Capita a volte di domandarsi quale tra i cinque sensi, se ne perdessimo l’uso, comporterebbe una sofferenza maggiore. Per un gioco di immaginazione, mettiamo in atto una classifica mentale, proviamo a chiudere gli occhi, a tapparci le orecchie con le mani per un po’ e a prolungare la sensazione nel tempo. Ognuno di noi, in base alla propria sensibilità specifica, giungerà a una conclusione differente. Tutti, però, una volta terminato l’esperimento, si saranno trovati a conoscere un ulteriore senso, quello dello smarrimento. È proprio di questo che parla Sound of Metal, lungometraggio di esordio di Darius Marder disponibile su Amazon Prime Video, riportando l’impasse che si spalanca quando vengono meno tutti i riferimenti attraverso cui entriamo in contatto con il mondo.
Marder, finora attivo solo come montatore, eredita la pellicola dal talentuoso regista Derek Cianfrance, costretto ad abbandonare il progetto originariamente intitolato Metalhead, a causa dei suoi impegni cinematografici per la realizzazione di Blue Valentine (2010) e Come un tuono (2012). Il film racconta la storia di Ruben, giovane batterista del duo heavy metal Blackgammon, che, nel pieno di un tour provinciale in giro per gli Stati Uniti insieme alla fidanzata cantante del gruppo, scopre una mattina di aver perso quasi completamente l’udito. La potenza dell’opera si intuisce già nello stacco tra la scena iniziale – in cui Ruben si esibisce in una performance esplosiva, assordante, traboccante di suoni – e, subito dopo, quella in cui il protagonista è alle prese con un ronzio nelle orecchie che, poco a poco, si fa silenzio.
L’udito è il senso preposto a captare i suoni che provengono dall’esterno del corpo umano e a trasmetterli alla corteccia temporale, l’area del cervello in grado di riceverli e decodificarli. Fra i cinque, dunque, è il senso che consente di percepire le variazioni dell’ambiente esterno e di collocare il nostro corpo all’interno di uno spazio fisico. Perdere l’udito comporta perciò un capovolgimento all’interno della capacità sensoriale, un moto verso l’interno che, ribaltate le coordinate, dovrà guidare il corpo verso la realtà sensibile.
Ruben non ha solo perso irrimediabilmente l’80% del suo udito, ma ha anche visto crollare un progetto di vita fondato in modo esclusivo sulla capacità di organizzare suoni, di produrre musica pensata per arrivare all’orecchio degli altri. La prima inevitabile reazione consiste in quel senso di smarrimento di cui si accennava all’inizio; per Ruben, di più, l’impatto iniziale ha le fattezze del rifiuto rispetto alla nuova condizione con cui sarà costretto, da quel momento in poi, ad abitare il mondo. Il ragionamento è elementare e del tutto umano: se rigetto l’evidente e ne nego la portata, ridimensionandone confini e irreversibilità, allora ho ancora una possibilità di salvezza.
Nel film, l’ostinazione di Ruben è magnificamente interpretata da Riz Ahmed, attore britannico di origini pakistane, che costruisce il personaggio su un registro essenziale, privo di retorica, lontano da banalizzazioni o pietismi. Laddove la voce non è più uno strumento utilizzabile, il dolore emerge grazie allo sguardo incorniciato dai piani stretti della regia, dalle micro-espressioni degli occhi ora spalancati ora socchiusi, dalla smorfia contratta della bocca. Si tratta di un’espressività sofisticata e distaccata tanto da sembrare gelida, eppure profondamente vivida.
Sopraffatto da un’ansia muta, a cui non è più concesso sfogarsi in un grido liberatorio, Ruben, sotto la spinta della fidanzata, entra in una comunità per non udenti gestita da Joe, veterano del Vietnam diventato sordo dopo lo scoppio di una bomba, interpretato da un solido Paul Raci, perfettamente calato nel ruolo di guida allo stesso tempo pragmatica e spirituale. Il principio alla base della comunità, di ogni comunità terapeutica, è il sostegno reciproco che si innesta tra persone che hanno vissuto la stessa dolorosa esperienza. La condivisione di un evento del genere supera ogni forma di empatia: non hai più bisogno di calarti nei panni dell’altro, perché quei panni sono gli stessi tuoi. Ma, per far sì che il processo di reciprocità avvenga, Ruben deve accettare il presupposto valoriale che fonda l’intero gruppo: fiducia, rispetto e convinzione che l’essere sordi non sia un handicap, qualcosa di rotto da aggiustare.
Nella comunità Ruben deve misurarsi con sé stesso, esercitare la pazienza e imparare un nuovo linguaggio, quello dei segni, dove le mani, oltre alla sfera tattile, partecipano alla dimensione concettuale, costruendo movimenti-pensieri disegnati nell’aria. Paradossalmente, la grammatica privilegiata per comunicare con gli altri resta comunque la musica o, meglio, l’esperienza sonora: come un concerto silenzioso, incomprensibile dall’esterno, le vibrazioni di un pianoforte che sussultano sotto la pelle o il movimento delle bacchette su un barattolo a mo’ di tamburo, indicano la cadenza, il ritmo di un “suono” che dialoga con l’animo senza dover passare dalle orecchie.
La parabola emotiva di Ruben, però, è acerba e l’idea di salvezza coincide ancora con il recupero dello status originario. Il protagonista decide, perciò, di farsi impiantare un apparecchio acustico che inganni il cervello illudendolo di poter percepire i suoni esterni. Raggiungere quell’obiettivo diventa per Ruben un’ossessione, quasi quanto la droga durante il suo passato da tossicodipendente. Una volta attivato l’impianto, però, quello che riesce a sentire è solo una rappresentazione distorta dei suoni del mondo, un rumore gracchiante, “brutto” («bad») esteticamente ed eticamente, un suono – ironia della sorte – metallico e insopportabile.
A livello tecnico, Sound of Metal è un film che si interroga su come rappresentare il suono del silenzio, fornendo allo spettatore una risposta magistrale: da un piano di linguaggio, il silenzio si eleva a concetto, attraverso una semantizzazione dello spazio bianco, del vuoto acustico. Grazie al sound design di Nicolas Becker, gli stacchi di montaggio improvvisi riposizionano il punto di vista-punto di ascolto, palesando a chi guarda e sente come quei suoni che sembrano naturali e quotidiani, nelle orecchie di Ruben (e ora anche in quello dello spettatore) appaiano invece distorti, ovattati, lontani. Con un’esperienza immersiva, lo spettatore diventa Ruben, così come il montaggio degli effetti acustici e la regolazione del volume diventano colonna sonora interiorizzata. È un lavoro in soggettiva, che impone una direzione intima, devota al silenzio. Grazie alla duplice modalità percettiva, dal di fuori e dal di dentro, i nostri sensi vengono stimolati doppiamente, rendendoci partecipi del dramma a cui assistiamo non più come spettatori del visivo ma come protagonisti dell’esperienza non-sonora, coinvolti su un livello inaspettato per il mezzo cinematografico.
La narrazione del film è schietta, realistica e va dritta al punto: l’accettazione del cambiamento avviene sempre attraverso un processo diacronico, che si nutre del tempo, che mette in discussione il perimetro entro cui ci si riconosceva nel mondo, e approda alla realizzazione di una perdita. L’evolversi della pellicola si muove in parallelo con l’evoluzione del personaggio di Ruben che prende sempre più confidenza con il suo nuovo modo di esistere nel caos muto delle cose. Siamo alla presa di coscienza finale, l’ultimo atto in cui Ruben scopre che la diversa abilità (diversa da prima e diversa dagli altri) non ha bisogno di essere “aggiustata”.
La scena conclusiva, poetica e delicata, rende merito al senso profondo di Sound of Metal: è una scena difficile da interpretare, inedita e fuori fase rispetto ai mezzi tipici del cinema, che parte facendo gustare i suoni allegri della città, cresce distorcendo quegli stessi suoni con l’inserimento della prospettiva interna a Ruben ed esplode d’un tratto ammutolendo ogni rumore; per più di un minuto – più di 60 secondi al cinema, è un abisso – il regista mette al centro il silenzio e lo fa parlare, gli dà spazio, mentre scorrono le stesse immagini della città, prima allegre, poi disturbanti e, infine, in perfetta armonia con il sentire umano di Ruben. Il senso di disorientamento è mutato in senso di liberazione.
Città eterna, 1991. La formazione classica mi ha donato una sorta di feticismo per le parole: me ne innamoro, dichiaro loro guerra, ne percepisco ribellione e potenza. Non credo nel concetto di identità, o almeno questo è quello che dicono le Altre dentro di me. Tutto ciò che orbita attorno alla comunicazione cattura il mio interesse, ma l’unica Dea che venero è la poesia. Di notte non cercarmi, capita che mi perda tra le increspature del cielo.