Il debito della Storia nei confronti del femminile

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Quando definiamo i confini della Storia, quando ricordiamo le pagine sgualcite dalla frenesia adolescenziale, ripassate all’ultimo banco poco prima dell’interrogazione, una serie di nomi altisonanti affiorano alla mente. Leader politici, uomini di prestigio internazionale, scenari di alleanze, compromessi e risoluzioni grandiose. Eppure i più importanti eventi della Storia non sono altro che l’ultima conseguenza di una serie di piccole storie quotidiane, gesti anonimi, esperienze minuscole vissute, in modo straordinario, da persone ordinarie, confluite silenziosamente nel macrocosmo della Storia ufficiale. Se, poi, al centro di una delle tante storie che potrebbero essere raccontate, vi è una donna, l’oblio diventa la regola.

«Volevo scrivere la storia di una donna forte; sono una femminista, ci sono tante storie di donne non raccontate che vanno portate alla luce. Le figure femminili nella Resistenza sono di solito ricordate per la loro bellezza e il loro coraggio più che per i loro successi: ma anche se Christine era molto avvenente (prima della guerra era stata una reginetta di bellezza in Polonia) furono i suoi successi che le valsero le decorazioni dei governi francese e britannico. […] Era una donna appassionata e questo è fondamentale per capire chi fosse. Il titolo del libro è La Spia che amava, perché lei amava il pericolo e l’adrenalina ma amava anche gli uomini: più di tutto però amava la libertà e l’indipendenza. Era una donna avanti rispetto ai suoi tempi».

Così Clare Mulley – scrittrice e biografa inglese di fama internazionale, opinionista della BBC, del Guardian e del Telegraph – spiega a Sette, il settimanale del venerdì del Corriere della Sera, le ragioni che hanno mosso la scrittura de La spia che amava, sua prima opera tradotta in italiano. Il libro ritrae la figura di Christine Granville, la più longeva, coraggiosa e decorata tra le spie britanniche durante la Seconda Guerra Mondiale, raccontata attraverso fatti che l’hanno resa illustre, testimonianze dirette di chi l’ha conosciuta e incontrata, successi e tragedie, avventure e disgrazie che definiscono i contorni di una donna sempre in cerca di libertà. Tradotto da Valeria Cartolaro e pubblicato in Italia il 9 luglio per 21lettere, giovane casa editrice indipendente alla sua terza uscita, l’opera ricostruisce attraverso archivi, documenti originali, interviste a ex colleghi, amici e amanti, la vita di una donna complessa, che ha fatto dell’indipendenza morale e del coraggio le cifre della sua esistenza.

Quella di Christine Granville, nome in codice di Krystyna Skarbek, è una storia nella Storia, dove mito e fatti tendono a sovrapporsi e confondersi. Le leggende che hanno ammantato la vita della spia britannica, però, poggiano su eventi reali incontrovertibili. Sono proprio questi a interessare l’autrice, che tratteggia la personalità di Krystyna con l’accuratezza e l’attenzione della storica.

Krystyna nasce nel 1908 a Varsavia, figlia del conte Jerzy Skarbek, bello e infedele, amante delle donne e del gioco d’azzardo, e Stefania Goldfeder, discendente di un ricco finanziere ebreo. Trascorre la sua infanzia tra le comodità della tenuta di famiglia alla periferia di Varsavia; si sposa giovane e, con il suo ricco marito, si trasferisce nell’Africa coloniale. Sin da piccola mostra un’attitudine avventurosa, ma è con l’invasione della Polonia a opera della Germania nazista che rivela la sua vera natura. Abbandonati lussi e comodità, arriva in Inghilterra e con insistenza si offre volontaria come agente segreto. Inizialmente respinta in quanto donna, grazie alla sua determinazione riesce a convincere il Governo britannico ad arruolarla. Cambia nome in Christine Granville e viene assegnata al SOE, unità di sabotaggio, sovversione e spionaggio istituita da Churchill, diventando la prima spia donna al servizio del Re.

Man mano che la lettura scivola via, La spia che amava si configura come una storia di intelligenza, sangue freddo e audacia; le vicende di Christine, brillantemente ricostruite dall’autrice, si snodano in una trama coinvolgente e inaspettata, tanto da suscitare incredulità nel lettore, che quasi dimentica di essere alle prese con una vera biografia. Nel 1941, per esempio, Christine finisce catturata in una retata della Gestapo assieme al collega e amante – unico affetto costante che l’accompagnerà per l’intera esistenza – Andrzej Kowerski. A dimostrazione di una rapidità di pensiero che la sosterrà in tutte le circostanze più complesse, per salvarsi Christine decide di mordersi la lingua fino a sanguinare, simulando i sintomi della tubercolosi e convincendo così gli ufficiali, spaventati da un possibile contagio, a rilasciarla. In generale, con il suo lavoro di spionaggio negli anni della guerra, riesce a dare un contributo decisivo agli Alleati: è lei a trovare le prime prove dell’operazione Barbarossa, il piano nazista per l’invasione dell’URSS; attraversa le montagne d’Europa con un microfilm nascosto nel guanto con l’unico obiettivo di portare i documenti direttamente sulla scrivania di Winston Churchill. È questa l’occasione in cui Churchill stesso la definisce come la sua «preferita tra gli agenti segreti al servizio della Corona».

Nel dispiegarsi del racconto, il libro fa emergere l’attaccamento viscerale di Christine alla sua terra, la Polonia, e il senso di responsabilità che sente nel volerne sostenere la liberazione; con il proseguire degli eventi, però, si riscontra in lei un sentimento di impotenza, basato sulla crescente consapevolezza dell’impossibilità di contribuire in modo concreto alla causa; gli attriti tra le attività di spionaggio polacche e britanniche, sempre sul filo di sospetti reciproci, la tormenteranno per tutto il corso della guerra, soprattutto quando verrà accusata personalmente di tradimento. Sarà questo per lei il rimpianto più ingombrante.

Ma nella narrazione della vita di Christine Granville non c’è spazio solo per avventure e successi militari. Negli anni da spia divorzia due volte, vive relazioni con altri agenti segreti e si lascia alle spalle decine di amanti e ammiratori. Uno dei suoi nomi in codice sarà Willing, “disposta”, proprio per la tendenza a cercare «gli amanti più affascinanti e le missioni più pericolose».

Ciò che più colpisce di fronte al ritratto che l’autrice dipinge con estrema cura e grande attenzione alle fonti è la modernità di Christine. Sorprende la capacità con cui applica alla sua vita principi di femminismo, parità e indipendenza professionale, sociale e personale; con la tipica ostinazione che la caratterizza, la vediamo rivendicare più volte il diritto all’autodeterminazione. Ben oltre qualsiasi postulato teorico, Christine Granville mette pratica il concetto stesso di libertà in tutti gli ambiti possibili, rifiutando «di essere disciplinata, rimproverata o costretta in qualsiasi modo», restando fedele solo alla sua linea.

«Christine non aveva mai avuto un approccio strategico alla vita. Sin dall’infanzia, ciò che la caratterizzava maggiormente era un intenso desiderio di libertà: libertà da ogni autorità, di vagabondare e cavalcare, e di vivere una vita d’azione e d’avventura come facevano gli uomini facoltosi. Il lavoro, il matrimonio e le rigide regole della società erano costrizioni inaccettabili, che la resero in breve tempo, come notò acutamente Vera Atkins del SOE, un tipo solitario che seguiva leggi tutte sue». Perciò, nonostante la costellazione di incontri d’amore che hanno illuminato o adombrato la sua vita, mai nessuna relazione avrebbe potuto renderla prigioniera:

«Christine fu una moglie, due volte, e avrebbe potuto esserlo di nuovo, e fu un’amante molte più volte, ma non fu mai definita dalla sua relazione con un uomo. Christine amava in maniera appassionata. Amava gli uomini e il sesso, l’adrenalina e l’avventura, la sua famiglia e il suo Paese; amava la vita e la libertà di poterla vivere appieno. Quando questa libertà le era stata negata, dalla legge o dalle convenzioni, aveva sfidato le aspettative, infrangendo le regole o semplicemente cambiando la sua fede, la sua età, il suo nome o la sua storia. […] La guerra, sovvertendo le regole di comportamento dei tempi di pace, aveva, per molti aspetti, liberato Christine. Raggiunse traguardi straordinari. Fu la prima donna a lavorare sul campo come agente speciale per gli inglesi».

Dal punto di vista stilistico, pur avendo una mole importante, la biografia risulta scorrevole, adatta a un largo pubblico, anche non particolarmente informato sui fatti della Seconda Guerra Mondiale, poiché nel libro non mancano riferimenti chiari ed esplicativi della situazione generale. Il focus è senza dubbio la spy story, ma lo sguardo è ampio e variegato, comprensivo di tanti generi letterari diversi, che, mescolandosi, appassionano, sorprendono e commuovono il lettore. Il testo fatica, però, a rendere fluidi i passaggi, omettendo connettivi che invece aiuterebbero chi legge a non smarrire la linea coerente degli eventi.

Tornando alla narrazione, merita interesse il periodo post-bellico di Christine, vissuto con profonda amarezza: nonostante le medaglie al valore riconosciutole dalla Francia e dal Regno Unito, infatti, verrà abbandonata dal Governo britannico che deciderà di voltarle le spalle e negarle più volte la cittadinanza. Impossibilitata, come molti dei suoi connazionali esiliati, a tornare nella Polonia sotto il regime comunista, Christine tenta continuamente di reinventarsi, senza però mai tradire la sua indole.

L’epilogo della storia di Christine Granville suscita emozioni contrastanti e sembra essere, ricalcando le parole di Clare Mulley, «in qualche modo appropriato che una donna che aveva vissuto come lei morisse in un modo così drammatico». Lascio a voi il gusto di scoprirla, suggerendo di prestare particolare attenzione alle due interessanti appendici finali.

La spia che amava riporta così alla luce una figura finora sconosciuta, disegnando fra le righe il ritratto intimo e personale di una donna a cui è stato impedito di diventare un’icona; le vicende dell’intrepida spia britannica sono state a lungo sepolte, anche perché gli uomini che avevano fatto parte della sua vita, riuniti in un vero e proprio circolo, dopo la sua morte hanno censurato ogni forma di pubblicazione che la riguardasse  – persino quella di una sceneggiatura in cui il ruolo da protagonista avrebbe dovuto essere interpretato da Sarah, la figlia di Winston Churchill  – con l’intento di proteggerne la memoria da eventuali diffamazioni.

Christine non si è mai lasciata trascinare dagli eventi, ma piuttosto li ha governati con determinazione. Si dice che Ian Fleming, il padre di James Bond, si sia ispirato a lei nel disegnare la figura di Vesper Lynd, la prima delle Bond Girls. «Quando dicono che Christine fu la prima Bond Girl – precisa Clare Mulley – io rispondo: no, Christine è stata la prima James Bond».