l'altro bambino

L’altro bambino: una fiaba spietata per ricordarci chi siamo

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«C’era una giovane donna seduta nel bar» suona come l’incipit di una fiaba, ma le pagine di L’altro bambino di Joy Williams (Edizioni Black Coffee, traduzione di Sara Reggiani) non hanno quel sapore zuccherino che ci si aspetterebbe da un inizio così; anzi, hanno il sapore amaro dei troppi gin tonic di Pearl, una protagonista che ha ben poco della leggerezza della fiaba.

Pearl è seduta al bar a scolare un cocktail dopo l’altro con in braccio Sam, il bambino di due mesi che ha avuto da Walker, suo marito. Fino al giorno prima viveva con lui su Hart Island, un isolotto nell’Oceano Atlantico settentrionale la cui popolazione è composta per la maggior parte da minorenni. Si tratta di una tribù di una dozzina di bambini che, come pregiati capi di bestiame, vivono quasi allo stato brado per alimentare le ambizioni di Thomas, il fratello di Walker, «appassionato di bambini» quasi fossero animali da esposizione. Ai suoi nipoti (i figli della sorella Shelly e della cognata Miriam) si aggiungono una serie di orfani da tutti gli Stati Uniti, che lui istruisce e plasma secondo i propri interessi con l’obiettivo di allevare dei piccoli geni. Pearl è convinta che i suoi modi corrompano l’ingenuità dei bambini. Non ha dubbi: è per colpa di tutte le nozioni che gli ha inculcato Thomas nel tentativo di renderlo ancora più brillante che Johnny, il figlio di Miriam e uno tra i bambini più sensibili, a soli sei anni precipita in un abisso di depressione e apatia che lo porterà alla morte. È da questi metodi, percepiti come violenti, che Pearl scappa portando con sé Sam.

La sua è una fuga prima fisica, da Hart Island alla Florida, e poi mentale. La prima dura pochissimo. Nel giro di qualche ora Walker la ritrova e insieme ripartono per l’isola, ma l’aereo che li dovrebbe riportare a nord cade: Walker muore e Pearl perde Sam. Nel letto d’ospedale si ritroverà con un neonato che somiglia in tutto e per tutto al suo, nonostante l’istinto le dica che no, quello non è suo figlio. È il figlio della vecchia che ha visto subito dopo la caduta, tra i vapori dell’alba nelle Everglades e i fumi dell’aereo in fiamme, tra la lucidità dell’adrenalina e lo stato allucinatorio dello shock. Con questa consapevolezza ha inizio la seconda fuga, quella mentale.

Sette anni dopo il disastro aereo e lo scambio, Pearl è una disciplinata alcolista. Ogni mattina, immancabilmente, si sveglia e a bordo piscina consuma le prime due bottiglie di vino della giornata, che trascorre dedicandosi a «coltivare pessime condizioni di salute». L’alcolismo è una scusa per abbandonarsi a pensieri che altrimenti si sentirebbe troppo in colpa per fare, per essere negligente nei confronti di sé stessa e dell’altro Sam, che intanto è impegnato a catalizzare le primordiali energie della tribù dei bambini. Sam ha ricreato per loro un mondo nuovo e allo stesso tempo antichissimo, generato da una storia cominciata decenni prima con Aaron ed Emma, i capostipiti della famiglia; li guida in rituali misterici che tiene nella casa di pietra sul limitare del bosco, dove Aaron scuoiava e macellava animali. «Sam gli aveva detto questo. Nascosto da qualche parte c’è il vostro animale, ed è importante che lo riconosciate, che sappiate come trovarlo, o non sarete mai niente»: i bambini seguono religiosamente le sue indicazioni e si lasciano avvolgere da una magia oscura che li riporta ai «loro sé più forti, e più magici.» Sono grati a Pearl di questo dono; è l’unica adulta con cui vorrebbero rimanere per sempre e lei si trova più a suo agio con loro che con i suoi coetanei. È un’ubriacona e i bambini sono «come gli ubriaconi, totalmente dediti allo sproloquio incoerente», quindi Pearl si sente simile a loro, nonostante li trovi anche inquietanti.

È inquietante che crescano e quindi scompaiano senza morire: come sostiene Thomas, «nella transizione tutto si perde. Tutto. La vita stessa». È inquietante perché il processo porta a farsi una domanda la cui risposta cambia la percezione che ognuno ha di sé: se il bambino che è in noi scompare con l’età adulta, siamo sempre la stessa persona? Pearl è sconfortata perché «pensava di dover essere sé stessa. Ma lei stessa non esisteva». È una donna mutilata, priva della sua identità, priva del suo vero figlio e priva di razionalità. Come la schernisce Thomas, è diventata «la pazza in Cristo» dei bambini, un essere che ha rinunciato alla ragione per usare solo la sapienza dello spirito. Ma è in virtù di questo che i bambini la accettano come una di loro e la proteggono durante la catarsi che li libera delle loro catene umane e li ricongiunge «al grande animale di Dio, un animale dal cuore pulsante che non si fermava mai.»

Le ultime pagine del romanzo sono un dialogo ininterrotto, un brusio febbrile in un vortice di voci bambinesche, pellicce, denti e artigli che si contrappone a una scrittura fino a quel momento controllatissima, piena di metafore visionarie («Bevo per far fiorire le ossa») e freddure inaspettate («Le siepi fuori dalla loro finestra erano a forma di siepi morenti»). In uno dei passaggi più affascinanti del romanzo Pearl pensa che le parole vengano «emesse con ostinata approssimazione», che ogni significante sia solo un mezzo per mitigare significati ineffabilmente spaventosi, per «rendere possibile una conversazione civile». Le sembra di non possedere quel mezzo, di non trovare mai «gli eufemismi giusti». È una riflessione che lascia sorpresi, perché in L’altro bambino Williams è riuscita a trovare tutti gli eufemismi giusti per dire gli orrori e le frustrazioni che angustiano chiunque stia cercando di capire chi è davvero e quale sia il suo posto nel mondo.