«La vanità è il motore morale del nostro tempo. La sua etica privata. La sua frustrazione uccide più di qualunque malattia. Ed è in questo varco, tra ciò che la persona è e la sua rappresentazione, che mi sono infilata per vivere».
Il confine, quarto romanzo di Silvia Cossu pubblicato per Neo Edizioni, è un libro che racconta il limite tra verità e narrazione, muovendosi sulla soglia scivolosa che divide l’esperienza dalla messa in scena di sé. L’espediente scelto dall’autrice per dare luce alla linea di demarcazione tra ciò che è e ciò che sembra è l’incontro tra chi scrive di esistenze, per mezzo del genere biografico, e chi cura le esistenze, per mezzo di un particolare tipo di approccio alle malattie della mente.
Il progetto letterario prende vita a partire dalla figura reale di uno psichiatra, dalle cui “terapie brevi” anni fa Cossu rimase affascinata. Questa tecnica, nata alla fine degli anni Settanta in California da un gruppo di studiosi illuminati, si pone in aperta rottura con il trattamento convenzionale dei disturbi psichici.
Durante un’intervista Cossu ha raccontato il motivo di questa sua attenzione: «Mi interessava quell’aspirazione pionieristica di trattare la sofferenza mentale con percorsi che, durando da dieci a venti volte meno di una normale psicoterapia, si aprivano a una platea molto più estesa democratizzandone l’accesso. La convinzione quasi utopistica che una serie di disturbi si potessero risolvere con l’approccio paradossale, subliminale e strategico. (E già la definizione “subliminale” riferita a una cura, mi incuriosiva). Davvero un terapeuta può infilare dei messaggi “nascosti” per indicare al paziente la via della guarigione, come si fa per indurre comportamenti d’acquisto, distraendo la sua attenzione e comunicando direttamente al suo inconscio? E se fa questo, qual è il confine tra la manipolazione e la cura, la suggestione e l’inganno? Per una come me, con tanti anni di analisi freudiana sulle spalle, era una specie di frontiera».
Per una serie di ragioni però la scelta finale della scrittrice ricade su un romanzo del tutto inventato, che prende le mosse da quella ispirazione. La protagonista de Il Confine, frustrata per le sue ambizioni letterarie insoddisfatte, decide di scrivere biografie che rispondono puntualmente alle attese di vanità dei committenti: maneggia i loro racconti gonfiandoli all’occorrenza in modo da delineare esistenze meritevoli, sganciate dal vincolo di verità a ogni costo. Fino al momento in cui viene ingaggiata da Mosco, un luminare formatosi tra Venezia, Roma e la California, che ha rivoluzionato il mondo della psichiatria e che, a differenza degli altri, non chiede di magnificare la storia della sua vita, ma solo di raccoglierne fedelmente la verità.
Da qui prendono avvio una serie di incontri a due basati su una condizione originaria: l’ammontare del compenso per la biografia verrà confermato solo a lavoro concluso, così come Mosco è abituato a fare con i suoi pazienti, liberi di pagarlo o meno a seconda della loro valutazione sull’efficacia della terapia. Si inserisce così il primo segnale di ambivalenza nella relazione tra i due personaggi che, man mano che la storia prende forma, diventa sempre più opaca. Chi lavora per chi? Di fatto il rapporto professionale prevede che lei scriva la biografia di lui, ma il lettore si accorge presto di un’asimmetria che indirizza lei al centro, a occupare lo spazio di chi, pur non avendo disfunzioni diagnosticate, necessita di cure.
Mosco racconta il suo percorso umano e lavorativo in controluce; i ricordi d’infanzia e la fascinazione per gli “incurabili”, persone con disturbi mentali ritenute dagli altri medici ormai irrecuperabili, non tradiscono mai alcun coinvolgimento emotivo: la voce è ferma, il tono asettico. Lo psichiatra è convinto che la malattia mentale affiori quando l’essere umano fa confusione tra la realtà circostante e le mappe di cui si avvale per decodificarla, avendo costruito dentro di sé schemi che collegano situazioni date a conseguenze date. Su questo terreno fertile per la fioritura della sofferenza psichica deve intervenire non una terapia convenzionale, appiattita da diagnosi simili per casi intrinsecamente diversi, ma “la persuasione occulta” con messaggi subliminali finalizzati a condizionare la volontà di guarigione del paziente, inducendo in lui una reazione adattiva verso l’imprevedibilità degli eventi. La messa in atto di questo metodo curativo ha garantito a Mosco fama internazionale e arricchimento economico. I soldi non assumono qui l’aspetto di un riconoscimento finale, ma il metro per giudicare la validità di una teoria che ormai circola negli ambienti più facoltosi: come una profezia che si auto-avvera, il denaro alimenta la narrazione, diventandone nutrimento ontologico.
L’obiettivo della protagonista, pagina dopo pagina, diventa la ricerca di un doppiofondo, un di-più umbratile che avanza dalle parole dello psichiatra: è lecito affondare le mani direttamente nell’inconscio dei pazienti sub-limine, al di sotto della loro soglia razionale, alterando intenzionalmente la loro percezione del reale? Sembra il trucco di un prestigiatore, un incantesimo che sconfina il campo sicuro della scienza: conquistare la fiducia dell’altro e poi distrarlo da sé.
Le tinte si sfumano, i racconti di Mosco diventano inafferrabili, tutti avvitati sul sentimento del dubbio. L’incertezza però prende due direzioni inaspettatamente sovrapponibili: l’identità reale di Mosco e le fragilità esistenziali della sua biografa. È un gioco di specchi conturbante, in cui l’immagine riflessa di uno disegna la vulnerabilità dell’altra, attraverso rimandi ambigui, luoghi dove il confine svanisce.
Dal punto di vista letterario, la scrittura di Cossu delude le attese di profondità, privilegiando un registro asciutto e scarno che però non lascia mai la sensazione di essere nudo, corporale. Il linguaggio non abbandona le vesti del controllo, sembra talvolta volersi liberare ma resta come imprigionato dalla sua freddezza, in contrasto con il magma infuocato di cui tratta. Esiste solo un momento, quasi una parentesi nel corso della narrazione, in cui le parole sono ali. La visione di Sogno, un film pornografico prodotto da Irma, personaggio laterale che contribuisce a dare gusto alla lettura, in cui l’attrice appare sdraiata su un letto pronta ad assaporare il godimento che sapranno provocare in lei gli uomini che si susseguono, pagati solo se capaci di soddisfarla. Il punto di vista è esclusivamente femminile – un sogno di porcellana seduttivo che sconvolge la biografa, catturata da un sorprendente magnetismo erotico. La scrittura è febbrile e subito dopo calma, un’onda che segue il mare emotivo.
Il Confine è un libro rivelatorio, che esamina l’increspatura tra le proiezioni della nostra mente e la realtà che riteniamo oggettiva, slatentizzando un’aporia irrisolvibile. Accettare che non sappiamo nulla di noi, se non quello che l’altro ci racconta – scegliamo la narrazione migliore e proviamo a crederci – è probabilmente il primo passo per la guarigione. Di tutti, anche di coloro ritenuti socialmente “sani”.
«Perché, se come dice Carlo Rovelli, ciò che vediamo non è una “riproduzione dell’esterno, ma è quanto ci aspettiamo, corretto da quanto riusciamo a cogliere”, al di fuori della relazione che ha con noi, l’altro non è conoscibile».

Città eterna, 1991. La formazione classica mi ha donato una sorta di feticismo per le parole: me ne innamoro, dichiaro loro guerra, ne percepisco ribellione e potenza. Non credo nel concetto di identità, o almeno questo è quello che dicono le Altre dentro di me. Tutto ciò che orbita attorno alla comunicazione cattura il mio interesse, ma l’unica Dea che venero è la poesia. Di notte non cercarmi, capita che mi perda tra le increspature del cielo.