Troumaron, quartiere malfamato della capitale mauriziana di Port Louis, è lo scenario in cui sfilano le vite di Eva, Sadiq, Savita e Clélio, i quattro diciassettenni protagonisti di Eva dalle sue rovine – pubblicato dalla neonata Utopia e tradotto dal francese da Giuseppe G. Allegri.
«Sono in un posto grigio. O piuttosto marrone giallastro, degno del suo nome: Troumaron. Troumaron è una specie di imbuto; l’ultimo scolatoio dove confluiscono le acque sporche di tutto un paese. Qui vengono riaccasati i profughi dei cicloni, quelli che non sono riusciti a trovare una sistemazione dopo una tempesta tropicale e che, due o cinque o dieci o venti anni dopo, hanno ancora i piedi a mollo e gli occhi pallidi di pioggia».
La crudezza di queste parole, nella loro poeticità, apre la prima parte del romanzo di Ananda Devi, tra le voci più rilevanti del panorama letterario africano contemporaneo. La scrittrice, classe ’57 e originaria dell’isola di Mauritius, ha ricevuto con Eva dalle sue rovine, nel 2006, il Premio dei cinque continenti della francofonia e nel 2010 è stata eletta cavaliere dell’Ordine delle arti e delle lettere dal governo francese. Ananda Devi dipinge il triste affresco della quotidianità dei protagonisti di questo dramma d’oltremare, con una scrittura tanto acuminata quanto profonda e suggestiva, in cui lo spazio per il rammarico è tagliato fuori. Le parole usate da Devi – e dunque dai quattro personaggi, più una voce fuori campo che si frappone tra i capitoli – non passano attraverso alcun filtro; le vicende narrate si intrecciano nella dolorosa tela della vita povera, ma vera, di Troumaron.
Eva fa del suo corpo merce di scambio. L’innocenza adolescenziale si scontra con la violenza e la desolante umanità del quartiere di Port Louis, soccombendo irrimediabilmente. Eva è il perno della narrazione e, per guadagnare piccoli oggetti insignificanti e per la ferrea volontà di emanciparsi dai propri genitori, incagliati in un tempo immobile e assente dalla volontà, si prostituisce. Nelle prime pagine del romanzo leggiamo: «Mi menano, poi mi rimenano. A volte mi malmenano. Ma non mi importa. È solo un corpo. Si aggiusta. È fatto apposta». Vive assecondando il motto “do ut des”: la carne è solo carne, il corpo è solo corpo; e la mente è esule da ogni violenza fisica che subisce, lei crede. Eva si guarda sprofondare, ogni maltrattamento le annulla una parte di sé, fin quando non le resta che piegarsi al flusso intollerabile della vita, che la porta alla deriva.
«Non capisco perché il mio corpo in movimento continui a fingere, quando mollare il colpo sarebbe stato meglio. È come il fremito nervoso del tempo, che anche vuole farla finita. Giorni fiacchi di tepore, giorni sdolcinati, giorni di pollini, giorni di polluzione, di piogge come gocce di ombra ad affogare gli animi. Inverni pallidi, piatti come il dorso di una mano. Estati che esplorano i corpi con le loro dita roventi. Cicloni e siccità in successione accelerata. Il tutto in un solo anno. Quello dei miei diciassette anni. Di tutto mi è successo: la vita e la morte».
Sadiq ha la vocazione per la poesia e ama le parole; qualcosa si accende in lui quando i versi del coetaneo Rimbaud gli piombano inaspettatamente addosso.
«Mi ricordo il giorno in cui mi sono diviso in due: al corso di francese, la prof, una giovane malaticcia dal colorito giallo pulcino come le sue camicette, che non è poi rimasta a lungo (per questo dico che era qui solo per me, al momento giusto, come un segno del destino venuto a bussare sulla mia zucca addormentata), la prof, quindi, ha detto: leggeremo delle poesie di qualcuno della vostra età. I maschi, appena sentono la parola poesia, fingono di vomitare e si tappano le orecchie facendo dei versacci. Lei, però, in mezzo a tutto quel casino, con la sua vocina tremula, le poesie le ha lette lo stesso e anche qualche lettera di quel ragazzo. È partita con: non si è seri a diciassette anni. All’inizio, mi sono detto: questo si sbaglia perché, per noi, diciassette anni sono una cosa molto seria. Ma subito dopo ho sentito, non la voce di lei, ma quella aspra di un ragazzo che parlava delle sue voglie, della sua ribellione, delle sue ferite, dei suoi desideri, ma non solo, parlava anche del mondo, del suo e del mio, e di colpo ho avuto l’impressione che parlasse a me soltanto. Sì, direttamente. Mi diceva, sono tuo fratello».
Sadiq incarna lo spirito della poesia. È innamorato di Eva, per la quale riserva un sincero senso di protezione; per lei compone i versi che scrive con decisione sui muri della sua camera, al chiuso da occhi e cuori che non capirebbero. Sadiq ha il dono della sensibilità, che è empatia e immedesimazione. L’incontro con Rimbaud e la sua poesia danno al giovane diciassettenne una ragione di vita che, nel magma di una società cieca alle ambizioni, è l’espediente per un riscatto individuale: «Io voglio entrambe le cose: la scrittura ed Eva. Eva e la scrittura. Non una senza l’altra. Solo, non sono niente. Loro due sono i frutti che mi riempiono, i semi che faranno germogliare altri semi e moltiplicare la mia voce come un baniano che divora continuamente spazio».
Savita rappresenta invece l’amore protettivo e materno. Dei quattro protagonisti, lei è la sola ad andare oltre le convenzioni cristallizzate di noncuranza del quartiere Troumaron e prende la fragile Eva sotto la propria ala; se nelle pagine di questo romanzo c’è morale e speranza, le troviamo entrambe in Savita: il suo è paziente stare in disparte, ma in costante ascolto nei confronti di Eva, per la quale prova premura e apprensione. Savita è una costola di Eva, la sua Lilith: fedele al potere di scegliere e di autodeterminarsi, è autorevole e sagace; Savita ripone cieca fiducia in Eva, e viceversa. In uno dei capitoli in cui è Eva a parlare, quest’ultima ammette: «La sola cosa che mi mantiene in vita è Savita». Eppure, nel microcosmo sregolato di Troumaron, dove regnano i violenti, Savita è vittima di un riprovevole femminicidio.
«Bisogna che le parli. Dobbiamo andarcene, fuggire. I ragazzi del quartiere stanno diventando uomini, con un odio da uomini. Presto se la prenderanno con noi. Non sopporteranno più di vederci tutte e due insieme. Lei, a loro, non fa caso. Io, sì. Vedo la rabbia che monta. Vedo il fervore che ribolle negli animi. Dobbiamo andarcene.
Ma come si fa a scappare quando ci si sente così pesanti? Fatico a camminare. Fatico a respirare. La terra mi si è attaccata ai piedi. Ho i piedi intrappolati nella lava. Presto non riuscirò più a muovermi. Il vulcano mi farà a pezzi».
Clélio è la scheggia impazzita. La sua rabbia è giustificata, e nasce dall’illusione di una vita più felice, promessa fallita da parte di Carlo, suo fratello maggiore. Le parole di una figura-guida si fanno sigillo incastonato nel cuore speranzoso di Clélio; ma, dove il desiderio soccombe, odio e rancore mettono radici. Clélio è colpevole innocente delle false credenze del quartiere: è lui il solo capro espiatorio del femminicidio, lui il solo imputato. Nel suo animo ribelle, sconfitto a diciassette anni dalla vita, si nasconde un profondo amore per la musica che dà rifugio ed è ancora di salvezza nel mare mosso della vita di Troumaron.
«Ho un turbinio di pensieri per la testa. Port Louis mi ruba qualcosa dentro. Troppa gente, troppe macchine, troppi palazzi, troppi vetri oscurati, troppi nuovi ricchi, troppa polvere, troppo caldo, troppi cani randagi, troppi topi. Non so dove andare. Proseguo la mia corsa circolare. Mi mordo la coda.
Mio fratello più grande, Carlo, se ne è andato. È partito per la Francia dieci anni fa. Ero piccolo. Era il mio eroe. Partendo mi ha detto: torno a prenderti. E io aspetto. Non è mai tornato. Qualche volta chiama, ma solo per dire banalità. Non so cosa faccia lì. Ma dal tono della sua voce lo so che mente, che non ce l’ha fatta. Dal tono della sua voce so che è morto.
E allora, anch’io vorrei uccidere».
La struttura a capitoli alternati di Eva dalle sue rovine ricorda le opere di William Faulkner: il romanzo di Ananda Devi condivide, per esempio, la desolante e arida realtà di Mentre morivo. Le voci di Eva, Sadiq, Savita e Clélio si affacciano con cruda limpidezza al lettore. Non c’è finzione nelle loro parole: ogni comportamento, dettato dalla libertà o dalla determinazione, è il frammento intimo della delicatezza adolescenziale che in una società come questa non può che soccombere. Le pagine del potente romanzo di Ananda Devi sono intrise della povertà e del degrado di Troumaron, dove rabbia e abbandono hanno messo radici; di qui scaturisce il senso di impotenza e implosione, autoannientamento, abnegazione morale e dei valori dei personaggi. Per Eva, Sadiq, Savita e Clélio stare al mondo è combattere giorno per giorno contro la giungla degli animi umani, ma non c’è cuore che regga alle umiliazioni – fisiche o psicologiche che siano.
Eva dalle sue rovine è un libro di violenti e violenze, di colpe e colpevoli. Ananda Devi guarda agli angoli bui della città di Port Louis e punta i riflettori sulla realtà delle cose che, su larga scala, passa troppo spesso in sordina.