In una Boston gelida e livida tutto ricorda la morte. Il tempo sembra essersi fermato nella casa di Martha e Sean: le piante appassite, i piatti sporchi nel lavandino, i mozziconi di sigarette in posaceneri mai svuotati. L’orologio è rimasto fermo e immobile, aggrappato all’ultimo secondo in cui la vita li ha abbandonati.
Quando si perde un figlio sembra impossibile adeguarsi al cambiamento. A chi aggrapparsi per andare avanti? Come liberarsi dal dolore?
Da queste domande nasce Pieces of a woman, l’ultima opera di Kornél Mundruczó, presentata in concorso alla 77ª edizione del Festival di Venezia, un film che racconta la morte improvvisa di una bambina appena nata. Un’esperienza devastante che il regista ungherese e la sceneggiatrice, sua moglie Kata Wéber, hanno realmente vissuto: «Volevamo condividere con il pubblico una delle nostre esperienze più personali attraverso la storia di un figlio non nato, nella convinzione che l’arte possa essere la miglior cura per il dolore».
I primi venti minuti sono una serrata ripresa in piano sequenza che permette allo spettatore di partecipare interamente al dolore della scena: prima la sofferenza fisica del parto, poi il battito lieve di un cuoricino che preannuncia la catastrofe. I primi gemiti e poi la fine.
Nel cast, quasi tutto al femminile, domina senza dubbio l’interpretazione di Vanessa Kirby (The crown) che, per la prima volta sullo schermo come protagonista, si aggiudica una meritatissima Coppa Volpi. Accanto a lei, unico uomo del dramma familiare, c’è Shia LaBoeuf nelle vesti del marito Sean. L’attore, accusato di abusi domestici nella vita privata, qui riveste alla perfezione il ruolo del compagno inquieto e tormentato.
Persi nel loro dolore, Martha e Sean devono capire come affrontare un lutto che non trova ragione. Una tragedia che non risponde al normale corso degli eventi.
Ma cos’è davvero normale quando un evento del genere si abbatte sulla vita di una coppia? È normale la rabbia? Il desiderio di vendetta? Il senso di colpa? O persino la vergogna nei confronti degli altri? Nessuno ti insegna ad affrontare un dolore simile, eppure c’è sempre chi l’avrebbe fatto meglio. E mentre il mondo giudica, parla, cerca di dare un senso alla tragedia trovando capri espiatori e significati, ci sono due genitori che devono sforzarsi di soffrire nel modo giusto, ovvero quello ritenuto accettabile da chi sta lì a guardare.
La grande Ellen Burstyn (L’esorcista, per citarne uno) veste i panni della madre di Martha. È un personaggio invadente, che non riesce a lasciare la figlia libera di decidere per sé stessa. Non perde occasione per ricordarle infatti quanto le sue scelte siano anormali: a cominciare da Sean (troppo rozzo e con un passato da alcolista), passando dalla decisione azzardata di partorire in casa, per arrivare allo scarso impegno profuso nella causa legale contro l’ostetrica (Molly Parker, House of cards) responsabile della morte della bambina.
Classista e piena di livore, la donna sembra più interessata a mettere a posto le cose che ad accettare il dolore, il suo e di Martha. Da un lato c’è il senso di colpa per non aver fatto abbastanza, dall’altro la consapevolezza di non essere stata in grado di proteggere chi più ama (stesso sentimento che Martha nutre, a sua volta, nei confronti della neonata). C’è una reciproca dipendenza madre-figlia, una catena di senso di colpa e frustrazione che si interrompe solo quando la protagonista riesce a togliersi i panni da figlia e comincia a essere una madre, anche se poi di fatto madre non lo è più. È un rapporto complicato quello delle due donne, come d’altronde spesso accade. L’una è lo specchio dell’altra e di conseguenza lo sono anche i rispettivi fallimenti. Lo scarto generazionale gioca un ruolo importante, perché se per l’anziana signora ci sono delle regole di costume a cui bisogna necessariamente rispondere per superare il lutto (come il funerale, la scelta minuziosa della bara e il processo), per Martha, invece, l’accettazione delle convenzioni è parte intrinseca del dolore. La rigidità materna è qualcosa con cui ha dovuto fare i conti anche prima della gravidanza, è un vestito che le va stretto e da cui non riesce a uscire. Le sue scelte, non ultima la relazione con Sean, sembrano essere dettate dalla volontà di staccare (a sua volta) il cordone ombelicale e di vivere la sua vita. Questo passaggio, fondamentale nella vita di tutti, sembra coincidere per la protagonista con la definitiva accettazione del lutto.
Martha, Sean, la madre, la sorella, sono tutti accumunati dalla partecipazione allo stesso dolore per motivi diversi, ma nessuno è in grado di comprendere l’altro e così finiscono per essere soli. I rapporti si sgretolano perché vengono eretti muri sempre più alti. Sean che nella vita costruisce ponti, non è capace di tenere in piedi quello coniugale; e, quando le loro differenze, sociali e culturali, cominciano a farsi più aspre e la crisi raggiunge il suo culmine, sentendosi inadeguato, scappa. Martha rimane così sola e persa, ma quasi sollevata di potersi finalmente abbandonare alla sua sofferenza, ovattata da un inverno nevoso che sembra non finire mai.
Non si sa come Sean riuscirà ad affrontare la sua pena. La fuga lascia tutto interrotto, come il dolore anche il ponte che stava costruendo. Non a caso a scandire il tempo del film è l’avanzamento dei lavori tra le due sponde del fiume che si concluderanno simbolicamente solo nel finale, senza Sean, con l’elaborazione definitiva della morte da parte di Martha.
Mundruczó va ben oltre la conduzione della camera. Riesce a far trasparire dalla pellicola tutto il suo dolore, anche quello taciuto, oggi libero di andarsene attraverso l’arte della cinepresa. Difatti la principale funzione del cinema, e dell’arte più in generale, è quella di rappresentare le emozioni, tentando di sdoganare i tabù del linguaggio e del senso comune come quello appunto della morte di un neonato, un tema che incontra diverse barriere nell’immaginario collettivo. Non c’è da stupirsi. È la vita appena sbocciata che ricade nella morte. Eros e thanatos, mai così vicini, si congiungono e non lasciano spazio ad alcuna risoluzione. Un tabù, insomma, ma che purtroppo accade e non sempre, come in questo caso, trova una ragione. Per questo chi lo vive si trova a essere veramente solo, perché oltre all’inadeguatezza personale deve fare i conti con le barriere dell’accettazione sociale.
Il processo in tribunale, con cui si chiude la pellicola, sembra infatti mosso più che alla levatrice, al modo anormale che ha Martha di vivere la sua perdita. Lei, dal banco dei testimoni è costretta a ricordare tutti i dettagli della bambina: i piedini, le mani e il colore dei capelli. «Ha notato qualcos’altro? Aveva dieci dita delle mani e dei piedi?» incalza l’avvocato, ma solo di una cosa Martha è certa: sua figlia profumava di mela. Quello è il momento più straziante, più dolce, forse più lirico di tutto il film. È tutto ciò che vuole tenersi stretta: l’unica cosa che sa di buono in mezzo a tutto quel dolore. In quel momento la voglia di rinascita sovrasta la paura, riesce finalmente a scrollarsi di dosso quello che gli altri si aspettano da lei. Così come dai semi di una mela germogliano nuovi frutti così Martha finalmente sente di poter vivere, di nuovo, oltre la morte.
Lavora in una casa editrice. Di giorno legge quello che scrivono gli altri, di notte scrive lei ma non la legge nessuno. Ha vissuto in Giappone per qualche mese e poi è tornata a casa. Pensa di salvare il mondo non mangiando carne e si indigna per qualsiasi cosa (ma non vota i 5 stelle).