Il fumetto non ha bisogno di far credere che ciò di cui si parla stia accadendo davvero, qui e ora, nel momento in cui leggiamo. La scansione della tavola congela il tempo in tanti piccoli istanti che l’autore seleziona scegliendo il ritmo più adatto alla storia. Il ritmo però non è mai oggettivo e, come diceva Fellini, «beneficia della collaborazione dei lettori», che nelle vignette trovano soltanto la traccia (vera) di una storia (finta) che raccontano a loro stessi, ricostruendo tutti i movimenti della scena. La velocità di un fumetto non dipende soltanto dalla chiarezza dello schema, ma anche dal nostro grado di attenzione che varia a seconda dell’umore e che compromette, nel bene e nel male, la lettura stessa.
Potremmo dire che il fumetto non rappresenta mai una storia, ma la evoca. Se lo leggiamo attentamente quasi mai ci facciamo condizionare dal ritmo, che è il risultato della diluizione dei fatti. Ci interessano i contenuti delle vignette, quanto spazio occupano, la loro disposizione nel foglio, e quindi il margine bianco che le separa e sta a noi riempire con la fantasia.
Evocare una porzione di spazio molte volte e a breve distanza, fermando il tempo e dandoci la possibilità di farlo ripartire proseguendo nella lettura: forse la vera peculiarità del fumetto è proprio questa. Parafrasando Giacomo Gambineri, «basta sfogliare un numero di Topolino» per avere i superpoteri più cool e «trasformarsi in lettori pentadimensionali». Alla dimensione delle vignette (sequenziale), delle tavole (tabulare) e del libro che si ha tra le mani (volume), dovremmo però aggiungere la prossemica, che divide chi legge da chi è letto, e che acquista o perde importanza a seconda della convenzionalità della storia. Perlomeno nei fumetti. Nei romanzi d’appendice, ad esempio, a volte tanto spudorati da ripetere gli stessi aggettivi a distanza di poche righe, non sono la credibilità dei personaggi o lo spessore dei sentimenti a rendere valida la narrazione, ma il modo in cui esauriscono la loro funzione strutturale, attraverso dialoghi-fiume, colpi di scena esagerati o eccessi stilistici vistosamente inopportuni.
Anche una storia per il cinema può beneficiare dell’accumulo e dell’intemperanza, specie se i personaggi non sembrano assomigliare a chi li guarda. Spesso siamo portati a credere che un regista che ci mostra una storia superficiale ci stia trattando da persone superficiali, ma questo non si verifica quando leggiamo un fumetto della stessa tipologia. La differenza tra i due linguaggi è palese: il cinema rende sempre intangibile il visibile (un’immagine bidimensionale proiettata su una superficie piana) e ci fa ragionare col distacco tipico di chi non è parte della storia ma è solo spettatore esterno. Nel fumetto, invece, non c’è un’unica superficie, ce ne sono tante congelate (le vignette) che normalmente ci fanno percepire la storia anche se letta tramite un display. Il fumetto rende tangibile l’invisibile perché la sua essenza risiede nello spazio bianco, e sprigionarla è compito della nostra sensibilità.
Ecco, Jesse Lonergan è uno di quei (pochi) autori che ancora mi fanno credere il contrario.
I suoi fumetti negano la funzione convenzionale del bianco e adottano una costruzione della tavola estremamente serrata che sembra lasciare poca libertà di lettura, come se stessimo fissando un’unica immagine su uno schermo. Non importa che la griglia sia divisa in tante parti: la Gestalt, la corrente psicologica del Novecento centrata sulla rilevanza della percezione e dell’esperienza, ci insegna che il loro insieme, ai nostri occhi, vale meno dell’intero. Generalmente la percezione è ingannevole perché, se vogliamo trovare un significato compiuto ai riquadri, possiamo soltanto leggerli in sequenza senza farci condizionare dai dettagli o dalla globalità.
Come si vede dall’illustrazione qui sopra, Lonergan non è il primo a mettere a punto questo sistema (che negli anni Venti era stato proposto da Frank King, di cui vediamo una celebre tavola sulla sinistra), ma l’autore californiano è fra i pochi a saperlo utilizzare con originalità ancora oggi, anche nonostante i numerosissimi (e spesso talentuosissimi) emuli di King. La particolarità della tavola di destra, tratta da un fumetto on demand che Lonergan aggiorna ogni lunedì sul suo blog, sta nel silenzio che la avvolge. Nel mondo di Gasoline Alley invece non c’è spazio per il silenzio: la striscia, creata da King nel 1918 e passata subito alla storia per il suo coraggio visivo, ha come protagonisti uno scapolo neghittoso e un trovatello abbandonato, legati da uno strano rapporto padre-figlio. Un rapporto in cui i dubbi e i ripensamenti sono banditi e le sole possibilità di salvezza sono il sostegno reciproco e la fiducia nel futuro. Da qui, l’incessante movimento dei personaggi verso il lato destro della pagina, proprio tutti, nemici compresi, come il giovane teppista Clarence che in questo caso cerca di acchiappare Skeezix e Trixie, ma cade nel cemento fresco perché non guarda dove va.
Dato che un’immagine supera sempre, per sua natura, il messaggio di cui è portatrice, il senso generale della tavola emerge anche senza leggere i balloon perché è racchiuso nelle espressioni dei personaggi. Una scena silenziosa però non ci restituirebbe lo stesso effetto prossemico dell’originale: i bambini ci sembrerebbero privi di spessore e nella nona vignetta perderemmo l’esclamazione di Clarence, che per una strana illusione ottica guarda proprio verso chi dice di stare cercando, ribadendo così tutta la sua limitatezza caratteriale.
Quando si guarda la tavola di destra, invece, l’attenzione è immediatamente richiamata dal grande volto a inizio pagina che la nostra immaginazione fa subito dialogare col paesaggio rurale del fondo, dove un essere umano giace isolato da un riquadro. Li divide un cielo a chiazze, ora scure ora chiare, una delle quali si sovrappone alla figura in alto, “sporcando” la nostra percezione dell’intero. Non appena smettiamo di dare retta ai nostri impulsi possiamo iniziare a “leggere”, una vignetta dopo l’altra, come se ogni immagine fosse una realtà a sé.
Paradossalmente questa sequenza ci permette di capire anche lo sviluppo della precedente. L’interesse di King era narrativo, prima ancora che percettivo: usava in modo totale e coeso tutto lo spazio a propria disposizione, creando un’illusione di ridondanza attraverso le azioni dei personaggi che sfociavano via via nell’immagine successiva. Il risultato era una grande infografica nella quale unità di tempo, di luogo e di azione coincidevano e, con loro, due delle dimensioni di cui parlava Gambineri (tabulare e sequenziale).
Nel lavoro di Lonergan la quiete e la staticità del colpo d’occhio iniziale non restituiscono la stessa sensazione della sequenza effettiva: si passa dal celeste della sesta vignetta al notturno di quella che segue e poi ancora al cielo e al notturno tre inquadrature più tardi. Nella quinta serie spuntano i primi rilievi montuosi e l’immagine si riunisce nel tutto. Può sembrare un inutile gioco concettuale, invece consente all’autore di ribadire tre aspetti della storia: la condizione di prigionia in cui versa l’essere umano (esasperata dalla griglia a forma di gabbia), il suo rapporto con l’entità superiore che l’ha creato e che lo scruta in ogni momento (è in scena anche quando il nostro occhio si focalizza su un riquadro dove lui non compare) e la grande distanza che li separa.
Qui però le dimensioni sono ancora tre: proprio come nella striscia di King, manca il volume e l’immagine dialoga con sé stessa perché non fa parte di un albo cartaceo. Finora abbiamo ragionato bidimensionalmente; adesso proviamo a complicare le cose e passiamo a questo:
È la scena madre di Hedra (Image Comics), un fumetto autoconclusivo di cinquanta tavole che Lonergan ha messo in vendita durante la pandemia, registrando in pochi giorni il tutto esaurito e godendo di un ottimo successo di critica. La storia ci suona familiare: il pianeta Terra è sull’orlo di una crisi nucleare e per dare una speranza all’umanità una giovane astronauta viene mandata in esplorazione nel cosmo, in cerca di nuove specie viventi ed ecosistemi sostenibili. Capitata per sbaglio su un pianeta sconosciuto, è costretta a difendersi dall’ostilità degli abitanti locali dando prova del suo coraggio. Anche qui troviamo una situazione analoga al modello di King (una serie di vignette isomorfe che ingabbiano la pagina) e con essa le solite differenze che già nell’immagine di prima caratterizzavano lo stile dell’autore: il silenzio tonante, i personaggi imbrigliati nei riquadri e la netta divisione incrociata del foglio.
La grande novità di Hedra però è nell’azione. A giudicare dai movimenti della protagonista ci sembra quasi di aver fatto ritorno a Gasoline Alley e alla sua ridondanza dispositiva, ma qui i personaggi non parlano, compiono gesti elementari tanto quanto lo sono le loro vicende, che Lonergan enfatizza con un montaggio invisibile facendosi aiutare dall’illusione percettiva già nota. Dunque la lettura della tavola si sviluppa verticalmente, lungo le traiettorie dei fendenti, ma sempre tenendo presente lo spazio tra i riquadri, accomunati dallo stesso colore bianco che, qui come in altre parti del fumetto, caratterizza tutti i movimenti nelle cinque dimensioni: lunghezza sequenziale, altezza tabulare e le tre grandezze stesse dell’oggetto libro (altezza, larghezza, spessore).
Anche il tempo subisce un rallentamento interessante. Lonergan ne studia una resa efficace sia per chi ha fretta di arrivare in fondo sia per chi vuole godersi tutti i movimenti di macchina e ricreare il ritmo (e la storia “fittizia”) a partire dalla traccia “reale”. Nel primo caso si serve di un espediente metafumettistico di alto livello, che proprio come il più classico degli indicatori visivi chiarifica il verso di lettura e isola i due piani temporali della scena: le gesta dell’eroina in alto e la dissoluzione dei progetti del cattivo in basso. Nel secondo caso, invece, lo stesso artificio rompe la lettura orizzontale della tavola: se vogliamo capirci qualcosa dobbiamo fare una pausa tra la terza e la quarta vignetta e proseguire verso il basso, tre riquadri alla volta, fino a che la protagonista non ci indica la nuova direzione, risolvendo una situazione difficile.
Accade tutto talmente in fretta che non c’è spazio per quadretti a tinta unita. In Hedra, se gli spazi bianchi significano “movimento”, i neri sono pause forzate, dilatazioni del tempo e della scena, e meno ne rintracciamo più la protagonista si trova nei guai. Qui la reiterazione delle dinamiche favorisce la comprensione del ritmo, tanto più che a ogni fendente della lama su sfondo scuro possiamo far corrispondere un suono diverso che ci aiuta a visualizzare meglio la situazione e ci rende sempre più protagonisti di una storia priva di parole (inutili, in orbita).
Nel lavoro di Lonergan c’è la quinta dimensione a complicare ulteriormente le cose: tutte le vignette che osserviamo sono in dialogo, nello stesso tempo, con le loro vicine di tavola, con le loro corrispondenti a destra e a sinistra, ma anche con quelle di altre pagine distanti, che il fumettista californiano progetta sempre congiuntamente, come solo i bravi autori sanno fare. In circostanze particolari capita che una singola inquadratura venga ripresa due volte, prima schiacciata da un reticolo di vignette, come ormai siamo abituati, e poi, quattro pagine dopo, in un unico spazio. Non cambia solo il contenuto, ma anche il messaggio: nel primo caso il panorama è sconosciuto a noi e all’astronauta, e insieme dobbiamo provare a esplorarlo; nel secondo la gabbia scompare perché il nostro occhio si è già abituato alla scena e l’autore non può mai viziarlo facendogli provare più di una volta la stessa sensazione.
In altri casi, però, capita che voglia confonderlo. Ad esempio qui:
La controparte maschile di Hedra è un alieno capace di modificare le dimensioni del proprio corpo, e che durante l’esplorazione del pianeta misterioso viene attaccato dai nemici e fatto prigioniero. Lonergan ne aveva presentato i superpoteri poco prima di mostrarcelo in questo stato, ma la scena restava comunque molto criptica per chi ancora non aveva letto tutta la storia, complice la profondità del panorama che suggeriva piuttosto uno zoom sul personaggio (come se fosse ripreso al rallenty). Solo in queste tavole capiamo che non era così: quando il nostro sguardo si ferma sulla vignetta in rosso gli ci vuole un po’ a capire cosa sia successo, perché fino ad allora non ci aspettavamo ancora nulla dai vari personaggi. Qui entriamo in dialogo con loro per la prima volta: i disegni di Hedra diventano inquadrature perché tutti i punti di vista paiono riconoscibili; l’azione entra nel vivo (c’è tantissimo bianco) e gli alieni collidono, accentuando la loro prossemica come se una telecamera li stesse riprendendo.
Anche queste due tavole godono di una costruzione molto rigida, tanto che a ciascuna figura geometrica corrispondono alcune funzioni ben precise. I cerchi ad esempio non si limitano a smussare le scene e la loro stasi; qui e altrove mettono in risalto le espressioni dei volti, certi movimenti e certi gesti dei personaggi, come nella parte alta della pagina di destra. I quadrati invece caricano di enfasi le scene più delicate, dirigono il traffico della lettura e rafforzano il tono cinematografico del montaggio. Quando richiamano i formati televisivi degli anni Cinquanta la storia si trasforma subito in un episodio di Ai confini della realtà, da cui però mantiene sempre le distanze, perché a Lonergan non interessa fare sermoni sul presente, ma esplorare i limiti del linguaggio a fumetti: rivoltare tutte le pietre che sono state toccate per vedere se sotto lo strato di sabbia del medium vi sia ancora qualche reperto da portare alla luce.
La fantascienza di Hedra, del resto, non è molto diversa da quella a cui siamo stati abituati ultimamente, per quanto riguarda contenuti e atmosfere. La differenza sta nell’ambizione di voler condensare in una manciata di pagine tutti i cliché di genere più inflazionati (dal viaggio dell’eroe alla tematica ecologista, dal salvataggio in extremis alla scoperta del proprio io) e le soluzioni visive più all’avanguardia, cercando di giungere a un compromesso sempre nuovo. L’autore lo trova anche senza (far) dire una parola. Al contrario di opere altrettanto temerarie dove ci si interroga sui limiti della comunicazione nel cosmo, qui l’unico modo per capirsi è il linguaggio del corpo, dei gesti e delle espressioni del viso. Una via che i cosiddetti wordless novel (fumetti privi di parole) spesso non prendono in considerazione, nel peggiore dei casi adagiandosi sulla spettacolarità dei disegni, che finiscono per diventare semplici illustrazioni.
Ma Hedra si discosta anche dai più originali. Qui sotto vediamo un confronto con Match, del francese Grégory Panaccione, che in meno di trecento pagine descrive un intero incontro di tennis, dal primo all’ultimo punto. Al di là delle intenzioni sentiamo due voci del tutto diverse. Nella tavola di sinistra, solo le prime vignette sono sufficienti a fornire il contenuto narrativo della sequenza, a cui si aggiungono, dalla sesta in avanti, alcuni prolungamenti aneddotici. Anche molti dei riquadri di destra svolgono una funzione cosmetica ma l’immagine non è segnata dal movimento, infatti dominano le tinte più scure. In compenso lo sviluppo della tavola segue due piani paralleli: la partenza dell’astronave da un lato, la selezione dell’astronauta dall’altro. A destra il cosa, a sinistra il come.
E mentre Panaccione sembra rifiutarsi di dare voce a un personaggio che, tutto sommato, la meriterebbe (visto quanto si dà da fare per vincere), Lonergan tace sui reali sentimenti della ragazza, come se si preparasse a compiere un sacrificio o una cosa da nulla allo stesso tempo. Il vantaggio dell’autore francese, del resto, è di vivere in un paese dove i supereroi sono solo quelli che si vedono al cinema. Per farsi sentire, Lonergan deve mantenere il silenzio su tutto tranne che sulle sue reali ambizioni.
Milano è la città che non si sognerebbe mai di lasciare. Se gli chiedete di dirvi qualcosa che non sa, vi risponderà che alla fine dell’universo c’è un panino. Detesta i finali strappalacrime e parlare di sé in terza persona. Lo trovate anche su Fumettologica.