Non sono molte, credo, le lesbiche sui trenta che brancolano nel buio quando si parla di The L Word. Nella serie tv, andata in onda dal 2004 al 2009, si chiamava The Chart la rappresentazione grafica, realizzata da una delle protagoniste, dei collegamenti sessuali/sentimentali che uniscono tra loro un po’ tutte le donne che amano altre donne a Los Angeles. Perché, si sa, le lesbiche si innamorano subito e tutte le lesbiche vanno a letto tra loro (pia illusione). Insieme alla “poiana” – simbolo del destino tragico dell’amore lesbico installatosi nell’immaginario con il film di Léa Pool L’altra metà dell’amore – The Chart ha fatto parte di un lessico condiviso che mi ha permesso, poco più che ventenne, di integrarmi nella piccola comunità delle lesbiche romane, di riconoscermi, riconoscerci e sentirci, tutte, al sicuro – più o meno. Una cartina simile a quella che compare nella celebre serie tv americana potrebbe essere utile per leggere Ragazza, donna, altro di Bernardine Evaristo, portato in Italia da Edizioni SUR, nella traduzione di Martina Testa.
Nel romanzo vincitore del Booker Prize 2019, a pari merito con I testamenti di Margaret Atwood, le vite di dodici donne si connettono l’una all’altra tramite allacci e intrecci molteplici: le traiettorie delle personagge tracciano così l’immagine di un secolo di storia inglese da un punto di vista inedito. Le voci e gli sguardi convergenti nel potente flusso narrativo generato dall’immaginazione di Evaristo danno la percezione della profondità e, allo stesso tempo, grazie al loro dinamismo, ampliano e movimentano l’orizzonte delle lettrici e dei lettori. La narrazione lavora come un impasto la nostra visione del mondo.
Il romanzo comincia al National Theatre, la sera della prima di L’ultima amazzone del Dahomey. L’autrice dello spettacolo, Amma, ha superato la cinquantina e, dopo una carriera da outsider nella scena underground, si prende il suo spazio in un territorio dominato da un canone che ha sempre escluso presenze come la sua: donne nere, lesbiche, anti-establishment.
La stessa Bernardine Evaristo viene da un’esperienza per molti versi simile a quella della sua Amma: negli anni Ottanta, in particolare, contribuì ad animare la scena teatrale espressione della controcultura nera e femminista londinese, che si trovava in un momento particolarmente vivace. E, come Amma, Evaristo si trova oggi non soltanto ad accedere a una posizione e riconoscimenti di prestigio, ma anche a dar voce nella sua opera a una moltitudine troppo spesso relegata nel campo dell’irrilevanza.
Le protagoniste sono dodici ma, ha dichiarato la scrittrice, avrebbero potuto essere un migliaio. Dominique segue l’amore in una comunità di separatiste negli Stati Uniti; Bummi è una matematica nigeriana che si guadagna da vivere facendo le pulizie; Carole lavora come broker e lotta ogni giorno per consolidare la propria posizione; Shirley lamenta la degenerazione del sistema scolastico inglese e Hattie vota UKIP dalla sua fattoria al confine con la Scozia. Da chi sfugge alle maglie strette dell’abuso a chi vive con naturalezza l’attaccamento alla terra – in una contemporaneità di social e attivismo queer –, da chi con la stessa naturalezza vive la sessualità del proprio corpo maturo a chi cerca il proprio posto in un mondo bianco a perdita d’occhio, le dodici amazzoni di Evaristo, a ciascuna delle quali è dedicato un capitolo, si avvicendano una dopo l’altra sul palco offerto loro dalla voce narrante.
Amma può quasi apparire come un avatar di Bernardine Evaristo e, allo stesso tempo, come un catalizzatore, un fattore agglutinante, il nodo centrale della rete, il demiurgo di questa realtà narrativa. Meglio ancora, l’opposto del fallico demiurgo: una strega. Il travolgente sabba di Ragazza, donna, altro, che trova eco nell’apparizione di «schiere tonanti di amazzoni alla carica» all’interno dello spazio diegetico del National Theatre, genera energia grazie alla compresenza di soggetti diversi che interagiscono fra loro, amplificando la voce di ciascuno. Ne esce fuori un racconto corale in cui nessuna personaggia si erge al di sopra degli altri, se non per intima affinità con il lettore.
La dialogicità, la relazionalità, innervano la stessa struttura del romanzo. Se si eccettua la sezione conclusiva, i capitoli, e dunque le protagoniste, vanno a gruppi di tre: lungi dal catalogare ed esaurire l’immaginazione in un trittico di tesi, antitesi e sintesi, ogni elemento risponde agli altri. Volendo, si potrebbero tentare diverse combinazioni di prossimità. Non vige un principio ordinatore di un sistema, ma si attivano interazioni molteplici. Nello stesso tempo della narrazione coesistono diacronicità e sincronicità: questo non si articola, infatti, soltanto attraverso diversi segmenti generazionali, ma nell’arco di poche decine di pagine il passato e il presente dialogano fra loro, illuminandosi vicendevolmente per raccontare un’intera vita nel giro di un capitolo.
La lingua dell’autrice viaggia leggerissima. La complessità dell’idea di fondo può apparire farraginosa quando descritta, ma non risulta mai tale nella resa narrativa: la scrittura di Evaristo, infatti, prende con naturalezza la forma del pensiero e del sentimento. La scrittrice ha definito il suo stile prose poetry: la sua sperimentazione linguistica si realizza in una pagina versificata, con numerosi accapo e pochi punti fermi. Il risultato è una straordinaria, scorrevole, immersiva leggibilità. Non è un flusso di coscienza, non è teatro, non è un poema, non è un romanzo tradizionale, eppure la sua fusion fiction è familiare, comprensibile, comunicativa. Ed è così che riesce a far ridere fino alle lacrime e, un momento dopo, a spezzare il cuore.
Dopo essersi conquistata il Booker Prize, Evaristo ha visto il suo romanzo tradotto in trentacinque lingue e ha ottenuto l’incarico di curare una collana per la sua casa editrice, la Penguin, che riporti nelle librerie opere della letteratura inglese nera abbandonate e dimenticate dal mercato editoriale. Questo impegno professionale si lega alla partecipazione di Evaristo, insieme a centinaia di altri grandi nomi della letteratura inglese nera, alla Black Writers Guild, che lo scorso giugno ha inviato una lettera aperta alle case editrici del Regno Unito invitandole a impegnarsi per una maggiore inclusività a tutti i livelli del settore. Le persone nere e altre minoranze, infatti, ancora risentono di considerevoli livelli di discriminazione nell’industria culturale, problema radicato in tutta Europa e rispetto al quale l’Italia non fa eccezione. La “razza” (intesa come categoria socioculturale), il genere, l’orientamento sessuale e la classe sono ancora determinanti per il riconoscimento di legittimità, competenza e appartenenza. In particolare, le narrazioni prodotte da soggetti non egemoni tendono a essere percepite come opere di nicchia e poco rilevanti, prive di quell’universalità che si continua a pretendere dalle opere letterarie “canonizzabili”. Eppure, riflette una delle personagge di Evaristo: «La verità oggettiva non esiste e se una cosa ti sembra bella perché ti dice qualcosa / Allora lo è / Perché Wordsworth o Whitman, T.S. Eliot o Ted Hughes dovrebbero significare qualcosa per noi dei Caraibi?». Già, perché?
Lo stesso discorso può applicarsi a tutti gli spazi sociali, dai linguaggi alle piazze. La scorsa estate, una statua raffigurante Indro Montanelli situata a Milano è stata imbrattata di vernice rossa e, nel 2019, la stessa statua si era tinta del rosa di Non Una Di Meno. Le statue, soprattutto in seguito alle iniziative del movimento sudafricano Rhodes Must Fall prima e alle proteste di Black Lives Matter poi, continuano a cadere in tutta Europa e negli Stati Uniti. Intervenendo nel dibattito, Igiaba Scego scriveva, in un articolo uscito su Internazionale lo scorso giugno, che «la parola magica è relazione»: la scrittrice proponeva infatti di ripensare gli spazi aprendoli a rappresentazioni che riconoscessero dignità agli esclusi, alle vittime, alle classi subordinate.
The L Word è forse diventata una serie iconica, a suo tempo, perché ha giocosamente rappresentato – pur con evidenti limiti – un desiderio e un mondo di relazioni che non si trovavano da nessuna parte. E se il cinema e la serialità televisiva stanno progressivamente raccogliendo il testimone, è ancora difficile che si diano spazio e riconoscimento a una letteratura capace di superare il Bechdel test – almeno due donne presenti, che parlino tra loro e di qualcosa che non sia un uomo.
Evaristo offre invece un esempio straordinario delle possibilità creative che scaturiscono da un pensiero veramente intersezionale, che nell’intreccio delle differenze, nella rilevanza del particolare, vede l’unica forma di universalismo davvero possibile.
Dice Amma nel romanzo: «Ci sarebbe stata una voce dove prima c’era silenzio / sarebbero venute fuori le storie delle donne nere e asiatiche / […] A Modo Nostro / O Niente». L’operazione portata avanti in questo romanzo, così come il lavoro editoriale dell’autrice, vanno in questa direzione. Come in Ragazza, donna, altro ogni interazione amplia e amplifica i mondi interiori di ciascuno, lo spazio creato dalla voce di un’autrice come Evaristo può far risuonare più alte le voci di tutti. La mappa di Ragazza, donna, altro potrebbe somigliare tanto a un albero genealogico quanto a una costellazione. Ognuno può unire i puntini nelle forme e nelle traiettorie che preferisce.
Nasce e vive a Roma, con periodiche sortite tra le montagne nel paese che non c’è (più). Lavora come ufficio stampa e nei caldi inverni romani sogna tende e sacchi a pelo. Scrivere le permette di levitare qua e là senza perdersi. Crede che il femminismo intersezionale sia un gran bel paio di occhiali attraverso cui guardare il mondo.