«[…] e non aver paura
non aver mai paura
di essere ridicoli,
solo chi non ha scritto mai
lettere d’amore
fa veramente ridere.
Le lettere d’amore,
le lettere d’amore,
di un amore invisibile;
le lettere d’amore
che avevo cominciato
magari senza accorgermi;
le lettere d’amore
che avevo immaginato,
ma mi facevan ridere
magari fossi in tempo,
se avessi ancora il tempo
per potertele scrivere.”
(R. Vecchioni, Le lettere d’amore)
Questa faccenda che il tempo interiore non coincida con quello della vita ci sta stretta, è innegabile: non fa che ricordarci quanto siamo umani. Ancor più se consideriamo che questa non-coincidenza si verifica soprattutto nel caso di una storia d’amore. Anche lì dove gli amanti hanno l’impressione di filare all’unisono, il percorso di costruzione di un amore è fatto di frane, smottamenti, allontanamenti, incomprensioni, attese e domande, che non fanno che dilatarne il tempo.
Quando leggo libri o guardo opere cinematografiche che parlano d’amore mi viene spesso in mente Roberto Benigni ne La tigre e la neve. Nel ruolo di un insegnante che si rivolge alla sua classe, dice: «Poi non scrivete subito poesie d’amore, eh! Che sono le più difficili. Aspettate almeno un’ottantina d’anni. Scrivetele su un altro argomento, sul mare, il vento, un termosifone, un tram in ritardo». Certo, ci sono scuole di pensiero in disputa a riguardo: è vero che parlare d’amore è un’occasione artistica dal potenziale notevole, ma è innegabile pure che percorrendo questo sentiero si corre un grosso rischio, più ingombrante di quello che corriamo parlando di un impianto di riscaldamento.
Lo sa bene Sally Rooney, autrice irlandese, classe ’91, «la voce della generazione dei millennials». Nel 2018 pubblica Normal people, un romanzo (primo nella classifica del Sunday Times, vincitore del Costa Novel Awards 2018 e nella longlist del Man Booker prize 2018) che racconta la storia d’amore tra Marianne Sheridan (Daisy Edgar-Jones) e Connell Waldron (Paul Mescal). Il libro ha convinto così tanto da portare la BBC Three/Hulu a trarne una serie omonima, con la regia di Lenny Abrahamson e Hettie Macdonald.
Siamo in presenza di un’opera che ci rende molto semplice delinearne la sinossi: Marianne è una ragazza singolare e brillante, solitaria e aristocratica, sola e insicura; Connell è un ragazzo popolare e attraente, irrisolto e di umili origini, introverso e intenso; i due si innamorano clandestinamente durante gli anni del liceo, e il racconto della loro relazione irregolare e travagliata prosegue fino agli anni dell’università.
Terminata la lettura del libro e la visione della serie, la sensazione avuta è stata chiarissima: il numero degli elementi che mi ha convinto è pari a quelli che mi hanno deluso. A voi l’ardua sentenza.
Normal people è nient’altro che una storia narrata continuamente in primo piano con zoom sulla relazione amorosa tra Marianne e Connell. Lo si capisce sin dalla prima puntata. Non c’è spazio per altro: i personaggi raccontati si estendono a malapena ai familiari dei due protagonisti, gli spazi sono quasi sempre quelli che incastonano i momenti in cui il sentimento dei due ragazzi si fa più saldo o più tormentoso (la stanza di lei, la stanza di lui, gli armadietti della scuola, la macchina di lui). Questa scelta tematica ha, a mio parere, un potenziale elevatissimo. L’idea di realizzare una sorta di ode a una miniatura fatta di amore e normalità è grandiosa, e, se vogliamo, anche innovativa. Mi vengono in mente altre serie tv che parlano di relazioni in primo piano (Easy, Girls, Modern Love), tuttavia le tipologie di relazioni qui affrontate non sono mai davvero in primo piano, le trame sono articolate e fitte, le figure sono tante e soprattutto l’amore raccontato non è quasi mai “normale”, innocente, adolescenziale, canonico.
È per questo che non vedevo l’ora di tuffarmi in Normal People. Con mia delusione, tuttavia, sin dalla prima puntata, s’avverte che l’opera non ha armonia. Da cosa è dato il respiro corto? La lentezza nel cinema può funzionare solo se corredata di originalità nella forma (e sottolineo “nella forma”, non “nei contenuti”), e in questo caso, purtroppo, a tratti si sente odore forte di teen drama, e gli eventi non incalzano. Manca il brio, manca fortemente. Tanto che se lo spettatore di turno non fosse appassionato di opere a carattere psico-sociale e romantiche, temo non arriverebbe alla seconda puntata.
C’è dunque qualcosa che rende Normal People degna del vostro tempo? Sì, a mio parere c’è, nonostante i nonostante.
Uno: l’amore. Il sentimento raccontato è incredibilmente struggente. I due ragazzi sono inquadrati nell’incrocio delle loro solitudini aspre e amare: Marianne è figlia di una madre emotivamente e fisicamente assente, non ha un amico al di là dei suoi libri, è sorella di un fratello ostile e violento ed è vittima costante di bullismo; Connell è schiavo di un’insicurezza derivante dall’esser cresciuto in un contesto familiare umile (sua madre è la domestica di Marianne), non ha amici che gli consentano di crescere e leggersi a fondo, ed è limitato dalla vita di provincia. Riesce facile capire come l’incontro tra i due sia esattamente quello di cui entrambi avessero più bisogno. Il sentimento raccontato così in primo piano porta a un’inevitabile comprensione dei rapporti e della capacità di comunicare e aprirsi reciprocamente dei millennials, che in questa serie vengono mostrati un po’ come coraggiose vittime della generazione dei loro genitori.
Un altro elemento che rende quest’opera degno ritratto del nostro tempo è l’elegantissimo racconto della normalità. Cantare l’essenziale nell’arte non stona quasi mai, ed è così che Normal People resta ferma negli occhi dello spettatore per la sua sobrietà e intensa finezza, per la disarmante autenticità. A tal proposito, ricorrono negli episodi primi piani (in una fotografia pulita e struggente) di dettagli fisici che amplificano il forte sentimento raccontato nella scena in corso (paura, erotismo, amore, dolore) senza l’uso di parole. I dialoghi non sono mai espliciti, in questo viene fuori il cuore irlandese dell’autrice: se avete mai avuto a che fare con gli irlandesi sapete quanto possano essere intensi e autentici, allo stesso tempo introversi e riservati. Un esempio: c’è nella sesta puntata un primo piano sulla mano che Marianne si porta alla gola in un momento di estremo disagio (causato dall’imminente rottura con Connell) che quasi urla allo spettatore quanto quello che sta provando le porti letteralmente via il respiro; l’inquadratura dura cinque o sei secondi fatti di silenzio e seguiti da uno stacco di scena. È una tecnica narrativa estremamente riuscita, e, come ho detto, la serie è costellata di attimi del genere, tanto che quasi ci si abitua al fatto che queste inquadrature suppliscano le parole.
Tre: la normalità del sesso. Penso a Love di Gaspar Noé: in questo film il sesso è intenso, carnale, quasi pornografico (con termine considerato nella sua accezione più poetica). Ecco, le scene erotiche in Normal People sono l’esatto opposto di quelle di Gaspar Noé. Coerentemente col titolo dell’opera, l’amore fisico tra i due protagonisti viene raccontato con una essenzialità e normalità che paradossalmente lo privano di quasi ogni traccia di erotismo. La prima volta che Marianne si spoglia davanti a Connell è goffa, impacciata, quasi distaccata, meccanica. È come se ogni volta che viene inquadrato il seno nudo della protagonista (e succede moltissime volte) si riesca a percepire ritmo e colore con cui il suo cuore batte in quel momento.
Il tipo di sessualità affrontato nell’opera è, come dicevo prima, quasi sempre lo stesso: quello di due adolescenti che non hanno alcun interesse a sperimentare, ma piuttosto a vivere i loro corpi con fretta di amarsi. E se questo può essere quello che comunemente succede tra adolescenti, quando la storia si sposta sulla parentesi temporale degli anni universitari, la questione resta invariata. Anzi, è doppiamente sottolineata per contrasto dal racconto di sesso masochistico triste e autodenigrante che Marianne vive durante due relazioni con altri uomini: tutto non fa che condurre al lirismo poetico e innocente dell’unione fisica con Connell. È indubbio quanto l’ode al romanticismo dell’autrice sia straordinaria.
Sono sempre stata una fautrice dell’educazione sentimentale costruita attraverso grande schermo o pagine di libri. Il tentativo della Rooney potrebbe essere considerato ardimentoso, ma l’impeto dell’autenticità raccontata mi porta inevitabilmente a consigliarvi di dare un’occasione a questa serie.
Il brano che ho citato all’inizio è un pezzo che Roberto Vecchioni ha dedicato a Fernando Pessoa, e contiene uno dei versi più potenti del cantautorato italiano in tema di amore e arte: “Quello che conta è scrivere”.
«E scrivere d’amore,
e scrivere d’amore
anche se si fa ridere.
Anche quando la guardi,
anche mentre la perdi,
quello che conta è scrivere».
Nata in Basilicata nel 1990. Il suo Dio il settimo giorno non si riposò: creò carta e penna, la commedia all’italiana, il cinema francese, i dischi in vinile, le autostrade, e Monica Vitti. È convinta che non ci sia niente che una chiacchierata e una pizza gigante non possano curare. Non sa fischiare, e i numeri le fanno venire l’emicrania. Ha abbandonato con una smorfia la facoltà di giurisprudenza, per poi studiare lettere, giornalismo e storia contemporanea. Certi giorni scrive per vivere e certi vive per scrivere, ma non li distingue mai.