«L’unico modo per uscire da qualcosa è attraversarlo». È così che dobbiamo immaginare l’ultima opera di Zadie Smith, Questa strana e incontenibile stagione: un lucido attraversamento di una stanza densa di fragilità, prese di coscienza, riflessioni e indizi. Il nome originale del volume, infatti, è proprio Intimations, “indizi, suggestioni” che talvolta scivolano via talvolta si incastrano tra le pagine, continui rimandi a qualcosa di altro, che ha un legame con la realtà ma risiede altrove.
Questa strana e incontenibile stagione, una raccolta di «saggi personali: piccoli per definizione, brevi per necessità», pubblicata in Italia a fine luglio per SUR, prende avvio tra marzo e maggio, metà a New York, dove l’autrice insegna scrittura creativa, metà in Inghilterra, dove è nata. La lettura del libro genera un’atmosfera simile all’intimità che suscita un diario, una sorta di flusso di coscienza che mescola aneddoti personali, ricordi, ispirazioni letterarie e idee politiche, senza cedere mai il passo a soluzioni consolatorie. Smith instaura un dialogo onesto con se stessa, lei con il proprio io e di conseguenza il lettore con la parte più abissale di sé, innescando un doppio livello di interpretazione, individuale e universale, contemporaneo e assoluto.
Il contesto dell’opera è la pandemia e le prime fasi del suo diffondersi, soprattutto negli Stati Uniti; eppure, proprio come in un diario segreto, Smith non manifesta la necessità di definire i contorni cronologici di ciò che accade, di esplicitare in modo univoco il nome della malattia o del presidente americano; tutto ciò che dobbiamo sapere è che ci troviamo nel mezzo di un «casino globale», di una «strana e incontenibile stagione di morte».
«Avevamo i morti. Avevamo i feriti e avevamo le vittime. […] Avevamo diseguaglianze nelle condizioni sanitarie. Negli Stati Uniti, però, tutto questo implicava qualche forma di colpevolezza da parte dei morti. Al posto sbagliato, nel momento sbagliato. La pelle del colore sbagliato. Il quartiere sbagliato, la città sbagliata. La posizione delle mani quando gli era stato chiesto di scendere dal veicolo. […] Quello che ci mancava completamente, però, era il concetto della morte in sé, della morte in assoluto. La morte che arriva per tutti, a prescindere dalla posizione sociale».
Come si evince da questo passaggio, Questa strana e incontenibile stagione non è un libro sulla pandemia, ma un’opera che della pandemia fa il suo punto di vista, la lente attraverso cui osservare la realtà. Qui il centro nevralgico è il privilegio – di classe, etnico, di genere – nel riconoscimento stesso della sua esistenza: il privilegio è nel mondo, ci riguarda tutti, e inevitabilmente dobbiamo imparare a farci i conti. È l’autrice stessa, in primis, a superare il velo opaco dell’ipocrisia raccontando il suo scontro quotidiano con il privilegio, il sentimento di disagio che ne scaturisce e, al tempo stesso, la trappola mentale che sembra vincolare lei, e noi attraverso le sue parole, a cedervi senza opporre resistenza. Senza avanzare accuse o recriminazioni, la scrittrice riconosce con lucidità i vantaggi della propria posizione, mette in luce quei privilegi dilaganti e istituzionalizzati che si abbattono in modi diversi su chiunque non sia considerato capitale per la società o a cui si impedisca deliberatamente di diventarlo.
Il fatto che Zadie Smith, tramite i suoi racconti autobiografici, ponga sotto giudizio per prima se stessa e poi, in un secondo momento, ampli lo sguardo verso gli altri, suscita, perciò, due livelli di scomodità nel lettore: il primo, in cui chi legge prova imbarazzo per le esperienze narrate – come quando la stravagante vicina di casa le si avvicina affermando con convinzione che supereranno il momento difficile, la pandemia globale, aiutandosi a vicenda, come una vera comunità, e Smith annuisce sommessamente senza riuscire a confermare né smentire quella tesi perché conscia di essere in partenza per andare a trascorrere il periodo di quarantena in un comodo cottage di campagna britannico – e un secondo, in cui l’onestà dell’autrice impatta sulla coscienza del lettore, costretto ad ammettere che, avendo gli stessi mezzi, avrebbe agito in egual modo.
La raccolta di Zadie Smith rivela, dunque, l’esigenza di comprendere la sistematicità del privilegio che ci circonda, di assumere consapevolezza della poca capacità che abbiamo di contrastarlo quando spetta a noi subirlo, e ancor meno quando siamo noi a detenerlo: «il privilegio e la sofferenza hanno molto in comune. Entrambi si manifestano sotto forma di bolle: circondano completamente le persone e ne distolgono lo sguardo. Ma la bolla del privilegio è possibile penetrarla e perfino farla scoppiare: mentre la bolla della sofferenza è impermeabile».
Inaspettatamente, per il lettore si apre, in netto contrasto con la disillusione manifestata dall’autrice che dichiara di aver smesso di credere ad un risveglio di coscienza collettivo, la possibilità di apportare un cambiamento nel mondo, per il quale l’impegno di una sola comunità, come auspicato dall’anziana vicina, non è più sufficiente. È tempo di una rivoluzione globale, un moto di protesta, consapevole che il virus della disuguaglianza possiede una matrice essenzialmente economica che infetta non solo gli individui, ma intere strutture di potere.
Il mezzo più radicale, e a tratti poetico, che Smith utilizza per rendere ancora più marcata la spaccatura della società in diverse categorie umane contrassegnate da diversi gradi di dignità e diritto, consiste nel raccontare la pandemia attraverso gli occhi dei “pazzi”:
«Quando il mondo stesso diventa irriconoscibile, sembra essere “impazzito”, mi ritrovo a chiedermi che effetto deve fare su chi non ha mai vissuto un rapporto facile tra i fenomeni del mondo e la propria mente. Su chi ha sempre percepito una dissonanza nelle spiegazioni. Gli schizofrenici. I dissociati. Sembra che il mondo finalmente, effettivamente, gli sia “venuto incontro”? Che quelle che finora gli erano state spiegate solo come patologie e paranoie personali siano diventate generali? Come dev’essere aver sempre visto mentalmente l’apocalisse nelle strade di New York, e un bel giorno uscire per quelle strade e trovarle – esattamente come nel proprio girone dell’inferno – desolate, vuote e silenziose? […] Come dev’essere avere una mente in fiamme, in questo momento? Ti senti ancora più distante dal mondo? O il mondo, in queste nuove condizioni estreme, ti è finalmente venuto incontro?».
La delicatezza con cui Smith affronta un tema così ostico è magistrale. La follia, infatti, è da sempre materia letteraria affascinante per gli scrittori di ogni tempo; e, proprio per la sua capacità attrattiva, rischia, a contatto con il foglio, di diventare macchiettistica, grottesca o del tutto estranea e incomprensibile. Qui, invece, l’autrice dimostra sincera curiosità per una condizione esistenziale che non conosce, di cui tratteggia i contorni con profonda empatia, non sostituendosi al soggetto in esame ma accogliendone piuttosto l’alterità. L’atto di attenzione verso ciò che non è familiare rivela in un attimo, per sottrazione, tutto quello che prima noi, classi privilegiate, avevamo e la cui mancanza abbiamo esperito solo adesso in una fase fuori dall’ordinario, a confronto con chi invece non ha notato differenze tra un prima e un dopo.
Fin dalle prime pagine della raccolta, inoltre, Zadie Smith riflette sul concetto di tempo e di sfera femminile, rivelando come le aspettative della società annodino lo scorrere degli anni e il corpo della donna in modo tanto stretto da soffocare qualsiasi tentativo di rivendicazione della libertà di scelta.
«Ognuno di noi è ingabbiato dalla sua natura, dai suoi istinti e dalle circostanze. Da ragazza la circostanza che mi ingabbiava era il sesso a cui appartenevo. […] ero legata alla mia natura, al mio corpo di animale […] in maniera molto più profonda rispetto, per esempio, ai miei fratelli. Io avevo dei “cicli”. Loro no. Io dovevo fare attenzione a certi “orologi”. Loro no. Per me c’erano tutta una serie di parole speciali che si stagliavano all’orizzonte, etichette con cui contraddistinguere le possibili future fasi della mia esistenza. Sarei potuta diventare una zitella. Una carampana. Sarei potuta diventare una panterona, una MILF o una “senza figli”. I miei fratelli, a prescindere da ciò che poteva succedergli, sarebbero rimasti uomini. […] Un uomo era un uomo. Piegava la natura alla sua volontà».
Non c’è una terza via possibile: o ti inserisci nel solco già tracciato per te, non di certo dalla natura ma dal peso che la società le attribuisce nel determinare cosa è giusto fare e in quale momento, oppure finirai incasellata in una definizione che pretenderà di dirti cosa (non) sei. Ancora una volta Smith costella la pagina di input e suggerimenti che spalancano finestre di pensiero.
Questa strana e incontenibile stagione è un libro fertile che ha il pregio della sintesi, una brevità proficua che ricama solo le parole essenziali per rivestire i concetti. La stessa Smith nel libro approfondisce l’idea di scrittura, superando l’equivoco secondo cui scrivere sarebbe un fatto esclusivamente creativo: al contrario, la scrittura altro non è che l’esercizio di un controllo, la capacità di opporre resistenza al caos, alla mancanza di senso, all’inevitabile che accade nel reale.
«La scrittura è tutta resistenza. […] Erano tulipani. Avrei voluto che fossero peonie. Nella mia storia sono, continuano a essere, erano e saranno per sempre peonie: perché, quando scrivo, il tempo e lo spazio stessi si piegano alla mia volontà».
La primavera è diventata quasi autunno e il vento di un’altra stagione, ancora incontenibile, porta con sé residui di paura, smarrimento e incertezza. Ma, per natura, ogni catastrofe è il preludio di una rinascita che si rende vera solo all’alba di «un nuovo modo di pensare».
Città eterna, 1991. La formazione classica mi ha donato una sorta di feticismo per le parole: me ne innamoro, dichiaro loro guerra, ne percepisco ribellione e potenza. Non credo nel concetto di identità, o almeno questo è quello che dicono le Altre dentro di me. Tutto ciò che orbita attorno alla comunicazione cattura il mio interesse, ma l’unica Dea che venero è la poesia. Di notte non cercarmi, capita che mi perda tra le increspature del cielo.