordo che stavo leggendo il penultimo capitolo quando d’un tratto ho la sensazione di avere qualcuno davanti che mi guarda fisso negli occhi» –, il dolore del ragazzo è un’esperienza epistemologica – «Non mi era mai capitato di provare qualcosa di così angosciante […] Avverto qualcuno nell’ambiente, ne avverto la presenza e di tanto in tanto mi sembra pure di sentire un frullio d’ali d’uccello nell’aria, da qualche parte in alto».
Se nella Fenomenologia dello Spirito hegeliana, lo stadio ultimo del cammino della coscienza è il superamento tra soggetto e oggetto – la coscienza esce dalla dimensione individuale e raggiunge l’universalità – l’Assoluto di Lampreht coincide con l’«Io», la prima sezione del romanzo (quella, appunto, corrispondente alla fine). «Io», «Gli altri», «Il mondo», «Lo spirito», questi i titoli delle parti del libro. Dall’illusione di un Assoluto che coincida con l’universale, si arriva all’individualità estrema, la solitudine, l’alienazione dagli altri, in cui ognuno di noi è l’unico abitante della propria mente. È questo l’Assoluto di Lampreht.
«Cos’è? Ora capisco. È un gattino investito. Mi accoscio sulle ginocchia e mi metto a studiare la cosa. Nella parte inferiore di quel pastrocchio di ossa frantumate e di zampette, proprio al margine – unghiette feline. Un camion da più tonnellate». Lampreht, affetto da psicosi, osserva il mondo, lo studia. La sua attenzione è catturata da immagini di dolore, la sua esperienza dominata dalla sofferenza di creature indifese: un gattino investito, «Un Golden Retriver […] tranciato quasi a metà», le piante minacciate dai pidocchi, i ragni, «I pidocchi! Ci sono un sacco di puntini bianchi sulla parte di sotto delle foglie», neonati che vengono al mondo ignari della meschinità alla quale parteciperanno – «Il bambino […] Il collo ancora nella morsa vaginale. Ignora cosa lo aspetta […] Le ombre, le cadute. Il dolore. Forse una guerra mondiale, lo scontro tra le civiltà».
Lampreht lavora come ostetrico, professore di storia e filosofia, guardiano notturno; così ci dice, almeno, o così ci sembra di comprendere, anche se la narrazione, specie nei primi due terzi del romanzo, è quella di un personaggio inattendibile che ci trascina negli anfratti più profondi della sua percezione. Fatichiamo, quindi, a distinguere i confini fra realtà e proiezioni, eventi che accadono e angoscia che il protagonista prova. La prima sezione, però, è anche quella della fine del percorso – quella dell’Assoluto, dove la coscienza di Lampreht esperisce la realtà per come è.
Lampreht può essere superficialmente interpretato come un romanzo sulla psicosi, l’esperienza di una mente scissa e decomposta. Una lettura più attenta, però, non potrà non vederlo come un romanzo di formazione inverso, in cui la verità a cui giunge il protagonista si impone al lettore in prima battuta per poi dispiegarsi, riavvolgendosi, fino a tornare allo stadio dell’ignoranza.
Una verità universale, quella di Lampreht, che esce dai confini della sua patologia per parlare del mondo e della realtà umana. Sono continui, infatti, i passaggi dalla dimensione individuale del personaggio a quella universale. «Mi rimetto in macchina e riparto. […] Disaccordi, valori, ideali. I motivi. Mille motivi. Mille ragioni. Le incomprensioni […] Camminiamo l’uno sopra l’altro. Non siamo uomini. Non doveva andare così. Abbiamo sbagliato in qualcosa. Siamo in punizione? Ci sta mettendo alla prova qualcuno? […] C’è sempre più afa, spengo la radio […] Chi l’ha aperto il finestrino? Chi non l’ha aperto il finestrino? Perché non ci sopportiamo? C’è qualcosa di malato in noi. […] Autodistruzione, cinismo. Ignoranza. Ci andammo al Parlamento, a scuola, a Sociologia. Ci portò il professore».
Per i primi due terzi del romanzo, la sintassi è ellittica e frammentata, i vuoti di senso sono numerosi: la lingua è immagine scomposta delle fratture del mondo, delle (dis)connessioni fra individui, il significante doloroso dell’insensatezza.
Il prevalere del cinismo, del disinteresse gli uni per gli altri – «Dove ci porterà tutto questo? Tutti odiano tutto. Il lupo è un uomo per l’uomo. L’uomo è un lupo per il lupo. Lupa ex fabulo» –, la solitudine – «L’autosufficienza, capisce? Omnia mea mecum porto. Riesci a vivere dentro una botte? […] Vali quanto sei in grado di fare da solo, senza l’aiuto di altri» –, l’indifferenza – «Se affogo, mi balenò d’un tratto in mente, se recuperano il mio cadavere dal fiume, certo non lo fanno per compassione o per timore di un castigo, ma per ordinaria trivialità». Queste sono le verità a cui giunge la coscienza di Lampreht.
Una speranza tiepida, tuttavia, riscalda a tratti la notte. Emerge in alcuni momenti e li rischiara di dolcezza. Le piante, i neonati, i bambini, gli esseri che il protagonista percepisce come vulnerabili: Lampreht si lancia in loro difesa, cerca di proteggerli, e il racconto si riempie di lacrime trattenute, di una malinconia piena di tenerezza. «Vi salverò dai ragni, mi dico, andrà tutto bene», si ripete Lampreht correndo dalle sue piante che teme minacciate. Fiocchi di neve cadono e lui ne studia la meraviglia, «Questo attimo potrebbe durare anche all’infinito», si dice, «non me ne stancherei mai. Caduta verso l’alto. La neve è proprio una magia». O anche, «Bravissima, signora!», dice a una madre che partorisce un bambino inizialmente cianotico. Lampreht si prende cura del piccolo, e quando questo finalmente piange, «Felicità, pura felicità», pensa in un momento di commozione. Una neonata in ospedale cattura la sua attenzione: lui si avvicina al fasciatoio, inizia a canticchiare. «A mezza voce. Alla piccola piace, si stringe a me, avverto il suo calore sul corpo. Me la accosto sulla guancia. Pelle di seta […] Non mi manca nulla. I neonati ti calmano, non so perché, è così. Forse perché reagiscono alla voce e al tatto. Forse». Forse. Forse l’uomo potrebbe essere salvato, forse è possibile un’alternativa al dolore. Questi momenti, però, diventano presto cenere. «Le vene non sono buone, sono invisibili», constata Lampreht subito dopo aver aiutato la madre a partorire. Le piante che avrebbe voluto salvare sono scomparse, «tutto sparito. Neanche un uovo». La neonata che trova in ospedale entra ed esce dalla scena, la vita di Lampreht torna alla sua solitudine. Questo mondo potrebbe essere salvato, ma è l’uomo la sua meschinità.
La voce narrante, man mano che la narrazione procede, è sempre più chiara, sempre più vicina alla nostra. Ci si allontana, infatti, dall’ultimo stadio della malattia mentale del ragazzo, per tornare al momento in cui, nel capitolo finale, «Il tempo si era andato e mi andavo approssimando alla lunga ombra della sera». Il tempo in cui «Stavo diventando depresso, componevo me stesso daccapo ogni giorno», «Pensavo e guardavo il soffitto, su cui si infrangevano riverberi di luce», «Iniziò tutto come uno scherzo innocente». Il tempo in cui il crepuscolo scese sul mondo e la nottola di Minerva iniziò il suo volo.
L’ultima sezione, «Lo Spirito», è l’unica in cui l’io narrante si esprime al passato. Lo fa con consapevolezza, ripercorrendo la sua depressione e i primi deliri con uno sguardo lontano e sommesso. È un Lampreht, questo, con cui è più facile l’immedesimazione: la sua maggiore aderenza alle cose, il suo più stretto abbraccio al reale, si riflettono nel linguaggio. La narrazione è piana e priva di ellissi, l’ordine narrativo è chiaro e consequenziale. La distinzione, per il lettore, tra realtà e percezione, è evidente, la dimensione emotiva struggente e catartica. Dalla notte profonda, Lampreht torna alla luce debole del tepore crepuscolare. «Dal terreno si levava la nebbia di condensa. Avevo guardato in aria. Tra le nuvole, verso le Alpi, si distinguevano rimbalzi di luce […] Me ne ero poi tornato a Ljubljana, ero rientrato a casa e avevo abbassato le tapparelle a tutte le finestre. Avevo acceso la luce della scrivania e avevo aperto una risma sigillata di carta. E mi ero di nuovo illuminato di cromie».
Il romanzo si conclude con l’inizio del viaggio – «calavano gli ultimi minuti della notte e il fragoroso stormire delle ali d’uccello» – e finisce con un inizio che finirà dove è iniziato. La solitudine e il dolore sono un ciclo continuo. L’Assoluto di Lampreht, un cerchio infinito.

Nata a Firenze, ha vissuto e lavorato nel Medio Oriente, a Londra, e ora è a Berlino. È traduttrice dall’arabo e dal francese, lavora come ricercatrice e sta concludendo un dottorato su Iraq, Iran e identità sciita. Suoi articoli, traduzioni, racconti e recensioni sono apparsi su varie riviste, tra cui Arabpop, L’Inquieto, Altri Animali, Quarta Corda, Minima & Moralia, In Fuga dalla Bocciofila, Il Mondo o Niente. È curatrice della rubrica “9 righe. Consigli di lettura illustrati” per la rivista Yanez. Ha co-fondato “Teatro Immersivo Firenze” ma la sua scrittura di spettacoli teatrali è stata interrotta da una pandemia. Sogna di imparare a scrivere bio che le non le sembrino tristi.