Il colibrì: il fascino dell’emmenalgia

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Il colibrì non è un noir, ma inizia come se lo fosse. Marco Carrera, oculista di 40 anni nato e cresciuto a Firenze, si trova nel suo studio a Roma, all’angolo tra Via Chiana e Via Reno, quando riceve una visita inaspettata. La sua vita, fino a quel momento, sembra essere perfetta: è un professionista stimato, felicemente sposato con Marina, e padre di una bambina di 10 anni, Adele. Questa calma apparente è destinata a essere scossa da «un ometto basso e barbuto» seduto nella sua sala d’aspetto. Daniele Carradori, psicanalista di Marina, è venuto fin lì con l’intenzione di salvare la vita a Marco, svelandogli la verità sulla moglie. La porta della sala d’aspetto si apre, i due uomini si incontrano, «la membrana che separava il dottor Carrera dal più potente urto emotivo di una vita ricca di altri potenti urti emotivi» cade. Dissolvenza a nero. Stacco di un anno, giriamo la pagina e c’è una cartolina fermo posta del 1998. Solo una frase d’amore, scritta a mano e spedita a un indirizzo francese, come si faceva prima che esistessero le mail, le chat e le videochiamate.

È con questa partenza cinematografica che Veronesi riesce a conquistare il lettore. Le prime pagine de Il colibrì assumono infatti la forma di una sceneggiatura: la scrittura è ricca di immagini che caratterizzano subito i personaggi e gli ambienti (lo sguardo magnetico dello psicanalista, il giradischi d’epoca marca Thorens, la musica di Graham Nash che si diffonde nella stanza) e i dialoghi sono divertenti, ironici, surreali.

Quest’atmosfera da film giallo è destinata però a terminare bruscamente alla fine del terzo capitolo. Da qui in poi la narrazione cambia ritmo, e inizia ad evolversi attorno all’esistenza di Marco Carrera seguendo un arco temporale che va dal 1960 fino al 2030.

Il colibrì è la ricostruzione di una vita intera, ma il nucleo del libro è costruito attorno a un’idea semplice: c’è molto più coraggio nel restar fermi che nel cambiare. In un mondo in cui «chi si muove è coraggioso e chi resta fermo è pavido», c’è ancora chi, come Marco Carrera, è disposto a adottare la logica esattamente opposta, lottando strenuamente per rimanere fermo. Questa sua caratteristica sarà sia una risorsa che un’insidia. Infatti, se da un lato questa visione del mondo gli consentirà di non crollare di fronte alla lunga serie di lutti e delusioni che costelleranno la sua vita, dall’altro, il suo sottrarsi al cambiamento lo porterà ad avere difficoltà a relazionarsi con gli altri. In un capitolo del libro, Luisa, la donna amata da Marco, scrive tutto questo in una lettera, spiegando il significato della parola emmenalgia:

«Da ‘Emméno’, un verbo greco che significa ‘rimango saldo’, ‘persevero’, ‘continuo strenuamente’. Un senso di struggimento malinconico per il desiderio di voler continuare a oltranza. Un verbo insidioso, però. Perché ‘emméno’ significa anche “sottrarre alle leggi, alle decisioni di altri”».

Anche il rapporto che Marco ha con gli oggetti riflette questa idea di nostalgia; per lui «le cose sono innocenti», hanno un significato importante e definiscono l’identità di chi le possiede. È esemplificativo il capitolo “Un inventario”, in cui Carrera, in una mail al fratello Giovanni, stila una lista minuziosa di tutti i mobili presenti nella casa dei loro genitori; oppure il passaggio nel quale ricostruisce la storia della collezione quasi completa dei romanzi di Urania di suo padre. Anche l’amore tra Marco e Luisa è intriso da un senso di rimpianto, e anzi è destinato a vivere solo nell’assenza, nell’impossibilità del suo realizzarsi. I due non potrebbero essere più diversi; lui mette tutta la sua energia nello stare fermo, lei vive assecondando il cambiamento. Nonostante questo si amano per anni, a distanza, quasi senza contatto fisico.

Oltre alla parola emmenalgia, c’è un altro termine (abusato, ma in questo caso necessario) che descrive perfettamente il protagonista di questo romanzo: Marco Carrera è l’eroe e della resilienza, perché il suo rimanere saldo non è una bruta opposizione al cambiamento, ma è proprio la capacità di resistere agli urti della vita senza rompersi, anche quando questi urti sono «spallate terribili» che lo lasciano con appena un filo di forze.

L’eroismo di Carrera verrà premiato alla fine del libro, perché sarà destinato ad allevare «l’uomo del futuro», che in realtà è una donna, sua nipote Miraijin. La bambina rappresenterà la sua salvezza e sarà la prova dell’esistenza di un mandato biologico che è insito in tutte le cose. Come leggiamo nel capitolo “Un filo, un mago, tre crepe”, ogni relazione prende infatti la forma del suo primo manifestarsi:

«Dovrebbe essere noto […] che il destino dei rapporti tra le persone viene deciso all’inizio, una volta per tutte, sempre, e che per sapere in anticipo come andranno a finire le cose basta guardare come sono cominciate».

Sarà proprio nel suo ruolo di nonno che Marco riuscirà a dare un senso a tutti i lutti, i dolori e le delusioni che hanno caratterizzato la sua vita («Aveva tanto sofferto, sì, per uno scopo altissimo: consegnare al mondo l’uomo nuovo – ma solo dopo avere resistito alle percosse e alle ingiurie di una sorte oltraggiosa, come dice Amleto»).

Così, il protagonista trova finalmente risposta agli infiniti “perché” della sua esistenza e capisce che sua nipote sarà la capostipite di un movimento di giovani «reclutati e addestrati per combattere la guerra che nessuno avrà voluto combattere prima», ovvero quella tra verità e libertà.

In questa parte del libro Veronesi strizza l’occhio al movimento “Fridays for futures”,  la scrittura abbandona – purtroppo – la cornice narrativa, sfociando in una retorica un po’ trita e fine a sé stessa; l’immagine di questo “uomo nuovo” è troppo ideale, il tono della scrittura è quasi epico, ed è tutto concentrato in un flusso di coscienza in cui non si riesce più a distinguere la voce del narratore da quella del protagonista, tanto che alla fine si sente solo la voce dell’autore stesso. L’ultimo capitolo riassesta un po’ le cose, ma la narrazione rimane carica di pathos, ed è un peccato che alla fine si perda il ritmo e il tono ironico che avevano catturato il lettore nelle prime pagine. 

Il colibrì è un romanzo denso, che tuttavia riesce ad essere scorrevole grazie alla frammentazione della trama in capitoli brevi che scompongono il tempo. In questo modo, Veronesi racconta la vita di Carrera anche nei suoi momenti più traumatici, alleggerendo i colpi che il suo protagonista riceve. Anche le diverse forme di scrittura che vengono utilizzate hanno questa funzione: si alternano pagine di pura rievocazione degli eventi – affidate alla voce di un narratore esterno – a lettere ed e-mail scritte da Marco o da Luisa, nelle quali riusciamo a sentire la voce dei personaggi. Ci sono poi i già citati elenchi – di oggetti, di canzoni, di libri – e le chat di WhatsApp, che fungono da anticlimax e che probabilmente sono la parte più riuscita del romanzo. È poi impossibile non parlare dei numerosissimi richiami letterari, che in alcuni casi costituiscono delle vere e proprie cover di brani di altri scrittori. Il più evidente di tutti è il capitolo “Ai Mulinelli”, che parafrasa il bellissimo racconto di Fenoglio “il Gorgo”.

Il colibrì è quindi il risultato di tutto ciò che il suo autore ha letto, vissuto, ascoltato; è un romanzo di dolore, ma anche di speranza, perché ci mostra – anche se non sempre è facile crederlo – che ogni cosa, anche la più terribile, avviene per un motivo, e che non sempre è necessario cercare il cambiamento a tutti i costi per trovare un senso alla propria vita.