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Tribes of Europa, peccato

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La visione famelica di serie tv praticata dal pubblico giovanile negli ultimi anni ha abituato corpo e mente, nell’atto di sospensione che accompagna l’avvicendamento degli episodi, ad allontanarsi da sé in cambio di una realtà altra (tendenzialmente americana, con soggetti familiari più per sentire universale che per prossimità di confini). Tribes of Europa, invece, si concentra sul concetto di Europa, nella sua veste politica di Unione, potenza pacificatrice che, per contrasto, si rivela nel momento della sua morte. La nuova serie tv originale Netflix, disponibile dallo scorso 19 febbraio prende avvio da una premessa: siamo nel 2074, il progetto dell’Unione Europea è fallito e il Vecchio Continente è diviso da guerre tra clan e microstati indipendenti, ognuno portavoce di valori e credenze proprie. Tutto si è disgregato a partire da un misterioso blackout durante il “Dicembre nero”, che ha causato la fine della tecnologia sull’intero pianeta.

Diretta da Florian Baxmeyer e Philip Koch e scritta da Jana Burbach, Benjamin Seiler e Koch, Tribes of Europa nasce in Germania, dagli stessi produttori della fortunatissima Dark. Il sapore tedesco è percepibile nelle intenzioni ambiziose del progetto, che punta a una narrazione post-apocalittica coinvolgente e imprevedibile. Il ritmo è serrato, velocissimo – si può guardare tutta d’un fiato in una sola serata, zona rossa mi senti? – anche se a tratti potrebbe risultare frettoloso. La costruzione della storia si sviluppa in un crescendo sbilanciato, che sprigiona il suo potenziale principalmente nelle ultime due puntate. «Peccato», sarà un pensiero ricorrente nel corso della visione.

Il genere sci-fi e le atmosfere distopiche disegnano una cornice accattivante per lo spettatore di oggi, che guarda agli scenari post-catastrofisti con distacco e senso di straniamento sempre minori: nel periodo storico attuale, immaginare un futuro di rovesciamenti geopolitici causati da forze incontrollabili non è poi così difficile. Proprio per questo, la narrazione che scorre davanti ai nostri occhi dovrebbe dirci qualcosa in più sull’avvenire, spiegarci come potrebbe essere e chiarirci quale sarebbe il modo migliore per affrontarlo.

Nel futuro di Tribes of Europa esistono diverse civiltà: i Corvi, guerrieri senza pietà, schiavisti e portatori di morte, la cui iconografia urbana – vivono in una specie di modernissima Berlino – e umana – occhi bistrati di nero, vestiti di pelle e latex in linea con pratiche sessuali al limite del BDSM – affascina e rende perplessi al contempo, rivelandosi a tratti grottesca e priva di originalità. I Crimson, soldati guidata dal Padre, uomo-simbolo degli ideali dell’antica UE fondati sulla volontà di pacificazione, sulla convinzione che la strategia difensiva sia l’unica percorribile e che il conflitto possa risolversi grazie alla contrattazione e al dialogo. Gli Atlantidei, unici individui a non essere stati colpiti dal blackout tecnologico globale, popolo misterioso, legato, come il nome suggerisce, allo spazio del mare.

E poi ci sono gli Origini, una piccola tribù fondata in mezzo alla foresta, immersa nella ritualità della natura, distante dalle dispute belliche per la supremazia politica; qui vivono Liv (Henriette Confurius), Kiano (Emilio Sakraya) ed Elja (David Ali Rashed), i fratelli protagonisti della serie.

Le linee narrative dei tre personaggi si dividono quasi subito, e portano avanti ognuna una direzione promettente. Lo spettatore si trova così coinvolto da una doppia dimensione, particolare-familiare da una parte – Liv che tenta di riunirsi a Kiano catturato dai Corvi – e universale-storica dall’altra – il viaggio di Elja cui è stata affidata una missione superiore. Il suo compito, infatti, è quello di portare un cubo-mappa-oracolo agli Atlantidei per avvertirli di una minaccia in arrivo, lo “sciame nero”, e scoprire maggiori informazioni sul blackout che ha interrotto lo status quo. Il tentativo di immergersi dentro le fila del racconto, però, resta disatteso, perché i tratti dei personaggi risultano solo accennati, incastrati dentro stereotipi che li rendono bidimensionali. Si fatica infatti a interpretare la loro natura non solo nel rapporto con l’altro ma anche nei contorni caratteriali individuali, data la gamma valoriale poco approfondita. Lo spettatore sembra quasi non avere il tempo per conoscerli davvero, per odiarli o amarli. Spera che da un momento all’altro il tessuto della trama si faccia più fitto, che, per esempio, la figura della madre fondatrice degli Origini o la complessità emotiva di Kiano – personaggio potenzialmente molto interessante, se solo si riuscisse ad ascoltare i suoi pensieri – vengano approfonditi. Eppure, quel momento non arriva mai.

«Peccato», dicevamo. Perché alcune intuizioni sono invece efficaci. In particolare, l’idea – ancora solo accennata ma con un buon margine di crescita in vista di un’ipotetica seconda stagione – delle Femen, amazzoni itineranti che vivono secondo il principio della sorellanza tra donne (il nome riprende quello del movimento femminista nato nel 2008 in Ucraina come protesta al turismo sessuale, alle discriminazioni sociali e al sessismo del paese). Anche in questo caso per costruire un mondo futuro gli ideatori attingono a un immaginario conosciuto: le regole, e le rivendicazioni, del 2074 sono le stesse di oggi.

Una ventata di aria fresca arriva con il personaggio di Moses, un rigattiere piuttosto stralunato a caccia di occasioni di guadagno, a cui Oliver Masucci, attore tedesco di origini italiane, regala un’ottima prova interpretativa. Attraverso l’ironia, Masucci riesce a rappresentare la ruvidezza di chi affronta la realtà con prudente disillusione restituendo, allo stesso tempo, la sfumatura d’animo di colui il quale custodisce una generosità involontaria; Moses diventa a poco a poco una figura di riferimento per Elja, che viaggia insieme a lui. Delicata e commovente è la scena in cui Moses si rende conto di essere diventato come suo padre, alcolizzato, proprio mentre Elja guarda a lui come a una figura genitoriale.

Anche la performance attoriale di Ana Ularu si dimostra convincente: la figura di Grieta, guerriera dei Corvi prigioniera dei Crimson, aiuta a comprendere il sistema etico dei Corvi, lasciando trasparire un compendio emozionale variegato (l’orgoglio ostinato, la fedeltà alla propria natura, la paura di riconoscersi fragili). Nota di merito, infine, all’attrice iraniana Melika Foroutan, perfettamente centrata nel personaggio di Lord Varvara.

La colonna sonora, curata da ClintonShorter, alterna un tema di sottofondo con successi più o meno noti della musica europea, tra cui anche due pezzi italiani (Quando penso al tuo sorriso e Avorio splendido) risultando godibile e in linea con l’atmosfera narrativa. Stesso dicasi per la fotografia, che accompagna lo spettatore nei paesaggi della Svizzera sassone – zona naturalistica fra la Sassonia e la Repubblica Ceca – con giochi di luce che esaltano la bellezza degli spazi incontaminati.

In conclusione, Tribes of Europa è una serie tv che merita il beneficio del dubbio, disseminando qui e lì soluzioni affascinanti e originali, nella speranza che un’eventuale seconda stagione dialoghi in modo più approfondito con le attese dello spettatore, costruendo un’identità narrativa non solo estetica, già riuscita, ma anche di contenuto. Insomma, per adesso, un vero «peccato».