Immaginatevi dentro una galleria d’arte fatiscente, un rudere di bellezza antica. Pensate a come sarebbero i vostri passi, l’incedere lieve e meticoloso. Esplorate l’ambiente privo di coordinate spazio-temporali, morbidamente sfumato nei contorni, muto. Non interrogatevi: è un sogno, ogni spiegazione sarebbe d’intralcio. Adesso alzate lo sguardo e proiettate sullo sfondo un oggetto estraneo, dal sapore meccanico, una sorta di scarto industriale. L’effetto straniante sarà immediato, del tutto inevitabile. Eppure, al secondo colpo d’occhio, tutto sarà in armonia. L’abbraccio paradossale tra passato e avvenire al crepuscolo.
Questa è la sensazione che suscita l’incontro sullo schermo con Tales from the Loop, serie rilasciata da Amazon Prime Video lo scorso 3 aprile: otto episodi da cinquanta minuti diretti da diversi registi, tra cui Mark Romanek, Andrew Stanton, Ti West e Jodie Foster. Lo show è prodotto da Matt Reeves assieme alla società di sua proprietà 6th & Idaho, mentre il ruolo di showrunner è affidato a Nathaniel Halpern, già sceneggiatore della seconda stagione di Legion, qui al suo primo progetto personale. L’originalità della serie TV si rintraccia fin dalla sua genesi, che prende le mosse – la suggestione artistica iniziale non è un caso – dall’idea di scrivere una serie di storie (i “tales” del titolo, appunto) a partire dalle illustrazioni di Simon Stålenhag. Notato negli ultimi anni con crescente interesse soprattutto dal pubblico fruitore dei social, Stålenhag è un talentuoso giovane artista che realizza illustrazioni della sua terra d’origine, la Svezia, attraverso l’uso di tecniche digitali volte a simulare la pittura a olio. Il risultato delle sue opere è sorprendente: scenari rurali o urbani ambientati in ipotetici anni ottanta e novanta, frutto di un’evoluzione storica alternativa. Le opere di Stålenhag, infatti, rientrano nella sfera dell’ucronia, letteralmente nessun tempo (da οὐ = “non” e χρόνος = “tempo”), tutte tese a raffigurare un immaginario retrofuturo in cui la scienza o, per meglio dire, la fantascienza, è armonicamente parte del paesaggio quotidiano. Il tratto decadente ammanta gli elementi tecnologici, robot obsoleti, macchinari dismessi o sfere di metallo ormai arrugginito, il cui avanzamento meccanico è già superato. Stålenhag contamina il futuro di nostalgia e abbandono, conferendo alle opere un’atmosfera agrodolce dove inquietudine e conforto sono equidistanti. Grazie a un crowdfunding l’artista riesce a raccogliere le sue creazioni negli artbook Tales from the Loop, pubblicato in Italia nel 2017 col titolo Loop da Mondadori Oscar Ink, Things from the Flood e The Electric State, ancora inediti nel nostro Paese.
È proprio dalla prima raccolta che Nathaniel Halpern trae ispirazione per l’omonima serie TV, sviluppando con grande respiro creativo le poche informazioni che lo stesso Simon Stålenhag fornisce sul possibile background narrativo delle sue immagini, mettendo a punto uno storytelling credibile per il piccolo schermo. Ogni episodio, infatti, ha vita propria a partire da un elemento grafico specifico di una determinata tavola – molte delle strutture o dei robot presenti sono identici a quelli raffigurati da Stålenhag – scatenando così nello spettatore l’illusione di trovarsi di fronte a un’opera antologica. A livello tecnico, è vero, le puntate possono dirsi autoconclusive, perché ognuna mette al centro un protagonista differente che emerge sugli altri personaggi; ma, nei fatti, esistono relazioni tra i vari ruoli che contaminano l’intero percorso narrativo, che trova il suo fil rouge a partire dall’assunto iniziale rivelato nei primi secondi, con un monologo rivolto direttamente agli spettatori da uno tra i personaggi più importanti per l’evolversi della storia, Russ Willard (interpretato da un intenso Jonathan Pryce, l’Alto Passero de Il trono di Spade): l’influenza del Loop.
Lo show televisivo sposta l’ambientazione dalla Svezia di Stålenhag a una innevata cittadina dell’Ohio, dove anni prima è stata scoperta una grande sfera, composta da numerosi frammenti neri, denominata Eclipse. Attorno all’Eclisse è stato costruito il Loop, una struttura circolare sotterranea che ne studia i misteri attraverso esperimenti di fisica non convenzionale, stimolando grandi progressi tecnologici. Alcuni prodotti degli esperimenti compiuti nel corso del tempo hanno perso la loro funzionalità preminente e sono stati perciò sparsi come scarti meccanici su tutto il territorio, a portata di mano degli abitanti. Come il paesaggio si rimodella accogliendo i rifiuti senza vita, così l’animo dei cittadini, sotto gli occhi degli spettatori, trova nuova forma a contatto con robot enigmatici e polverosi. I vari esperimenti del Loop, infatti, esercitano uno strano potere sul tempo, sullo spazio, sulle percezioni e sui ricordi di ogni personaggio.
Dimenticatevi gli scenari distopici alla Black Mirror, sganciatevi dall’idea di una tecnologia incontrollabile e semidivina che sortisce effetti spaventosi e problematici dal punto di vista etico; qui i fenomeni delle tecnica sono integrati con naturalezza alla vita umana, tornando a essere uno strumento neutro nelle mani dell’uomo, una delle tante sfaccettature della sua esistenza sulla Terra. Abbandonate, poi, il facile confronto con Dark, più intrigante e macchinoso nell’intreccio, e con Stranger Things, più pop e ammiccante verso lo spettatore, soprattutto nei riferimenti musicali e di costume, dichiaratamente anni ottanta. Quello che invece Tales from the Loop offre è una dimensione alternativa che sarebbe potuta essere; una realtà “altra” che, se letta attraverso parametri contemporanei, risulterebbe paradossale. L’oggetto tecnologico-fantascientifico, infatti, è solo lo sfondo dell’unico soggetto dipinto in primo piano: l’umanità. Anzi, spingendoci ancora più oltre, è solo grazie all’interazione con la tecnologia che i personaggi riescono a interpellare la propria sensibilità umana, a innescare un dialogo con desideri, memorie, bisogni e sconfitte, a prescindere dalle possibili conseguenze. L’obiettivo di Tales from the Loop, infatti, è quello di raccontare storie il cui lieto fine è solo uno dei possibili esiti; ad assumere importanza è la ricerca in sé, l’esperienza concreta del tentativo, la scoperta che il percorso stesso potrebbe rovesciare o potenziare le premesse iniziali.
Man mano che le puntate scorrono, i protagonisti, spesso bambini o adolescenti, si rivelano persone ordinarie, parte di un mosaico sociale e umano più ampio. L’atteggiamento minimale che dimostrano nei confronti di ciò che accade, i toni dimessi e sobri, l’assenza di stupore, meraviglia, e l’istintiva accettazione verso ciò che si configura fuori dal comune, sortiscono un effetto di “normalizzazione dello straordinario”. Pur conservando la forma antologica che predilige una visione individuale delle cose, dunque, la voce che si delinea lungo il percorso è indubbiamente corale. L’io vaga alla ricerca di una sua identità attraverso lo scambio con l’altro; che sia uno scambio temporale o corporale, uno reciprocità amorosa o familiare, non importa. Il focus è sul modo attraverso cui i personaggi agiscono, spogliati dalla pretesa di decifrare la realtà microscopica dell’animo umano e macroscopica della Natura. Tales from the Loop mette in scena a più livelli un concetto che giace invisibile sotto gli occhi di tutti: l’inesplicabile. La trama di ogni episodio non punta, infatti, alla costruzione di intrecci complessi, all’ideazione di colpi di scena che sconvolgano lo spettatore – molte tematiche sono tipiche della narrazione fantascientifica: i viaggi nel tempo, l’incontro col doppio, la sospensione del mondo che concede di cristallizzare l’entusiasmo perfetto di due innamorati – ma si fonda piuttosto sull’atmosfera, il tono, la componente cromatica, conferendo importanza più ai movimenti emotivi che ai veri e propri eventi.
Merita un’annotazione particolare l’interpretazione di Rebecca Hall nel ruolo di donna tutta concentrata nel portare avanti gli esperimenti di cui si occupa al Loop, risoluta e quasi irrimediabilmente destinata a perpetrare gli stessi errori di disattenzione nei confronti dei figli compiuti da sua madre, eppure pronta a indagare le proprie fragilità mettendole in discussione, evolvendo il suo atteggiamento in una dimostrazione di affetto genitoriale scevro da ridondanti sentimentalismi, scegliendo la via diretta dell’amore autentico. Così come, con sfumatura uguale e contraria, la prova attoriale di Paul Schneider, figlio inadeguato per le attese del padre, il grande fondatore del Centro di Fisica sperimentale del Loop. Diventato padre a sua volta, il personaggio di Schneider patisce il confronto tra il rapporto nonno-nipote e quello vissuto da lui nella condizione di figlio; è un adulto senza riferimenti certi, vuole essere senza sapere cosa essere e nasconde un misterioso segreto che nessuno riesce a cogliere nonostante sia proprio lì, attaccato al suo braccio meccanico. Il ritratto che ne esce fuori è di una delicatezza disarmante e inaspettata.
In definitiva la porta per accedere è la fantascienza, ma la stanza dentro cui ci si ritrova è l’animo umano. I campi lunghi e la fotografia vintage, che nel corso degli otto episodi conserva la stessa tavola cromatica, virando al blu o a colori più tenui a seconda del grado di malinconia, poi, trasmettono allo spettatore una preziosa – mai come oggi, fuori è maggio ed è in atto una pandemia – sensazione di benessere. Ci sono, infine, le musiche ben riconoscibili di Philip Glass e Paul Leonard-Morgan, di cui però talvolta si fa un uso troppo languido, a immergere il tutto in un’atmosfera ipnotica, rallentata, sospesa.
Tales from the Loop è un prodotto televisivo coraggioso che poteva trovare collocazione solo in una piattaforma come Amazon Prime Video il cui obiettivo, ad oggi, è dare spazio all’originalità e all’audacia autoriale. Il pubblico di riferimento, dunque, non è quello da binge watching, abituato a serie TV in cui gli episodi scorrono famelicamente uno dopo l’altro. La strada scelta qui da Halpern è diversa, fatta di favole, silenzio e contemplazione, stupore e paura. La visione non è per tutti, richiede uno sforzo, un patto di fiducia e pazienza da parte di coloro che sanno resistere a meditazioni e visioni placide, superando le debolezze narrative che pure sono presenti. I dialoghi, infatti, appaiono talvolta troppo scarni e prevedibili e la staticità degli ambienti provoca un senso di attesa e smarrimento, rimarcati dalla consapevolezza che nessuna rivelazione verrà concessa al pubblico. Basterà, però, spostare di poco lo sguardo, utilizzare finalmente il giusto tempo per dare senso a ciò che accade, superare il ritmo faticoso dei primi episodi e permettere che i personaggi acquistino tridimensionalità, per comprenderne l’essenza più autentica. Dovremmo rivendicare più spesso il lusso della lentezza in cui abita la riflessione. In fondo, è proprio questo il campo magnetico dell’intera serie TV: il tempo e l’azione che esso esercita sull’uomo, come un loop che ripete se stesso fino a quando non provoca un cambiamento.
Ora, tornate a immaginarvi dentro quella stravagante mostra sospesa tra ciò che è stato e ciò che sarebbe potuto essere, esercitate il diritto al pensiero vertiginoso del sogno, e abbandonatevi. Play.
Città eterna, 1991. La formazione classica mi ha donato una sorta di feticismo per le parole: me ne innamoro, dichiaro loro guerra, ne percepisco ribellione e potenza. Non credo nel concetto di identità, o almeno questo è quello che dicono le Altre dentro di me. Tutto ciò che orbita attorno alla comunicazione cattura il mio interesse, ma l’unica Dea che venero è la poesia. Di notte non cercarmi, capita che mi perda tra le increspature del cielo.