Tanti piccoli fuochi, sparsi ovunque, incontrollabili. Non è forse questo che siamo, tutti? Scintille a un passo dall’incendio, frammenti di brace incapaci di prevedere la fiamma. Little Fires Everywhere racconta di maternità, razzismo, disparità sociale e ricerca identitaria; ma più di tutto concentra l’attenzione sulle conseguenze di una vita che scivola via, fuori da ogni possibilità di comando.
Come per la miniserie HBO Big Little Lies, lo show è tratto da un libro; per entrambe le produzioni l’idea è partita da Reese Witherspoon che da diverso tempo tiene un book club dal nome Hello Sunshine; quando il libro letto presenta una storia interessante, che si presta anche al piccolo schermo, Reese decide di finanziare il progetto. Little Fires Everywhere nasce dunque come libero adattamento dell’omonimo romanzo della scrittrice statunitense Celeste Ng, edito in Italia dalla casa editrice Bollati Boringhieri. All’iniziativa partecipa in veste di produttrice esecutiva e regista di quattro episodi – su un totale di otto – anche Lynn Shelton, prematuramente scomparsa lo scorso maggio, considerabile a tutti gli effetti una delle principali artefici dello show targato Hulu e arrivato in Europa sulla piattaforma streaming Amazon Prime Video, dal 22 maggio disponibile in Italia, in versione sottotitolata.
Siamo in Ohio, a Shaker Heights, un sobborgo di Cleveland che sembra accuratamente pianificato fin dalle sue origini: un agglomerato di comunità benestanti, rispettose delle regole e fiere di essere multirazziali e perfettamente integrate. Gli intrecci narrativi della serie TV, però, sveleranno ben presto l’anima della cittadina, l’essenza autentica celata dietro al principio del politicamente corretto.
La storia comincia dalla fine, con uno spaventoso incendio che distrugge la dimora della famiglia Richardson e un interrogativo altrettanto inquietante: chi potrebbe odiarti così tanto da appiccare piccoli fuochi sparsi per casa, con te dentro? È il 1997 quando Mia Warren (Kerry Washington) arriva in città con sua figlia Pearl; artista spigolosa, ribelle e afroamericana, Mia abiterà nella casa che Elena Richardson (Reese Witherspoon) giornalista part-time, sposata con l’avvocato Bill (Joshua Jackson), madre di quattro figli, maniaca dell’organizzazione – e bianca – le affitterà per alcuni mesi.
Due madri, due donne americane, apparentemente l’una lo specchio contrario dell’altra. Le vite di Mia e di Elena, e le loro dinamiche di opposizione, porteranno alla luce un’America divisa, dove la razza e la classe sociale sono ancora il discrimine. Più che la rappresentazione di un conflitto aperto, però, Little Fires Everywhere mette in scena piccoli gesti, incomprensioni e interpretazioni errate, micro-razzismi ripetuti e reiterati, anche inconsapevolmente, che finiscono per minare la convivenza quotidiana delle due famiglie protagoniste. Il tema della discriminazione, infatti, emerge in dialoghi sparsi qua e là o in frasi circoscritte che potenziano l’idea di un sostrato sotterraneo dispiegato negli anni. Nel primo episodio, per esempio, Mia si ritrova a dormire in macchina con la figlia adolescente e, all’avvicinarsi di un poliziotto, raccomanda immediatamente a Pearl di tenere le mani bene in vista; così come quando, dopo un’infrazione di proprietà privata da parte dell’adolescente, si preoccupa di avvertirla sulle possibili conseguenze del gesto, marcando nei toni la dicotomia noi/gli altri: «i poliziotti non ci amano, a noi non la fanno passare liscia».
Inevitabilmente, il pensiero del lettore contemporaneo non può non andare al movimento Black Lives Matter, portato avanti in tutto il mondo e oggi vivo e urgente più che mai. La serie TV compie, però, un passaggio ulteriore, rendendo problematico il superamento di comportamenti razzisti; si mette in luce, infatti, l’interiorizzazione implicita di alcuni meccanismi discriminatori e la sottile linea di confine tra l’intenzionalità di gesti realmente inclusivi, la cui riuscita spesso è fraintesa– come talvolta accade al personaggio di Izzy, la più ribelle tra i figli di Elena – e le azioni di chi invece si muove consapevole di essere guardato dall’intera comunità, finendo, in una sorta di paradosso grottesco, col favorire i neri rispetto ai bianchi, pur di evitare accuse di discriminazione, depotenziando così gli sforzi di chi serba buone intenzioni. Tale tematica, spesso sottovalutata, evidenzia come le modalità di approccio al diverso siano un campo minato anche per chi, impregnato suo malgrado di un razzismo sistemico difficile da scrollare di dosso, immagina le fattezze di un nuovo mondo che abbracci il multiculturalismo senza riserve.
Man mano che gli episodi scorrono, le differenze tra le due protagoniste, così visibili esteticamente ed eticamente, si assottigliano sempre più. Per capirne il motivo dobbiamo tornare indietro negli anni ’70 e ’80, quando Elena e Mia iniziano a dar forma alla loro vita e, dunque, alle loro differenze esistenziali; i componenti che emergono evidenziano le aspettative della società sulle donne e il loro corpo, le pressioni che tutte, al di là dell’origine culturale, subiscono rispetto alle proprie decisioni di carriera, di famiglia o di relazioni amorose.
L’intera serie, infatti, si presta a una riflessione sul femminile e sulla maternità nelle più varie declinazioni: la scelta, la (im)possibilità, il rifiuto. Essere madri, vedere i propri figli come proiezione di sé stessi e delle proprie attese asfissianti di perfezione, in un rapporto simbiotico dannoso, finisce per compromettere la reciprocità dell’equilibrio madre-figli. Il senso di possesso che oggettivizza la prole – “lei è mia” è la frase che ripetono in modo ossessivo tutti i modelli materni rappresentati nello show – conferisce un senso di sproporzione al legame affettivo, che assume tratti unilaterali rispetto al carattere paritario che invece dovrebbe caratterizzare qualsiasi relazione emotiva. Little Fires Everywhere, dunque, è un affresco sulla maternità e le sue insidie, che decostruisce il concetto stesso di purezza materna, mostrandone gli eccessi di rigidità o di lassismo e immergendo le protagoniste in ruoli sovra-strutturati in cui ognuna deve affrontare i propri pregiudizi e desideri, le proprie paure e fragilità.
Lo show si colora, dunque, delle tante sfumature che può assumere l’atto generativo, dalla maternità surrogata all’eterna contrapposizione tra madre biologica e madre adottiva, dispiegata nella vicenda che coinvolge una collega di Mia, attraverso l’esperienza della quale si passa in rassegna ancora un’altra idea di esperienza genitoriale, secondo cui l’affetto materno in sé potrebbe non essere sufficiente a garantire il benessere dei figli, se non accompagnato da una disponibilità economica.
Sul versante speculare e opposto, quello relativo all’orizzonte dei figli, troviamo il personaggio di Izzy che scoprirà in Mia la sua stessa inquietudine e inclinazione all’arte, e quello di Pearl che ritroverà in casa Richardson la stabilità familiare che ha sempre cercato, senza mai poterne beneficiare a causa della vita nomade della madre. Sentirsi figlie delle madri degli altri: Little Fires Everywhere trova in questo il suo punto nevralgico che, attraverso la story-line, stratifica e interseca i tanti volti della maternità.
La costruzione dei personaggi risulta per la maggior parte del tempo credibile; si potrebbe però obiettare a quello di Elena una cifra fin troppo caricaturale e inamovibile nel dover rappresentare a tutti i costi la quintessenza della “whiteness” borghese, impeccabile e puritana, spogliata da ogni tipo di ironia o empatia. Del resto anche la figura di Mia offre agli spettatori un personaggio che a volte si riduce a una continua maschera livida e dolente, dove non c’è spazio per il pentimento, azzerato da un ideale che contempla solo uno stile di vita liberato e alternativo, arrivando perfino ad ammutolire le più basilari esigenze di serenità della figlia.
Ciononostante, la regia della serie TV permette allo spettatore di gustare al meglio la carriera da artista di Mia, e la fotografia porta sul piccolo schermo luci e ombre dell’Ohio che fanno da cornice all’evolversi della vicenda lungo tutto il suo sviluppo. I dialoghi sono accurati, i confronti tra madre e figli risultano veritieri, carichi di tensione tanto quanto i monologhi, particolarmente accattivanti.
Quanto a godibilità, il sesto episodio, focalizzato sul passato delle protagoniste, è un vero gioiello di scrittura. AnnaSophia Robb e Tiffany Boone, infatti, mettono a segno un lavoro brillante nel rappresentare le radici delle due matriarche, imitando fino al più piccolo dettaglio atteggiamenti e movenze delle attrici “adulte”. Per i più attenti, poi, un segreto nascosto nel titolo rende l’episodio ancora più luminoso: The Uncanny, ovvero “il perturbante”. All’inizio dell’episodio, in un passaggio in cui ci si interroga sull’arte e su dove risieda la bellezza – nello straordinario o nel quotidiano – si innesta la categoria freudiana del perturbante che avvicina irresistibilmente i concetti di inquietudine e di fascino, nell’attitudine tipica del sentimento della paura che nasce quando una persona (un’impressione, una situazione) viene avvertita come familiare ed estranea allo stesso tempo, provocando angoscia unita ad una sensazione di confusione ed estraneità. È Mia stessa a dire, altrove, di fronte a un uditorio tutto al femminile, quanto desiderasse che l’opera d’arte a cui è più legata diventasse irriconoscibile perfino per lei, come memorandum di tutte quelle parti di noi stessi inaccettabili, sconosciute, che ci terrorizzano tanto da apparirci mostruose.
In Little Fires Everywhere ci viene dunque rivelata una società costruita sul pregiudizio, sui cliché razziali e sull’assenza di rappresentazioni che raccontino la voce delle minoranze. Eppure la sceneggiatura non condanna e non giudica; la regia indaga le venature che intercorrono tra bene e male, tra giusto e sbagliato e, alla fine, tutti hanno ragione perché tutti, contemporaneamente, hanno torto. Non esiste un’unica verità e lo spettatore, per quanto ci provi, non riuscirà a schierarsi in assoluto con nessuno dei personaggi. Uno stralcio del romanzo a cui si ispira la miniserie esemplifica questa dinamica di sospensione del giudizio:
Una aveva seguito le regole e una no. Ma il problema con le regole era che implicavano un modo giusto e un modo sbagliato di fare le cose. Quando, in effetti, la maggior parte delle volte erano semplicemente modi, nessuno dei quali del tutto sbagliato o del tutto giusto, e niente capace di dirti con certezza da che parte della linea ti trovavi.
Se adesso chiedessi a te, che stai leggendo, di immaginare graficamente la complessità della natura umana come fosse un disegno, probabilmente non penseresti a una linea perfettamente retta che separa un qui e un lì; siamo tutti caos, grovigli senza direzione, schegge incandescenti in attesa del vento che pacifichi le fiamme.
Città eterna, 1991. La formazione classica mi ha donato una sorta di feticismo per le parole: me ne innamoro, dichiaro loro guerra, ne percepisco ribellione e potenza. Non credo nel concetto di identità, o almeno questo è quello che dicono le Altre dentro di me. Tutto ciò che orbita attorno alla comunicazione cattura il mio interesse, ma l’unica Dea che venero è la poesia. Di notte non cercarmi, capita che mi perda tra le increspature del cielo.