La scrittura di Gianluca D’Andrea, da Transito all’ombra (Marcos y Marcos, 2016) fino all’ultimo Nella spirale (industria & letteratura, 2021), passando per la sospensione saggistica di Forme del tempo (Arcipelago Itaca, 2019), ricade negli stessi gorghi di memoria, nelle stesse spirali geografiche, temporali, esistenziali, poetiche e semantiche con leggere ma significative variazioni. Se in Transito all’ombra a dominare, a livello formale, era un certo lirismo talvolta a misura d’endecasillabo, oppure aperto al racconto mitologico e allegorico in versi anisosillabici (come nella prima sezione: La storia, i ricordi), in questa nuova raccolta D’Andrea, attraversata la prosa di Forme del tempo, trova un equilibrio, e di stile e di forme, nel prosimetro. Anche le aree tematiche delle due opere precedenti vengono rimescolate e riprese in una struttura più compatta e geometrica, che prende in prestito la scansione stagionale per segnare le tappe di un viaggio, di un transito, di nuovo dantesco, nella poesia, verso la catastrofe ambientale e politica, la fine del mondo e le sue possibilità rigenerative.
Dunque Primavera, Estate, Autunno e Inverno sono le quattro sezioni, abbellite dai disegni di Vito M. Bonito, che, in una simmetria perfetta, ospitano dieci testi ognuna. A partire dal macrotesto D’Andrea richiama e si smarca dalle forme di narratività interna presenti in Transito all’ombra. Le richiama perché in entrambe le raccolte il poeta racconta “camminando” nel tempo e nello spazio, in una narrazione nella narrazione – come accade in Nella spirale, nella catabasi e ascesi della sezione Estate; si smarca perché, se in Transito all’ombra si trattava di una risalita sulla linea del tempo fin dalla remota infanzia e dagli anni ottanta, in Nella spirale cade il principio stesso di temporalità, annullato dalla figuratività dello stesso titolo: una spirale che risucchia la memoria, cancellando passato-presente-futuro.
Nella spirale è di fatto un libro che si fa nel suo stesso progredire, nell’avanzare della sua scrittura che non punta verso un ideale progresso, un punto prefissato. In Il terreno ha accumulato calore D’Andrea scrive che «in cammino è la visione del mondo, guardare nelle sue trasformazioni, camminare scalzi per non offendere i fermenti, mettersi da parte, contemplarlo». L’io lirico si scansa per contemplare una visione, e come diceva in Forme del tempo – quasi in una anticipazione teorica di quello che avrebbe messo in pratica nel successivo lavoro – traccia la sua scomparsa: «perché l’osservatore passa e il passaggio lo intride di tracce» (Cogliendo altri segnali). Il soggetto scomparso corrisponde, giustamente, alla «massa informe dell’uomo-moneta, dell’uomo-dato monetizzabile» (Geografia del dominio) nel contesto della società neoliberista. È anche il soggetto che compie il viaggio a partire dal testo Colei che brucia le navi, un viaggio, tipico nella poesia di D’Andrea, in un passato impercorribile, ma che la letteratura riaccende, fa scintillare nell’ombra. Secondo una tecnica ancora tipica di D’Andrea, cioè il montaggio (benjaminiano?) dell’inserto, della citazione esplicita da altri autori, si comprende l’entità e le potenzialità di questo soggetto dai versi di Robertson: «non posso riportare intatto nulla di ciò. / La mia faccia è fumo, il mio corpo acqua, / le mie orme sono fatte di neve».
In Sicilia D’Andrea sprofonda (la serie Nelle profondità), ritorna-risale (la serie seguente Il ritorno): la regione diventa spazio e tempo della memoria. Terra d’origine, archetipo, mito. Terra di spettri e fantasmi, come già in Transito all’ombra aveva descritto con una potentissima anastrofe spaesante in Il fuoco (ritorno in Sicilia). Anche qui ritorno, ripiegamento. Sull’isola sputo del dio D’Andrea s’affaccia sulla «sera del mondo», sull’estinzione, in un cammino «reale e immaginifico», un’esplorazione senza piani temporali che risulta vera e allo stesso tempo allegorica. Nella poesia e prosa di D’Andrea c’è sempre questo impercettibile passaggio dalla dimensione del reale alla dimensione dell’immaginazione e dell’archivio della memoria. La salita e la discesa («così ruppi l’attesa e con un gruppo di amici raggiungemmo il sentiero in salita che ci proiettava in uno spazio altro») diventano man mano immagine di una condizione esistenziale («Occidente era il nome dell’illusione, dell’ultimo bagliore prima della scomparsa»). Da questa tensione deriva un contatto, una relazione, un’ipotesi di senso. Nel testo Immaginazione, in Forme del tempo, D’Andrea spiegava come «le parole sono il mezzo per tentare il riempimento, almeno in parte, laddove il segno ha creato il vuoto della sua inaderenza al concreto». La scoperta di questo cammino, accennata in Transito all’ombra, nella sezione Estate totalmente compiuta, si rivela essere la trasformazione medesima, «i nostri corpi assorbiti dal sistema, rimodellati». Ma dopo la visione, e sempre nella dialettica del poeta, si staglia l’oblio del capitale, la dimenticanza del benessere forzato, per questo il viaggio viene rimosso, si autocancella all’incombere dell’Autunno.
La terza sezione della raccolta s’avvicina più di tutte lessicalmente e foneticamente al faro dantesco, in questo caso il Dante delle rime petrose. La forma diviene contenuto, il contenuto forma. Ad indicare la marcescenza e la maturazione eccessiva crepitano e si scontrano fricative e sibilanti, i dialettalismi si intensificano fino ad impastarsi con la lingua della fine: «colate / di fuoco, u focu u focu / si smancia sta terra, viva, / impazzita di sete, supina / comu i so’ figghi scappati». In Autunno D’Andrea mette in scena «le stagioni, le parole e il continuo travaso tra di esse», prepara il lettore, con occhio da geologo o meteorologo («Quando un tempo borea pesantemente armava i candidi ghiacci prima che squarci rigassero la foresta e la terra arata fosse spogliata di ogni biosistema»), alla caduta in pezzi del mondo, alle «nozze tenebrose tra vita e morte».
La prosa qui s’addensa, si presta alla catalogazione scientifica degli effetti del marciume sull’ecosistema per asindeto o in una paratassi stremante («senza bruciature e scatti e stimmi»), e soprattutto si prende la responsabilità di trovare il colpevole nel noi che la esprime, che deve espiare la colpa di «non sopportare la grandezza di essere un sistema, di esserne difetto e motore, semplicemente e sempre la sua rovina incipiente». Poeta e lettore siedono tra i commensali che foglia dopo foglia raggiungono il cuore del mondo-carciofo, mangiandolo, come suggerisce l’immagine di Si sporge il virus zombi. D’Andrea lo dice chiaramente: senza vita non esisterebbe la morte, senza origine non ci sarebbe una fine, senza mondo e materia non ci sarebbe poesia. Il vertice, e insieme punto profondo (ma si possono distinguere?), della spirale sta proprio nella messa in discussione dell’etica della poesia, la contestazione delle sue forme nell’epoca, e nell’epica, del climate change.
Le forme chiuse vengono poste sull’orlo della fine. Nell’ultima sezione Inverno il madrigale, il sonetto e la sestina fanno i conti con la catastrofe. Ciò significa, in una veduta più generale e meta-storica e letteraria, che l’autore mette a confronto la tradizione e il suo possibile punto terminale, Dante, Fortini, Pasolini e Zanzotto (quello delle Ecloghe) di fronte al non-ritorno dato dall’esaurirsi del pianeta. Ma quale catastrofe? A questo proposito si potrebbe citare l’interpretazione data da Mark Fisher, autore che D’Andrea sicuramente conosce bene (estrapola, d’altronde, in un punto del libro, le parole di Burial contenute in Spettri della mia vita), del finale de I figli degli uomini, film di Alfonso Cuarón analizzato nel primo capitolo di Realismo capitalista: «la catastrofe non è dietro l’angolo, né è già avvenuta: piuttosto, viene attraversata. Non c’è un momento preciso in cui il disastro si compie, né il mondo finisce con un bang: semmai si esaurisce, sfuma, va lentamente in pezzi». Nelle ultime due sezioni accade esattamente quanto diagnosticato da Fisher, con la differenza che in Inverno D’Andrea si immagina una rinascita a stento della natura.
Nella spirale non dà risposte, ma interroga e si interroga sul senso della poesia nei tempi delle sglaciazioni, del clima disadatto. Vale la pena allora concludere con la terzina finale della sestina intitolata significativamente Nuovo mondo, in cui sono racchiuse le parole-chiave e gli elementi della rigenerazione: «Intanto questa notte è desiderio / d’aria e respiro, protesta del ghiaccio / alle stagioni in cerca d’altro mare».
Luca Mannella è nato a Monza il 12 luglio del 2000. Attualmente è studente di Lettere Moderne all’Università degli Studi di Milano. Scrive di cinema e letteratura per Birdmen Magazine e lay0ut magazine.