«Esistono due possibilità: o siamo soli nell’Universo o non lo siamo. Entrambe sono ugualmente terrificanti».
Arthur C. Clarke
Lo scorso 2 dicembre è uscito su Netflix Alien Worlds, la docuserie – narrata da Sophie Okonedo – che si è cimentata nel compito di ipotizzare, in quattro puntate, la vita su pianeti diversi dalla Terra. Alien Worlds è strutturata secondo una dicotomia ben precisa: da una parte le analisi e le interviste a esperti di vari settori (astrobiologia, botanica, etc.), dall’altra scene in Cgi che illustrano il tipo di vita che si potrebbe sviluppare in questi pianeti, tenendo conto delle peculiarità di ogni singolo mondo. Per esempio, nel primo episodio, vediamo svilupparsi le forme di vita su Atlas. Su questo pianeta l’elevata forza di gravità permette solo la crescita di flora e fauna di bassa statura, mentre l’aria, molto più densa, consente lo sviluppo di enormi creature voltanti che trascorrono la propria esistenza solcando i cieli.
Il livello artistico è alto. Lo dimostra in primo luogo la cura della fotografia nelle scene “ambientate sulla Terra”. Per immaginare paesaggi alieni si deve necessariamente visitare i luoghi più strani del nostro pianeta. Uno di questi è la Depressione della Dancalia, in Etiopia, la regione più calda della superficie terrestre, nonché una delle meno ospitali. Questo territorio, risultato della separazione tra il continente africano e quello asiatico, genera un’attività vulcanica praticamente continua. Le sorgenti termali presenti sul territorio, colorate di tinte vivaci come il rosso e il giallo, rappresentano per gli scienziati un’occasione per studiare i microorganismi che le abitano, e per comprendere come alcuni esseri viventi, seppur molto semplici, riescano a vivere in condizioni estreme. La resa fotografica dell’intero documentario ci restituisce dunque l’idea che il nostro stesso pianeta sia, in alcune zone, totalmente alieno. Le riprese aeree forniscono infatti un’imponente visuale d’insieme, mentre i primi piani e le inquadrature ravvicinate, “sul campo”, ci riportano coi piedi per terra, dove la magia lascia spazio all’analisi scientifica. Dopo aver analizzato i panorami nella loro vastità, la parola passa agli esperti, che accompagnano lo spettatore all’interno di tematiche più circoscritte, come l’analisi di specifiche forme di collaborazione tra specie diverse. Si pone ad esempio l’accento sul rapporto che intercorre tra gli indigeni e una particolare specie di uccelli, durante la caccia al miele: l’uccello trova un alveare e una volta che gli uomini sono riusciti a ricavarne il miele necessario ne cedono una piccola parte al volatile, come una sorta di ringraziamento.
L’altra parte del documentario è incentrata invece sui mondi alieni e le creature che li abitano. La resa artistica risulta interessante, ricercata. Un errore che molto spesso possiamo notare in alcuni film di fantascienza è quello di rappresentare la vita su altri pianeti come eccessivamente simile a quella a cui siamo abituati, e in questo caso si è soliti chiudere un occhio per sospensione dell’incredulità. Ma la vera forza della docuserie Netflix è la capacità di far riflettere su un argomento controverso come quello della vita su altri pianeti, avvicinandosi a una rappresentazione credibile. Nel corso degli anni numerosi scienziati si sono occupati dell’argomento, come Carl Segan e Frank Drake, presso l’istituto SETI (Search for Extra-Terrestrial Intelligence) da loro fondato. Come in tutti i campi della scienza, anche nell’astrobiologia si è cercato di creare schemi e formule per trovare delle risposte. Un compito arduo, proprio perché, a differenza di molte altre branche della scienza, l’astrobiologia non può fare riferimento, almeno per il momento, a un’osservazione diretta, non essendo noi ancora entrati in contatto con una civiltà extraterrestre. Quello che l’astrobiologia può fare, e sta facendo, è creare ipotesi sempre più plausibili, formulare domande, porsi interrogativi che inevitabilmente ricadono nel campo della filosofia (il ruolo dell’uomo nello spazio, il rapporto che intercorre con la vastità dell’universo, l’inconoscibilità del cosmo).
Come detto, il documentario si occupa di analizzare possibili forme di vita aliene su pianeti ipotetici, e per farlo usa l’escamotage del rapporto preda-predatore. Il motivo di tale scelta è presto spiegato: all’interno di un ecosistema, lo diamo un po’ per scontato, esistono dei rapporti tra specie diverse, di cui il più significativo deriva proprio dal bisogno di procacciarsi il cibo. Per studiare un predatore bisogna studiare anche quello che mangia, perché le sue abitudini saranno tarate in relazione a questo bisogno. E viceversa. Una preda condurrà la propria esistenza sulla base dei pericoli che la minacciano. Un organismo è definito soprattutto dal mondo che lo circonda, perciò i punti di forza di entrambi sono il frutto di questo rapporto, la base per ogni forma di vita. Ovviamente, non avendo dati concreti alla mano, non possiamo sapere con assoluta certezza come si siano evoluti tali rapporti su un pianeta diverso dal nostro. Forse esiste un mondo in cui tutte le specie hanno sviluppato un modo per vivere in armonia, ma non ne abbiamo un riscontro scientifico. Alien Worlds fa uso di questo concetto per esaminare le dinamiche del pianeta alieno preso in esame. Parte quindi da un carattere che si presume universale (un esempio può essere il modo in cui queste specie aliene cacciano o si riproducono), per muoversi poi in quei dettagli in cui si nascondono le differenze più significative. Questo avviene nei primi tre episodi. Nel quarto la situazione cambia, ma non così tanto.
L’ultimo episodio infatti, intitolato “Terra” (non la nostra), sviluppa invece il tema delle specie senzienti, organismi dotati di un’intelligenza simile a quella umana, in grado quindi di imporsi. Il rapporto preda-predatore si trasforma, ma rimane centrato sulla lotta per la sopravvivenza. Seguiamo infatti la vicenda di una civiltà aliena che ha raggiunto un grado di evoluzione scientifica e sociale talmente elevato da arrivare a sfruttare tutte le risorse del proprio pianeta. L’esaurimento di queste costringe gli alieni a migrare verso un altro mondo. Le cose non sono però così facili. Il tempo scorre, e nel pianeta prescelto bisogna creare le condizioni ideali per continuare a vivere. Questo può avvenire tramite un processo di terraformazione, ovvero uno sviluppo che comporta la trasformazione artificiale di un determinato ambiente per ricreare le condizioni necessarie alla vita. Questo comporta modifiche climatiche, atmosferiche e territoriali (ad esempio, per renderlo fertile e permettere la coltivazione di beni alimentari). La terraformazione richiede una grande quantità di energia, che questa specie ricava direttamente dalla propria stella. Seguendo il documentario, vediamo come l’esodo di questi alieni soddisfi uno dei caratteri di universalità ricercato lungo la serie. Tutte gli esseri intelligenti, cercando di sfruttare al meglio le proprie risorse, finiranno per esaurirle. Nella quarta puntata dunque sebbene si stia parlando di una civiltà ipotetica quanto lontana, ci si riferisce anche a noi umani, al nostro futuro. Seguendo l’episodio non ho potuto fare a meno di domandarmi come potrebbe reagire l’umanità al contatto con un’altra specie aliena intelligente.
Ma c’è forse una domanda, ancora meno scontata, che è stata posta al tempo dal fisico italiano Enrico Fermi: «Se l’Universo e la nostra galassia pullulano di civiltà sviluppate, dove sono tutte quante?». È nota come Paradosso di Fermi e sebbene possa sembrare una questione dalla facile risposta, considerata la vastità dell’universo, mette in luce un dilemma assai più complicato. Perché forse siamo veramente soli, e le basi su cui la vita si forma sono molto più rigide di quanto pensiamo. O forse queste civiltà esistono, ma non vogliono comunicare con noi. Oppure, semplicemente, si sono estinte, ma non possediamo i mezzi per osservare le loro rovine. Alien Worlds pone l’accento su tutti questi interrogativi e si cimenta in un esercizio scientifico e filosofico che mette a confronto quello che sappiano con quello che non sappiamo (campo infinitamente più vasto). Il documentario non è interessato a dare risposte, quanto piuttosto a far sorgere dei dubbi. Punta a far riflettere, ed è questa la sua vera forza.
Studio presso la facoltà di Letteratura, Musica e Spettacolo della Sapienza. Passo il tempo scrivendo e leggendo di fantascienza e fantasy. Tra le passioni piú grandi troviamo la filosofia e la musica rock, folk e blues. Mi interessa tutto ciò che non esiste e su cui la mente umana ancora non ha poggiato lo sguardo