È stata la mano di Dio_Marvin

Indagine su un incendiario al di sopra di ogni sospetto

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Fabietto (Filippo Scotti) ha sedici anni e non sa cosa fare della sua vita; la vita in questione, con la gentilezza che ogni tanto è propria delle nostre esistenze, gli tira una sprangata in faccia; Fabietto si rialza, capisce che vuole fare da grande e va a compiere il proprio destino. È la trama[1], essenziale come tutte le ossature narrative che si rispettino, di È stata la mano di Dio, il nuovo lungometraggio di Paolo Sorrentino, presentato al Festival di Venezia, uscito poi in alcuni cinema selezionati a novembre e approdato infine su Netflix in questi giorni. Un Sorrentino che torna a Napoli a vent’anni esatti dall’ultima volta in cui ci ha girato un film, L’uomo in più – che tra l’altro è anche il suo primo; e vent’anni, insegna mastro Dumas, santo patrono degli showrunner, sono il lasso di tempo giusto prima di tornare a rimestare nel proprio passato. Le vicende di Fabietto, infatti, non sono che uno specchio drammaturgico delle vicende di Paolo: È stata la mano di Dio è un racconto autobiografico, una rievocazione storico-sentimentale di quegli anni Ottanta in cui Maradona trascinò il Napoli al suo primo scudetto e la vita del giovane Sorrentino subì una svolta impossibile da prevedere.

Sorrentino, Maradona, Napoli, l’amarcord, gli anni Ottanta: possiamo dirlo, i presupposti per un disastro ci sono tutti. Cosa su cui Sorrentino stesso potrebbe aver rimuginato, visto che ha aspettato così tanto prima di tornare all’ombra del Vesuvio: con questi  ingredienti e un simile coinvolgimento emotivo, il polpettone retorico, piagnucoloso ma soprattutto – oh, l’orrore – nazional-popolare[2] è dietro l’angolo. Ed è forse per questo che il regista partenopeo ci regala un film che sotto la superficie di canonico, misurato e contemplativo disincanto pare nascondere un’oscura, castigata e irrequieta pulsione sobillatrice e (auto)incendiaria nei confronti delle fondamenta su cui egli stesso ha costruito la propria idea di cinema.

In parole povere: in segreto e forse inconsciamente, Paolo Sorrentino questa napulə è millə culurə un po’ la vorrebbe veder bruciare[3].

L’inizio del film offrirebbe in realtà ben pochi appigli a questa teoria spericolata: in un primo atto che è un’ode a Fellini[4] e alla sua caratterizzazione dei personaggi, ci viene mostrata la famiglia di Fabietto, gli Schisa, in tutta la sua mediterranea, chiassosa e mangereccia gloria, mentre sullo sfondo il mare è blu, il sole splende e i contrabbandieri in motoscafo fanno le pernacchie alla Guardia di Finanza. Eppure, quando il Maestro in persona compare – tramite il fratello di Fabietto, Marchino (Marlon Joubert), aspirante attore che si reca speranzoso a un suo provino – non è che un’ombra in una stanza oltre una porta dischiusa, che con una vocetta quasi caricaturale commenta l’oceano di foto di papabili protagoniste che i suoi assistenti gli sottopongono. È questo piccolo pervertito il mostro sacro che Sorrentino ha ringraziato come sua ispirazione la notte degli Oscar? Quanto a Maradona, sembra ricevere un trattamento appena migliore: ridotto a una capocchia di spillo nell’unica scena in cui compare, si allena in uno stadio semivuoto sotto lo sguardo spento e ormai lontano dei fratelli Schisa, che a metà film hanno ormai ben altro a cui pensare.

«Non ti disunire», risponde alle angosce del protagonista il regista Antonio Capuano (Ciro Capano). Una frase lapidaria, così poetica e pregna di ponderata malinconia: e se a dirla è Capuano, mentore di Paolo (che nell’ormai lontano ’98, quand’era ancora un’arbasiniana giovane promessa ventottenne, firmò insieme a lui la sceneggiatura del film a episodi Polvere di Napoli) e mito di Fabietto (che, dopo averlo visto sbraitare contro una sventurata attrice di teatro, si è ubriacato di cotanta spietata sincerità e vuole carpirne gli artistici segreti), come può questa battuta non assumere i connotati di un comandamento biblico? Può, certo che può: dove hanno fallito la famiglia, Fellini e Maradona, il verace cineasta partenopeo ha trionfato. Non ti disunire. Senti come suona. Ci crediamo tutti. Ci crede anche Paolo, forse.

Ma Fabietto, che in quanto personaggio è più libero del suo autore, rispettosamente rifiuta: «Ma che vuol dire».

Dovrebbe essere una domanda, ma è un’affermazione. Stremata, brutale, paradossalmente capuanica. Ma che vuol dire. Ma che cazzo stai dicendo, Capua’. Ma cosa mi significa, Paole’.

«J’ai capì tu solə, omm’ ‘e sfaccimmə» è la risposta. Fiacca, macchiettistica, quasi cinepanettonica. Un altro mito è caduto. «Vienim’a truvà» dice poi il mentore, che ora ha il piglio dello zio un po’ rincretinito.  «Me truvə sempre accà. Accusì facimmə o’ cinemə, uagliò!» Poi si toglie la maglietta, liberando il ventre flaccido, e tutto contento zampetta verso il mare.

Che cosa ci resta, dunque, alla fine di due ore e dieci di cinema pressoché impeccabile? Amore, di certo; nostalgia, senza dubbio. Ma mentre le note di Napule è scorrono lungo i titoli di coda, viene da chiedersi se ci sia qualcosa che bruci, in fondo allo sguardo di questo ineffabile contemplatore.


[1] Mi si permetta qui un ampio gesto d’affetto nei confronti della redazione che ha supervisionato e permesso questo articolo: il fatto che, dopo aver usato nella scorsa recensione “fottuto” e “fottutamente”, oggi mi si consenta addirittura di poter nominare quella – forse ancora più esecrabile – parola con la t, è una testimonianza del cuore grande e nobile di queste persone, per cui sono più che lieto di scrivere gratis.

[2] Lo scrivente ha ancora inchiavardata nell’animo la standing ovation che l’intera sala di un cinema di Roma Nord riservò alla menzione della vittoria ai Mondiali del 2006 da parte di un Nicholas Vaporidis all’apice della sua carriera nel finale di Notte prima degli esami – oggi. Con simili traumi alle spalle, è difficile non essere d’accordo con il tenente Castellitto nel sostenere che Vigna Clara, per il suo stesso bene, andrebbe ricoperta da un’abbondante coltre di napalm.

[3]«Il pittore Kramskoj ha dipinto un quadro notevole dal titolo Il contemplatore: vi si raffigura un bosco, d’inverno, e sulla strada che attraversa il bosco si vede un contadinotto assorto, nella più completa solitudine, con indosso un logoro caffettano e dei sandali di corteccia di tiglio; se ne sta lì e sembra pensieroso, ma non sta pensando: sta “contemplando” qualcosa. Se lo si urtasse, avrebbe un sussulto e vi guarderebbe come chi si sveglia di soprassalto, ma senza capire niente. Certo, si riprenderebbe subito, ma se gli si domandasse a cosa stava pensando, non si ricorderebbe nulla; in compenso, però, conserverebbe certamente dentro di sé l’impressione che lo aveva dominato durante la sua contemplazione. Queste impressioni gli sono care, ed egli le accumula senza volere, senza rendersene conto; perché lo faccia e a quale scopo, anche questo lo ignora: forse un giorno, dopo aver accumulato simili impressioni per anni e anni, pianterà tutto e se ne andrà a Gerusalemme, a peregrinare per il mondo e a fare penitenza; o forse darà fuoco al proprio villaggio natio, e magari entrambe le cose». I fratelli Karamazov, libro III, capitolo VI. Non so voi, ma a me ricorda qualcuno.

[4] Ogni mattina un regista italiano si alza e sa che dovrà passare di fronte al balcone di Fellini e, da bravo picciotto, far compiere un inchino alla statua della madonna che porta in processione; il Maestro probabilmente non lo degnerà di uno sguardo, ma lui saprà di poter dormire tranquillo e con il proprio pezzetto di terra al riparo da sventurati e misteriosi incendi.