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Unorthodox: perché tutti stanno guardando questo gioiello Netflix

8 min. di lettura

«Non avrai altro Dio all’infuori di me,
spesso mi ha fatto pensare». 
(Il testamento di Tito – Fabrizio de André)

Unorthodox è una miniserie autobiografica. È una storia quasi epica, sbocciata da una vicenda comune. È il racconto della fuga di Esty, una ragazza appartenente a una comunità ultraortodossa ebraica, che si mette in salvo da una vita che non sente più sua. È una storia estremamente umana, ambientata in una chiara contemporaneità.

Oggi a Williamsburg, Brooklyn, si trova una delle più grandi comunità di Satmar, un movimento chassidico di ebrei, per lo più ungheresi e rumeni, sopravvissuti all’Olocausto, che prende il nome dalla città d’origine del suo rabbino fondatore. I satmarici sono una minoranza, fatta oggi di circa 130.000 membri: il loro estremismo, è importante sottolinearlo, non appartiene ai costumi religiosi della dottrina ebrea ortodossa comune.

La serie Netflix in questione è tratta dall’autobiografia di Deborah Feldman Unorthodox: The Scandalous Rejection of My Hasidic Roots, pubblicata nel 2012. Deborah Feldman è una donna nata e cresciuta tra i satmarici di Williamsburg: all’età di ventitré anni, nel 2009, scappa dalla sua comunità e si trasferisce a Berlino. È una donna fuori dall’ordinario, lo è per le sue radici e per il suo coraggio. L’omonima serie Netflix nasce dall’incontro di Anna Winger e Alexa Karolinski, le due creatrici, con Debora Feldman, che ha collaborato con le due durante le riprese. Le tre sono diventate amiche e hanno dato vita a questo prodotto cinematografico, che ha per protagonista Esty Shapiro, una ragazza satmarica, interpretata magistralmente da Shira Haas, splendida attrice israeliana di 24 anni. Unorthodox è una produzione che, al di là della sua caratura tecnica, per i temi che tratta e per la compostezza, la delicatezza e la crudezza con cui lo fa, vince facilmente sull’80% dei prodotti esistenti al momento su Netflix. Tuttavia, la serie non segue fedelmente la biografia della Feldman.

Ma le analogie esistono: sia Deborah che Esty sono cresciute nella comunità di Satmar di lingua yiddish nel quartiere di Williamsburg a Brooklyn e hanno avuto matrimoni combinati prima di compiere vent’anni; i riti ebraici, i matrimoni, le modalità di preghiera, l’uso di parrucche, i costumi sessuali, sono fedeli a quanto descritto nel libro; sia Deborah che Esty sono cresciute coi nonni e sono state allontanate dalla madre a lungo; anche la mamma di Deborah, così come quella di Esty, si è scoperta omosessuale dopo aver lasciato la comunità (nella realtà, però, è rimasta a vivere a New York).

E ci sono differenze: il libro della Feldman racconta un arco di tempo molto più ampio della serie; la vicenda nel libro si conclude col trasferimento di Deborah a New York dopo aver lasciato il marito, l’epilogo della serie è differente; la Feldman si è trasferita a Berlino solo dopo dieci anni dalla nascita di suo figlio, mentre Esty nella serie scappa in Europa a 19; la vita di Esty a Berlino è completamente inventata; nella vita reale la Feldman non ha mai subito una caccia come quella da parte di Yankee e Moishe.

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L’UNIVERSO FEMMINILE E SHIRA HAAS

«Satmar è un ambiente duro, in cui tutto è guidato dalla paura. Ci viene insegnato che Dio esiste solo per essere temuto, e si ha costantemente paura delle punizioni, e di fare qualcosa di sbagliato. Ma per le donne è difficile in maniera particolare, perché sono davvero viste come una minaccia in questa comunità. Hanno bisogno di essere completamente controllate, perché sono quelle in grado di riprodursi. E la comunità sopravvive e mantiene il potere che ha grazie al controllo sulla riproduzione della donna. Le donne partoriscono in media da 10 a 20 bambini, e questo consente alla comunità di crescere velocemente. Se le donne non fossero completamente controllate, la stabilità e il futuro di Satmar non potrebbe essere al sicuro».
(Deborah Feldman’s escape from Brooklyn to Berlin – DW interview)

Nel libro Deborah racconta la fobia che i satmarici provano per il corpo e la sessualità femminili, innestando questo seme persino nelle menti delle stesse donne. Queste ultime crescono con la convinzione che i loro corpi siano qualcosa di sporco di cui vergognarsi, e che la loro sessualità abbia a che fare col demonio. Alle donne non resta che provare a supplire al male che rappresentano in terra, e alla minaccia che la loro esistenza comporta. Le ragazzine crescono con l’idea di essere disgustose perché in qualche modo il loro corpo lo è, restando esclusivamente un mezzo per servire la comunità. Pensate di dover convivere ogni giorno con la certezza che il vostro corpo sia disgustoso e importante allo stesso tempo. Direi che non è necessario scomodare nozioni di psicologia per capire quanto sia terribile e disturbante tutto questo per un essere umano.

Era semplice che lo diventasse, ma non per questo meno degno di nota: Unorthodox è un grande manifesto femminista, e Shira Haas, l’attrice protagonista, è il suo volto perfetto. Capace di portare al pianto o al sorriso lo spettatore usando un solo muscolo del viso, Shira ha dimostrato di essere (sebbene Unorthodox non sia certo la sua prima performance) una giovane attrice dal raro talento.

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LA FUGA, LA MUSICA E LA LIBERTÀ

«Io non ricordo un solo momento della mia infanzia in cui non fossi consapevole della mia identità di discendente dei sopravvissuti all’Olocausto. (…) Ho sofferto ogni giorno per via di questa consapevolezza. Penso di poter parlare di un dolore che si è accumulato crescendo, e che mi ha causato molte paure irrazionali che derivavano dalla mia infanzia. Ma finché non ho realizzato che fosse dolore, per me era normalità. Pensavo fosse così per tutti. Ho amato davvero molto le persone che mi hanno cresciuto, e il fatto che fossero dei Sopravvissuti mi faceva sentire come se il mio dolore non potesse essere paragonabile al loro. E poiché li amavo non osavo lamentarmi di cosa vivevo dentro di me, perché prima di tutto ero cosciente di cosa avessero passato loro».

(Deborah Feldman’s escape from Brooklyn to Berlin – DW interview)

Tutti noi siamo frutto delle nostre radici familiari e sociali. E per la maggior parte della gente questa verità è un dato oggettivo, corredato dalla possibilità di scegliere quanto e come affrancarsi. Le parole di Deborah ci ricordano che non è sempre così. A volte le norme di buon vivere sociale possono infatti soffocare persino l’ossigeno nel sangue di un individuo, sopprimendo parti significative della propria interiorità. Resta un rumore di fondo in questi casi, un dolore che non ci si spiega e che lentamente uccide.

A questo punto molto probabilmente vi sentirete fortunati per non esser nati a Williamsburg.

Ma…

Siete certi di essere liberi? Quanto avete assimilato delle vostre radici e confuso con voi stessi? Quanto di tutto questo non si sposa con la vostra natura e vive con voi come inquietudine silente? 
Unorthodox è, perciò, una serie che paradossalmente c’entra poco con l’inumanità di una minoranza ebraica. Unorthodox è l’occasione per guardarci allo specchio e chiederci quanto ci sia di “ultraortodosso” in ognuno di noi.

Sono anni che ho fatto dello studio delle serie tv parte del mio lavoro. La serialità è un’occasione narrativa. Una forma che dà opportunità che un film non può dare. Unorthodox è una miniserie in cui la brevitas che affila le lame delle narrazioni, e l’intensità dei temi trattati, ripartita in quattro episodi (scelta perfetta a mio parere), riesce ad avere la luce che merita, che è la stessa del lago in cui Esty Shapiro si bagna a Berlino nel primo episodio.

Inoltre, Unorthodox è una serie in cui la libertà viene raccontata con grazia e realismo in una miscela equilibrata. Certo, la compostezza e la bellezza estremamente umile, tipiche della donna ebraica, e vivissime nella protagonista, hanno reso tutto più facile. Non parlo solo di lineamenti, mimica facciale, abiti e voci. L’eleganza mite di Unorthodox sta anche nella fotografia chirurgica di Wolfang Thaler: i colori non sono mai sgargianti, il contrasto tra interni ed esterni non è mai lasciato al caso e le luci si aprono in un climax ascendente.

Infine, il messaggio. Fino alla fine della storia Esty non fugge dal suo Dio. La religione ha preso nella vita della protagonista la forma di una fune che l’ha legata stretta, ma non è il baricentro del dramma: per quanto crudele, asfissiante a tratti, e incredibilmente dolorosa, Unorthodox, è fino alla fine la storia di una scelta di puro coraggio. I riti crudeli della comunità di Satmar catturano tanto l’attenzione, ma la pistola della narrazione resta sempre nelle mani di Esty, così come la scelta di guardare oltre la propria comunità, anche quando risulta complicato.

Un altro elemento chiave del personaggio di Esty è la musica. Deborah Feldman non ha mai studiato musica, ma, come racconta nella sua biografia, una volta trasferitasi a Berlino, ha iniziato a studiare Lettere. L’elemento musicale, dunque, è stato una scelta delle autrici, ma è in questa forma d’arte che Esty trova la sua libertà. A volte nel cinema la musica si fa personaggio (o comparsa) di una vicenda. In questo caso stabilisce invece una connessione tra uomo e Dio, tra uomo e vita, tra uomo e libertà.

IN CONCLUSIONE

Sarò di una semplicità chassidica: Unorthodox è un gioiello che merita il vostro tempo.