Marvin_FreaksOut

Once upon a time, in nazi-occupied Rome

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Nella Roma città aperta, tra macerie e bandieroni con le svastiche, è arrivato il circo. Piccolo e sgangherato, ha solo quattro artisti nel suo organico: Cencio (Pietro Castellitto), ammaliatore d’insetti, Mario (Giancarlo Martini), nano calamita, Fulvio (Claudio Santamaria), bestione iperforte e peloso, e Matilde (Aurora Giovinazzo), dinamo umana perennemente carica. Possiedono a tutti gli effetti dei superpoteri, ma il mondo, più che salutare questi personaggi come portenti, li applaude come scherzi della natura – cosa che a loro, in fondo, andrebbe anche bene; ma siamo nel ‘43, gli Alleati bombardano il paese, e lo scalcagnato tendone del quartetto viene ridotto in cenere. Israel (Giorgio Tirabassi), capo della baracca e figura paterna a ore pasti, decide che tocca andare in America: uscito in cerca di documenti falsi, non fa ritorno. Scomparso col malloppo? Rapito dai nazisti? I nostri dovranno decidere a quale delle due ipotesi appigliarsi, ma dovranno fare in fretta: Franz (Franz Rogowski), un tedesco con dodici dita che si imbottisce di etere e disegna cose che devono ancora accadere, è sulle loro tracce. E come ogni cattivo che si rispetti, non ha per niente buone intenzioni.

Freaks Out, scritto (insieme a Nicola Guaglianone) e diretto da Gabriele Mainetti, è il secondo tassello di quello che potremmo definire a tutti gli effetti un Mainettiverse: il regista romano (santo patrono di tutti quei poveri bastardi che sognano un cinema italiano capace di accantonare ogni tanto i disillusi intimismi autoassolutori per mettersi a far saltare in aria cose), forte del successo di pubblico – e, non dimentichiamolo, di critica – di Lo chiamavano Jeeg Robot, si lancia in questa nuova avventura cine(tragi)comica col piglio di chi è riuscito a scucire dodici milioni di euro a Lucky Red, Rai Cinema (in teoria anche Goon Films, ma non vale perché è sua) e la belga GapBusters, senza paura di usarli. La scena iniziale, in cui il tenero e garroniano spettacolo dei protagonisti viene spazzato via da un bombardamento aereo, è un vero e proprio manifesto poetico: mischiare Spielberg e Magnani, Bastardi senza gloria e i film di Pinocchio, la bottega neorealista e l’industria pesante marveliana, unendo sacro e profano in un cinema popolar-autoriale, è il grande sogno del Mainettiverse. Al figlio fumettaro e ribelle dei padri fondatori della Dolce Vita bastano pochi minuti per settare il tono della storia, presentare i personaggi e accendere la miccia del conflitto drammaturgico: è fantastico, anzi di più – è quasi commovente.

Finché i personaggi non cominciano a parlare.

Dopo un simile inizio, sentire Cencio esclamare «Io co’ trecento lire me scopo le mejo mignotte de Roma pe’ n’anno» e Fulvio urlare con mucciniano trasporto «noi senza circo semo solo ‘na banda de mostri!» è quasi – come direbbe il cinéfilo nell’era dell’Internét – un pugno nello stomaco. Ma il romanesco stile A piedi scarzi – che si mantiene, nel bene e nel male, su livelli stabili per tutto il film – non è che un sintomo di un problema che si ispessisce man mano che dal primo atto si scivola nel secondo e poi giù nel terzo: Freaks out, creatura atipica come i suoi personaggi, rimane infatti vittima dei suoi innumerevoli influssi e del suo ribollente potenziale e finisce per accontentarsi di restare un divertente fenomeno da baraccone. Appunto, un freak.

Non fraintendetemi: la regia è di livello, le scene d’azione da applausi (seriamente, quello che è riuscito a fare Mainetti con dodici milioni – contando che Hollywood, per un film del genere, parte almeno da una quarantina – è fottutamente eroico), gli attori sono ben piazzati e la sospensione dell’incredulità tiene fino alla fine. È un film unico nel panorama nostrano, e merita tanto amore quanto il suo regista ce ne ha messo dentro: se vi interessano anche solo marginalmente i suoi temi e la sua estetica, alzate le mani al cielo e lasciate che il prezzo del biglietto fluisca nell’enorme sfera Genkidama che Mainetti sta lanciando contro l’immobilismo del cinema nostrano. Ma è necessario dire, a malincuore, che Freaks out manca il bersaglio in una componente non certo secondaria, dato anche l’evidente omaggio a Tarantino: la scrittura[1].

Come già detto, Mainetti e Guaglianone partono alla grandissima e ci regalano delle ottime prime pagine di sceneggiatura; ma appena Israel scompare e i nostri eroi varcano la soglia per entrare nel mondo straordinario di una nazi-occupied Rome, la storia comincia a perdere di chiarezza e coesione, l’arco narrativo dei protagonisti si appiattisce e tutto si riduce a botte da orbi ed effetti speciali. Delle splendide botte da orbi e dei signori effetti speciali, per carità; ma viste le premesse, non era fuori luogo sperare in qualcosa di più[2].

A conti fatti, Freaks out è un signor prodotto, a suo modo coraggioso e di certo ben confezionato, costretto però a girare a marce basse a causa di una sceneggiatura non all’altezza. A contrapporsi a un ottimo antagonista (Mainetti conferma il suo occhio per il cattivo giusto, come in Lo chiamavano Jeeg Robot) troviamo dei supereroi con forse pochi superproblemi, ma sicuramente in grado di svolgere il proprio lavoro: quello di scartavetrare fottuti nazisti. «And cousin, business is a-boomin’».


[1]A questo punto ci sarebbe da aprire un portone sulla figura dello sceneggiatore in Italia, sulla considerazione pressoché nulla che gli viene ancora oggi riservata e sugli standard di qualità al ribasso che questa considerazione inevitabilmente produce (perché ci piace tanto dire che i nostri attori sono dei cani maledetti, ma se a sti poveri cristi gli fai recitare delle battute orrende il problema forse sta da un’altra parte); ma come direbbe un tizio di cui tendo a fidarmi, «Non è questo il giorno».

[2]A questo punto (parte due) ci sarebbe forse da aprire una parentesi su come, in un film ambientato in Italia durante la Seconda guerra mondiale, la parola “fascisti” venga nominata una sola volta in 141 minuti, di militari o camicie nere che assistano i nazisti nei rastrellamenti non si veda neanche l’ombra, e il nostro paese paia invaso così, di punto in bianco, colto nella sua innocenza come una Cecoslovacchia qualunque. Ma questa è una faccenda che va avanti dal ’45, e di certo non possiamo imputare al povero Mainetti (che il Signore lo benedica e lo preservi) simili, triviali mancanze. E poi, come sopra, «Non è questo il giorno».