Ethel ed Ernest, che abitarono un fumetto secondo Raymond

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Parlare di Raymond Briggs significa parlare di spazio e di come gli esseri umani lo abitano. Nei fumetti non è raro che tempo e spazio seguano percorsi autonomi. La durata delle vignette cambia a seconda delle dimensioni: vignette molto ampie possono racchiudere progressioni di azioni, ma lo stesso risultato può essere ottenuto accostandone tante più piccole: veri e propri “frame” di una singola scena. Chi utilizza quest’ultima tecnica presta un’attenzione meticolosa al ritmo, e la lunghezza degli eventi dipende in genere dalla ripartizione dei riquadri nella pagina: più ve ne saranno, più tempo durerà l’azione. Viceversa, adoperare grandi vignette è un modo per empatizzare col lettore, perché l’estensione del campo visivo non implica solo ampiezza dello spazio, ma anche trasporto emotivo. Chi guarda viene reso protagonista della vicenda e gode di un punto di osservazione privilegiato rispetto ai personaggi che vi sono racchiusi.

Immedesimarsi, nei racconti di Briggs, è fin troppo semplice. Figlio di Ethel ed Ernest Briggs, una governante e un lattaio, Raymond vanta un passato da illustratore e autore di libri per ragazzi, i cosiddetti picture book, dove le immagini a tutta pagina costituiscono il corpo della narrazione, e che di regola non possono superare le 32 tavole di lunghezza per via della fascia d’età a cui sono destinati. I testi per bimbi in età prescolare, ad esempio, sono di 8 pagine, 16 quelli per i ragazzi del primo anno e così via, seguendo i multipli di 8. Queste restrizioni obbligano Briggs a sperimentare nuove soluzioni espositive. Negli anni Ottanta scopre un po’ per caso i fumetti e, accorpando più immagini nella stessa facciata, il problema è risolto.

Nasce così Quando soffia il vento, la storia di una dolcissima coppia di anziani che non si accorge della situazione storica in cui si trova: un’Inghilterra devastata dalla guerra fredda e in preda al panico per la bomba atomica. È un libro in cui Briggs ha modo di esplorare la dolcezza del rapporto tra un uomo e una donna, fedeli l’uno all’altra fino alla fine; quella dolcezza  che ha caratterizzato la relazione dei genitori, qui omaggiati attraverso il cognome dei protagonisti: “Bloggs”, storpiatura utile per giustificare la pretesa di finzione del racconto e l’allontanamento dalle vicende biografiche. 

L’uscita di Ethel e Ernest nel 1998 (recentemente pubblicato in Italia da Rizzoli Lizard), è la conferma del talento dell’autore e della sua intenzione di chiudere definitivamente i conti col passato, per raccontare di nuovo, ma questa volta sul serio e senza libertà narrative, la storia dei coniugi Briggs.

Tuttavia, se le due opere divergono nel contenuto (la prima storia di fantasia, la seconda fedele cronaca di un’unione), lo stesso non si può dire della forma. Come per Quando soffia il vento, anche qui il teatro della vicenda è una casa padronale e la costruzione della tavola ne ricalca i lineamenti: le vignette diventano finestre per guardare all’interno dell’edificio, i loro contorni sono muri e pareti, le nuvolette semplice tappezzeria o anche soffitti e pavimenti a seconda della posizione. Fatta eccezione per il prologo, dove Ethel conosce Ernest per caso, spolverando un infisso della casa presso cui presta servizio come governante, la storia si concentra sull’abitazione che i Briggs occuperanno per oltre quarant’anni, dal 1930 alla loro morte negli anni Settanta.

Se per la storia dei Bloggs, l’autore faceva uso di tante piccole vignette accostate, concedendosi poche ma molto significative splash page, parlando di sua madre e suo padre Briggs riconsidera l’importanza della tavola intera e della ricerca di empatia a discapito della frammentazione del ritmo. Cruciale nell’architettura del libro è proprio una di queste pagine immersive, che riprende la facciata della dimora per quattro volte, in quattro momenti diversi della storia della famiglia: da quando i genitori di Raymond la acquistano a quando, ormai sposato, il figlio la degnerà di un ultimo saluto al fianco della moglie. È una tavola che nel suo incessante ripetersi ci dice molto sull’evoluzione della casa (e quindi della storia), e che sottolinea passaggi temporali importanti oltre i quali si sa che nulla sarà più come prima. Si ripete, ad esempio, quando i Briggs contemplano gli esiti di un bombardamento o quando festeggiano in cortile la fine delle ostilità.

Nel 2009, con Asterios Polyp, anche David Mazzucchelli prenderà spunto da questa tecnica, adattandosi ai continui cambi di registro con una stretta aderenza alla prospettiva, disegnando per cinque volte lo stesso salotto dal medesimo punto di vista. Così facendo, sia lui che Briggs riescono a dare una direzione precisa all’empatia, rendendoci partecipi della costruzione dell’opera restando però sempre super partes, senza giudicare nessuno.

Concentriamoci di nuovo su Ethel e Ernest. In questa coppia di tavole, pensate per essere pubblicate l’una di fianco all’altra, i futuri coniugi girano per le stanze vuote e le popolano con esclamazioni di stupore e progetti a lungo o a breve termine. Sono evidentemente affiatati, come ci suggerisce il dialogo nella striscia centrale di sinistra, ma non per questo non hanno differenze caratteriali. Se Ernest rimane colpito dalla grandezza della camera e dalla quantità di luce, in alto a sinistra, Ethel pensa al costo delle tende. E così nella pagina di destra: lo sguardo di Ernest si perde nel giardino, mentre Ethel vede metaforicamente molto più in là, addirittura riesce a scorgere un aereo minuscolo, isolato nell’angolo. Il padre di Raymond è e sarà sempre un buontempone, attratto dalle cose pratiche e da ciò che vede al momento con i suoi occhi. La madre invece è un’inguaribile idealista: rifiuta di vivere nella Storia e non si interessa di politica, anche se è affascinata dalla belle époque e dall’immagine che si è fatta della monarchia.

Quando leggiamo queste tavole abbiamo già un’idea chiara di quello che ci aspetta: la storia di una casa (e di chi la abita) dal punto di vista della casa stessa. Lo spaccato di vita famigliare in cui stiamo per calarci non riflette sui vari significati della famiglia in generale (cosa rappresenta, come funziona etc.), perché, di nuovo, lo sguardo è quello di un’abitazione e come tale è fisicamente oggettivo, si limita a riportare fatti e circostanze. Scopo dell’autore diventa quindi dare voce ai ricordi, pianificando ogni tavola come fosse la mappa catastale della dimora, suddivisa in “piani” proprio come fanno le vignette sulla carta stampata. La prima tavola ad esempio è già un’architettura a sé stante: i bordi del riquadro in alto abbracciano le pareti della camera matrimoniale, mentre nella striscia di mezzo campeggia un corrimano che conduce al “piano di sotto”, a quella che presto sarà la stanza di Raymond, volutamente più piccola delle altre perché non è ancora “attiva”. L’ultima vignetta ci sbalza fuori, all’aperto, ed è quasi un’immagine piatta, falsata, che Briggs rappresenta senza prospettiva.

Interessante anche la tavola di destra, dove i mattoni lucidi della facciata rivestono gran parte della superficie visiva in alto. Qui, come nelle due vignette che seguono, il punto di vista torna in prospettiva e nella sostanza i sogni di Ethel ed Ernest subiscono alcune battute d’arresto (la cucina e la caldaia da sostituire), ma i due si (e ci) dicono subito che non si lasceranno abbattere e che d’ora in avanti osserveranno un rigido rispetto reciproco. Per Briggs, la vignetta finale è la sintesi della maturità che ha raggiunto: la gioia dei personaggi esplode a tal punto da far superare loro i bordi, di fronte a uno sfondo bianco che non ritroveremo se non molto più tardi, nei frangenti più duri delle vite di entrambi. 

Briggs, che ha aperto la tavola con una quadrupla spettacolare, isola un momento lieto nello spazio di un francobollo che, come tutte le cose piccole, è destinato a disperdersi e a volare via nello scorrere imperturbabile della Storia. Solo la memoria può ritrovarlo, anche dopo molti anni.