Il segno ruvido della solitudine: Tomine e il fascino del miserabile

7 min. di lettura

In una tavola de La solitudine del fumettista errante, Adrian Tomine si trova a Brooklyn con la moglie Sarah e le due figlie, Nora e May. Si stanno tutti godendo un momento di relax, quando sul cellulare di Adrian compare una notifica: «è Peggy. Pare che il mio libro abbia vinto un premio molto importante in quel festival in Francia!». La notizia viene subito accolta con gioia. I Tomine stanno per festeggiare, ma poco prima di uscire di casa il capofamiglia riceve un secondo messaggio: a quanto pare il comico Richard Gaitet ha voluto movimentare la serata premiando dei “finti” vincitori, prima di annunciare quelli veri.

E tra i faux fauves, come li definirà la stampa, c’è anche il fumetto di Adrian, una raccolta di storie brevi dove le scelte di alcuni individui influiscono irrimediabilmente sulle vite degli altri. Si intitola Les Intrus, ma in Italia è meglio nota come Morire in Piedi, e questo buffo episodio, raccontato con disincanto da Tomine, potrebbe tranquillamente farne parte. Sono storie vere, anzi verosimili: i protagonisti sono loser che subiscono l’azione di qualcuno e che devono fare i conti con un epilogo (più o meno) tragico; e sono prima di tutto vicende imperfette, quotidiane, che non ci chiedono una spiegazione ma ci obbligano a dare loro un giudizio. Giusto o sbagliato che sia, non è questo il punto.

Sono molti i fumetti in cui Tomine si interroga sulla portata delle proprie scelte e delle proprie azioni. Per certi versi l’ha sempre fatto: anche quando, a sedici anni, iniziava ad autoprodursi con mezzi di fortuna, quando gli editor di Drawn & Quarterly non avevano ancora scoperto di cosa fosse capace il «ragazzo meraviglia dei minicomics». I sei racconti di Morire in Piedi però, a distanza di un quarto di secolo da quegli esordi, sono un punto di svolta decisivo: il cartoonist di Sacramento mette da parte l’estetica caricaturale dei primi numeri di Optic Nerve – la serie antologica che cura con passione dal 1991 – a beneficio della ricerca narrativa e di un tratto sempre più accessibile, spoglio e veritiero.

Diversissime tra loro, ma accomunate dal fil rouge dell’intrusione abusiva, queste sei storie si reggono in piedi da sole, e per ciascuna di esse Tomine ricorre a un’impostazione grafica coerente, in linea con il mood e i temi trattati. L’episodio che dà il titolo al libro, ad esempio, gode di un ritmo frenetico e a più riprese suscita molta ilarità, anche grazie alla frammentazione della pagina in vignette minuscole, grandi quanto un francobollo. L’autore sembra voler fermare il tempo, confinando nei vari riquadri emozioni ed espressioni facciali riprese in divenire, come se stessimo assistendo a un corto in stop-motion. In altri racconti, come Tradotto dal giapponese, le immagini occupano gran parte della tavola, ma prese singolarmente non hanno significato: è la voce narrante a renderle parte di un sistema, a suggerire ipotesi nuove e insospettate, lettura dopo lettura.

Questi due approcci convergono nella storia conclusiva, Intrusi, che parla di rancore e paura, della rabbia sottesa al senso di colpa che prova chi è in errore, e del sottile confine tra pubblico e privato. È quasi un racconto di deformazione: un uomo si trova in possesso delle chiavi di un appartamento che non è il suo ma dove un tempo ha trascorso le vacanze con Maria, la compagna dalla quale ora si è separato. Il passato lo ottenebra e la tentazione di rimettere piede nell’abitazione è forte, perché la solitudine sta avendo la meglio su di lui e sui suoi ricordi.

Tomine è bravo a non perdere di vista il quadro generale della situazione: non sempre le vignette sono sincronizzate con le didascalie (dove il protagonista ha spazio per darci la sua versione dei fatti, in parallelo a quella che ci offre l’autore nelle immagini disegnate) e quando questo non si verifica, inevitabilmente, si crea un cortocircuito.

La prima tavola, come accade solo nei fumetti migliori, ci dice già tutto della storia. Ci viene presentato un tizio che varca la soglia di un locale buio, la sua necessità di fare luce (sulle cose, su di sé, su ciò che lo circonda), il suo peso. Tomine non lo riprende mai a figura intera: neanche nella sesta vignetta, quando siede davanti a una finestra ed è in penombra, ci è dato sapere chi è o da dove viene. Due riquadri più avanti compare, finalmente, il suo volto, che insieme alla corporatura lo fa assomigliare al protagonista di molti racconti brevi di Yoshihiro Tatsumi, da sempre un punto di riferimento per Tomine (e a cui Intrusi è esplicitamente dedicato).

Tavole del genere, progettate per contenere nove vignette isomorfe, si possono leggere in molte direzioni. Una di queste è, ovviamente, da sinistra a destra: ogni striscia manifesta una notevole coesione, la prima per il fatto che si chiude e si apre con lo stesso movimento della mano (dall’alto verso il basso), la seconda per il confronto tra la visibilità degli estremi e la “cecità” del riquadro centrale (la voce narrante sta descrivendo cose che noi non vediamo, ma che possiamo solo intuire siano là nei paraggi), mentre la terza per la ripetizione di un elemento fino ad allora assente, la nuvoletta. Capiamo che non sarà una storia molto “parlata”, e che da qui in avanti dovremo rimetterci a un’unica versione dei fatti, quella di chi li racconta.

Mentre realizzava la partizione della tavola, Tomine ha predisposto raccordi espliciti tra strisce consecutive. Così la mano del protagonista che scosta la tenda nella quarta vignetta riprende il movimento della scena precedente, mentre la freccia che fa capolino nel settimo riquadro sembra indicare ciò che l’uomo fissa dalla finestra, anche se indirettamente. Se consideriamo gli eventi in successione, infatti, quella a cui stiamo assistendo è a tutti gli effetti la scena iniziale: il tizio è in fuga da una situazione scomoda sulla quale non ci viene detto molto e trova rifugio in una camera d’albergo (ce lo suggerisce già il badge nella prima vignetta).

Ma queste sequenze potrebbero anche mostrare un epilogo, perché alla fine del racconto il protagonista commette un atto di cui si pente e tutto ciò che cerca è una fuga sicura e silenziosa. La storia, così come è costruita, potrebbe persino essere disassemblata: quello che noi crediamo l’inizio sarebbe quindi la fine e nelle tavole conclusive si celerebbe lo spunto che dà il via alle cose, e che passa dall’uomo al lettore attraverso lo stratagemma della voce narrante.

Anche il disegno ci fa percepire questa atmosfera circolare. La mano della prima vignetta è un elemento ricorrente e mai come ora “centrale” nel suggerire un senso di appropriazione e controllo della realtà, ma nelle ultime pagine, quando l’uomo non è più in grado di tenere a bada la situazione, Tomine per assurdo le dà ancora più importanza. È qualcosa di più di un leitmotiv, è un sismografo: più i lettori vi si soffermano, minore sarà il controllo del suo possessore su ciò che lo circonda. Non a caso, nelle battute iniziali il protagonista fa riferimento a un episodio recente che lo ha turbato e la sua mano si vede di continuo. Solo quando la sua attenzione si sposta sul presente, Tomine cambia prospettiva. La regia diventa compassata: abbondano le inquadrature statiche, piatte, a discapito dei primi piani e delle soggettive, ma il punto di vista rimane uguale.

A Tomine, più che “fare luce” su una situazione, interessa navigare nelle acque del buio, addentrarsi nell’inconscio di uomini (e donne) in lotta con il proprio passato, con le proprie ansie e preoccupazioni, e che si credono anticonformisti ma alla prova dei fatti si mischiano tra la folla per non farsi riconoscere. Dopo essere penetrati nella vita degli altri, in silenzio, come solo il miglior ladro di appartamenti sa fare.