Tutte le società si costruiscono su divieti e sacrifici, su ciò che non si deve o si deve fare. Questi principi, simili a due case dalle finestre illuminate in un paesaggio notturno, sono il rifugio di famiglie e onesti lavoratori, che lì si ritrovano a chiacchierare della giornata passata e dei valori condivisi; la distanza che le separa è immersa nel buio. Giardini, staccionate, prati e cespugli sono lì a dividerle sotto innumerevoli strati di oscurità, e nessuno osa avventurarsi in quella regione intermedia, fuori dal cerchio proiettato dalla luce. Ma se qualcuno, insoddisfatto dalle quattro mura, esce con una torcia e inizia a raccontare ad alta voce quello che vede tra le due dimore, allora c’è chi dalle finestre comincia ad ascoltare. Ciò che la voce descrive è difficile da accettare, incanta e terrorizza, ripugna e attrae, ma alcune persone porgono l’orecchio.
La ragione dell’enorme successo di Shirley Jackson risiede nella sua capacità di narrare, con tono mite e implacabile semplicità, quello che vede al di fuori delle due case, oltre la rassicurante familiarità delle norme sociali, dell’io civilmente definito e delle solide convenzioni che regolano i rapporti umani. Autrice di romanzi e racconti appartenenti all’inquietante mondo del “gotico” americano firma anche articoli sull’attività domestica e memoir familiari della vita in Vermont accanto al marito, il critico letterario Stanley Edgar Hyman. La varietà di registro che ne caratterizza l’arte ha procurato non pochi problemi a chi ha cercato di ricondurre la Jackson donna e madre alla scrittrice di horror, con l’intenzione di ridurre la sua opera a un’unica identità. Sarebbe assurdo, «come aspettarsi che Melville sia una grande balena bianca», ha ribattuto il marito. Le sue storie, infatti, non sono mai fantasie personali frutto di esperienze casalinghe. Libere dal contesto di creazione si innalzano a simbolo e riflesso della realtà, o di ciò che la realtà nasconde. Non è un caso che a sancirne il successo, ma soprattutto l’ingresso nel canone della letteratura americana sia stato un racconto tra i più rappresentativi delle caratteristiche fin qui evidenziate, La Lotteria, le cui vicende editoriali sono rivestite di una mitologia riservata a poche altre opere nella storia.
Si narra che la sua pubblicazione sul New Yorker del 26 giugno 1948 abbia gettato nel panico centinaia di lettori sconvolti dalla laconica crudeltà della storia, inquietati e incuriositi dalle dinamiche dell’insolita tradizione descritta. La redazione venne invasa da lettere di sconcerto e protesta e Jackson fu a più riprese costretta a fornire spiegazioni sul significato di quanto aveva scritto. Ma si narra ancora – e a farlo è proprio l’autrice – che il testo in grado di turbare l’America del secondo dopoguerra e di dare avvio alla stagione di questo genere americano, ancora al centro di innumerevoli dibattiti critici e censurato a lungo in Sudafrica, sia stato candidamente concepito in una tiepida giornata estiva mentre di ritorno dalla spesa Jackson spingeva il passeggino della figlia su per una salita; scritto dopo aver messo le verdure nel congelatore, sia stato completato in qualche ora e il giorno successivo inviato all’editor della rivista.
Forse Harold Bloom ha ragione quando dice che The Lottery ferisce una volta sola, che il suo meccanismo funziona solo alla prima lettura. Magari si sbaglia, ma in ogni caso, se non lo si è fatto, bisognerebbe leggerlo il prima possibile per evitare di disinnescare in qualche modo la sua speciale macchina catartica (si può leggere in inglese qui). La casa editrice Adelphi, che da anni si occupa di tradurre e raccogliere la perturbante opera della Jackson, ha pubblicato lo scorso novembre La Lotteria (traduzione di Franco Salvatorelli) nell’adattamento grafico dell’illustratore, nonché nipote dell’autrice, Miles Hyman. Qui la partitura visiva, tra silenzi e volti solitari in stile Hopper, coglie bene lo spirito del racconto, offrendo una resa ottimale del senso di attesa e di rigida attenzione, come solo un altro adattamento, questa volta cinematografico, prodotto nel 1969 dall’Encyclopaedia Britannica per la regia di Larry Yust ha saputo fare.
Ma cos’è ad aver sconvolto a tal punto i lettori del New Yorker? A rendere ancora così necessaria la pubblicazione di quest’opera? La storia è quella di una cerimonia annuale che si tiene all’inizio di ogni estate, coinvolgendo tutti gli abitanti di una piccola cittadina rurale del New England (come dichiara la stessa Jackson, potrebbe aver preso spunto dai suoi vicini). Un officiante regola l’estrazione e ogni partecipante, senza distinzione di età o genere, secondo una rigida lista in ordine alfabetico, procede alla pesca del proprio biglietto da una veneranda scatola nera. Un solo foglietto segnato è aggiunto agli altri e chi fortuitamente lo sceglie vince il premio della lotteria: la lapidazione fino alla morte. Ogni anno questo rito si compie in quasi tutte le città dello Stato anche se, a quanto dicono i personaggi, qualche comunità a nord ha abbandonato questa tradizione a proprio rischio e pericolo; rinunciarci, infatti, comprometterebbe inevitabilmente il raccolto, avverte il Vecchio Warner.
Alla brutalità della violenza si accompagna un resoconto limpido e razionale, una prospettiva ancor più straniante perché, sebbene sembri limitarsi al pacato equilibrio di un narratore esterno, a questo fa sottilmente assumere il privilegiato punto di vista della folla. E nella drammatizzazione dell’estrazione si riconosce con facilità il primordiale sacrificio del capro espiatorio. Così come riconosciuto da Girard, autore di alcune delle opere fondative del pensiero moderno, tra cui La violenza e il sacro e Il capro espiatorio, la violenza commessa ai danni di una vittima arbitraria è tra i principali modelli costituitivi della civiltà. Un elemento o una minoranza, che si distingue per la propria esclusione sociale sulla base di criteri culturali, religiosi o fisici, diventa il bersaglio contro cui la violenza del gruppo si sfoga. Per permettere alla società di liberarsi dai propri impulsi aggressivi, dalle frustrazioni causate da una crisi e di ristabilire gli schemi di pacifica convivenza prima vigenti, bisogna immolare una vittima sull’altare del bene comune. La ricerca del capro da parte dei persecutori avviene attraverso criteri che vengono creduti legittimi: chi viene ucciso è ritenuto responsabile di aver causato la crisi della società, avendo commesso crimini tali da turbarne l’ordine e il delicato equilibrio; in tal modo la strega è accusata di aver ucciso i bambini e la comunità ebraica di aver avvelenato il fiume, se una pestilenza ammorba la città. L’uccisione della vittima ristabilisce la pace. Gli effetti positivi sono tali che l’evento comincia a essere ripetuto fino a diventare un sacrificio rituale.
Se nel racconto gli stereotipi della persecuzione sono meno evidenti, nonostante non ci sia dubbio sull’ identificazione del capro espiatorio come vittima del sorteggio, è perché l’evento vittimario è già ritualizzato, e a dimostrarlo è la dettagliata descrizione della procedura. Dalla preparazione della scatola, passando per l’investitura dell’officiante, alla formalità dei saluti, ogni gesto appaga le aspettative dei cittadini, che nella consolidata ripetitività della cerimonia trovano la garanzia della sua efficacia. Nel lettore, però, l’effetto suscitato è tutt’altro. La crescita della tensione, il graduale avvicinamento verso il finale, e quindi verso il disvelamento del referente, costituiscono un contrasto scioccante rispetto alla normalità della situazione iniziale, rendendo la lettura profondamente inquietante e conducendo il lettore verso la riscoperta di un modello sociale sepolto e la sua ratifica rituale.
Ma c’è di più. Per i critici, nel concetto di capro espiatorio si raccolgono insieme l’innocenza della vittima, la polarizzazione collettiva contro di essa e la finalità della stessa persecuzione. Qui, sembra chiaro, gli ultimi due aspetti sono assorbiti nella liturgia, mentre il primo, l’innocenza e dunque la scelta, dovrebbe essere garantito dall’aleatorietà dell’estrazione. Come detto prima, però, il punto di vista del narratore è quello dei persecutori, della folla che crede di scegliere la vittima secondo principi oggettivi, in nome di un bene superiore e necessario. Infatti, attraverso gli occhi del narratore, Tessie, la donna che pescherà il biglietto fortunato, sembra assumere su di sé (fin dall’avvio del racconto) una serie di segni sempre più cogenti. È l’unica, infatti, ad arrivare in ritardo, dichiarando addirittura di aver dimenticato il giorno della Lotteria, non mancando poi di ironizzare sull’inizio della cerimonia. È sempre lei nel corso dell’estrazione a dichiararne davanti a tutti l’ingiustizia ed è ancora lei a cercare di sovvertirne le regole, a discapito della propria famiglia, per aumentare le probabilità di sopravvivenza. Ben prima dell’evidenza del pezzo di carta, questi segnali la individuano già come l’incontestabile vittima sacrificale. Le sue azioni la qualificano come una minoranza non integrata, un elemento destabilizzante dell’ordine costituito e necessario, una nota stonata, perciò altamente dannosa, nell’armonia della convivenza civile. Che sia la stessa Tessie a estrarre la propria condanna dalla scatola nera, allora, è solo una conferma di quanto avvenuto nelle pagine precedenti, e il vecchio Warner la convalida quando afferma che lui, così ossequioso e dipendente nei confronti del rituale e della città, ha assistito già a ben settantasette lotterie.
A quelli che vedono La Lotteria come una rappresentazione della violenza cieca che domina l’umanità, a quelli che ne leggono gli eventi come un ritratto del rituale persecutorio bisogna presentare la possibilità che ci sia qualcosa in più. Se il gioco della fortuna ratifica quanto la natura di Tessie ha affermato, se perciò la neutralità del caso arriva a conferma della ragione del popolo, in un’architettura autoportante in cui senza l’uno l’altro non si dà, allora l’intero rito dell’estrazione ha un significato ben preciso, ulteriore a quello della cieca scelta. L’inconsapevolezza dei persecutori, ancora prigionieri del proprio inconscio e fermamente convinti dell’oggettività delle accuse che individuano il capro, viene smascherata da Jackson attraverso l’impalcatura stessa. Convincersi della realtà dei crimini commessi dalle vittime designate, ammantare la persecuzione di pretestuosa onestà equivale a prostrarsi a credere che la scelta del caso coincida esattamente con la scelta determinata dalla collettività, scelta che sacrifica proprio la personalità divergente. Nelle moderne civiltà il meccanismo vittimario dovrebbe essere frenato dall’evoluta razionalità dei cittadini, che lungi dal concentrare le proprie frustrazioni collettive contro le minoranze arbitrariamente accusate, rivolgerebbe legittimamente il dito solo contro i reali colpevoli. Ma l’ironico paradosso creato della Jackson colpisce proprio questa presunta inconsapevolezza, svelando come l’oggettività spesso non sia altro che la maschera indossata dagli istinti.
Nello sconcerto dei lettori del New Yorker, nella loro morbosa curiosità, forse si può ravvisare un’immedesimazione nelle parole dell’autrice, la scoperta di qualcosa lasciato sopito o nascosto nel giardino buio. Rileggere questo racconto, rivisitarlo attraverso tutti i media possibili, vuol dire cercare un significato per il ruolo di Tessie, tentare di pacificarsi con la violenza perpetrata. Nel mito, dopo la morte, la vittima diventa sacra per i persecutori perché, ormai subordinati al suo potere, le riconoscono una causalità totalizzante, in lei risiede l’origine e la soluzione del male. Qui, però, Jackson non lascia spazio alle rassicurazioni, e la puntualità dell’evento non raccoglie indizi sul dopo.
Fuori dal tempo, per sempre, una donna continua a descrivere quello che vede a metà strada tra la casa del dovere e quella dei sacrifici. Non tutto quello che dice è gradito, ma dalle finestre molti continuano ad ascoltare.
Laura, classe ’94, ama i gatti e subisce il fascino dell’editoria, ma sta ancora studiando il fenomeno per cui entra in una libreria di mattina e improvvisamente è notte. Per non attirare l’ira degli dei, tra un bookclub e una correzione di bozze, recita il primo canto dell’Odissea in greco.