Sul lato selvaggio

Rimettere i fili dentro il quadrato

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Cosa significa essere vivi? E cosa significa essere morti? Cosa rende una vita degna di essere ricordata? Dedicato alla memoria delle sei donne di Chillicothe, Ohio, uccise da un assassino ancora ignoto, Sul lato selvaggio di Tiffany McDaniel (Edizioni di Atlantide, traduzione di Luca Briasco) è il resoconto di un’esistenza violenta e dolorosa. Nel ripercorrerla la narratrice tenta di trovare una risposta a queste domande cruciali e di ricordare al lettore che ogni vita, anche la più infelice, merita di essere rispettata.

Se nasci a Chillicothe, Ohio, un puntino sperduto nella vastità del Midwest, è molto probabile che ti ritroverai, tuo malgrado, su uno di due poli opposti separati da un divario sempre più ampio: o sei «feccia bianca» e appartieni al lato selvaggio, o sei parte della classe media, della borghesia perbene, e appartieni al lato bello. È Arc a spiegarlo, prima bambina, poi adolescente, donna, sorella, figlia, nipote e tossicodipendente senza un dito. Lei e la gemella Daffy crescono su un lato selvaggio popolato da genitori negligenti – più preoccupati di procurarsi la droga che di controllare che la loro figlia neonata non si stia masticando il pollice fino all’osso –, zie eroinomani e pedofili. Le due sorelle fanno parte di una disastrata famiglia matriarcale in cui il loro unico punto fermo è nonna Keith, perché mamma Addy e zia Jo, quelle che dovrebbero essere le loro figure di riferimento, sono tossicodipendenti che si prostituiscono in casa. Nella vita di Arc e Daffy gli uomini o sono assenti, come il padre, o fin troppo presenti: entrambe vengono stuprate dal Ragno, un cliente della madre. Le due bambine considerano quindi nonna Keith e il suo uncinetto gli unici sprazzi di luce e serenità in un’esistenza altrimenti segnata da un’oscurità densa e vischiosa. In casa di Arc e Daffy il sole non può entrare: gli abiti del padre morto coprono tutte le finestre e Addy cerca con tutta sé stessa di impedire a nonna Keith di sostituirli con delle tende gialle. La coperta che le sorelle cuciono con lei diventa quindi la loro unica opportunità di creare un mondo alternativo: il dritto è il lato bello dell’esistenza, il rovescio e i fili che vanno rimessi dentro sono il lato selvaggio, la loro realtà in costante disfacimento. Quando nonna Keith muore a causa di una distrazione banale e intollerabile di un uomo alla guida, Arc e Daffy fanno sempre più fatica ad abbellire il lato selvaggio. Disegnare i loro desideri sul pavimento spoglio o inventare storie a lieto fine non basta più, così decidono di lasciare la casa che per loro non è stata altro che un magnete capace di attirare sofferenze sempre più insopportabili. Per qualche anno riescono a opporsi a un destino che sembra inesorabile, ma poi scivolano senza resistenze nella tossicodipendenza, sprofondando in un abisso da cui sembra impossibile riemergere. Come in una specie di perverso gioco dell’oca, Arc e Daffy tornano al punto di partenza, a vivere con la madre e la zia, prostituendosi anche loro per racimolare i soldi per l’eroina. In strada conoscono altre donne, che come loro avevano sognato una vita diversa e avevano tentato di affrancarsi da un destino che l’opinione comune vedeva per loro già scritto. Donne considerate non abbastanza degne di vivere e morire come tutti gli altri: sono le sei di Chillicothe che vengono ammazzate da una persona che ancora non ha un nome, ma poco importa, perché «i tossici muoiono sempre per effetto della loro dipendenza. Anche se hanno i polmoni pieni d’acqua».

La storia che racconta Arc è la storia di una tossicodipendenza (e di tutto quello che ne consegue) a cui sembra cedere per assecondare l’idea di lei che si sono fatti gli altri: fin da bambina ha la sensazione di essere stata incasellata in una categoria ben precisa, che il suo destino le venisse descritto «da estranei, che davano un’occhiata distratta alla mia vita e mi raccontavano quello che, senza dubbio, sarebbe stato il mio futuro».

Ancora una volta Tiffany McDaniel esplora un tema a lei caro, quello della dualità e degli opposti: in questo caso ci sono il lato selvaggio e il lato bello, la separazione tra gli emarginati dalla società perbene e quella classe privilegiata che abita in case dagli esterni immacolati ma dalle stanze macchiate dai segreti più sordidi. Illustre rappresentante di questi ultimi è il Ragno, il poliziotto che di giorno è un irreprensibile candidato sceriffo e di notte un pedofilo incallito che violenta ripetutamente le due gemelle e poi parte per la scalata alle cariche politiche più alte degli Stati Uniti, ripulendosi immagine e coscienza e riuscendo a ingannare tutti. C’è poi la dualità intrinseca delle donne protagoniste del romanzo, di Arc e Daffy, della madre, della zia, delle loro compagne di strada: appartengono al lato selvaggio, ma rimangono sempre figlie, madri, zie, sorelle, amiche, persone con desideri e speranze. Come riflette Arc da bambina «anch’io avevo i miei sogni. Andavo a scuola in bicicletta, sicura che non sarei mai diventata meno di quel che ero».

Come gli altri romanzi di McDaniel, Sul lato selvaggio è stato scritto senza alcun tipo di pianificazione, con un metodo viscerale che fa partire la scrittura dal titolo e dall’incipit, ed è caratterizzato da un simbolismo coerente ed efficace (pure se a tratti stucchevole), che acquista potenza man mano che la storia prosegue, grazie a visioni oniriche o allucinatorie sempre più vivide e realistiche.

Sul lato selvaggio è un romanzo dolente e coraggioso, che vuole dimostrare come il motore che muove chiunque, a prescindere dalla classe sociale e anche nelle condizioni più atroci, sia l’amore: è per amore nei confronti di sua sorella che Arc arriva quasi a sacrificare sé stessa, mostrando con le sue azioni che «sul lato selvaggio c’era comunque amore. Amore per noi, amore da parte nostra, amore fra di noi» e che, se c’è questo, qualsiasi vita è degna di essere vissuta.