Chi soffre di insonnia sa che i sogni cercano comunque di farsi spazio, confondendosi spesso con la vita reale.
Jang Hae-Jun (Park Hae-il), detective della città di Pusan, ne soffre, e cerca di rendere le sue notti più produttive possibile. È sposato con Jeong-an (Lee Jung-hyun) che lavora nella centrale nucleare di Ipo e vede una volta a settimana. È un matrimonio che si regge sull’abitudine dell’incontro e su un grande affetto. Lei cerca in tutti i modi di curarlo dalla sua mancanza di sonno, tentando, tramite metodi scientifici, di abituare suo marito a una vita sana. Che sia il sesso, che siano i melograni, che sia una passeggiata al mercato del pesce. Tuttavia, le due personalità non si completano, a Jan Hae-Jun non basta l’amore metodico di sua moglie. Ha bisogno di altro: è un detective, una componente drammatica abita i suoi sogni. Nonostante sia apparentemente tutto d’un pezzo e irreprensibile è affascinato dalla morte e dalle ragioni che accompagnano un assassinio.
La vita del protagonista viene stravolta il giorno in cui un uomo muore cadendo da una montagna. Sembra un caso qualsiasi, un incidente, o forse un suicidio, nulla di troppo complesso, eppure l’incontro con la moglie di lui, Seo-re (Tang Wei), un’immigrata cinese che fatica a parlare il coreano, stravolge l’indagine. Piccoli dettagli come un graffio sulla mano, l’assenza di dolore, dei lividi sul busto e sulle cosce e un tatuaggio con la scritta Ki, che a quanto pare il marito usava per marchiare tutto ciò che era suo, portano Jang Hae-Jun e il suo collaboratore a sospettare di Seo-re. I due iniziano a pedinarla separatamente, a spiarla in casa, dov’è sempre sola, e nelle abitazioni delle signore anziane dove lavora come badante.
Poi avviene ciò che è ben chiaro fin dal primo sguardo: Jang Hae-Jun e Seo-re si capiscono, si osservano. In qualche modo s’innamorano (e qui c’è ben poco di spoiler), poiché entrambi necessitano di qualcosa dell’altro.
Decision to Leave di Park Chan-wook è un film intriso di poesia e filosofia, costruito su diversi livelli.
Il regista crea la perfetta situazione da film noir hitchcockiano, apparentemente già visto, ma pone la sua attenzione sulle relazioni umane, e in particolare sulla nascita di un sentimento profondo e inspiegabile come l’amore.
La storia di Decision to Leave, infatti, restituisce l’inevitabile sconvolgimento amoroso che colpisce due persone diverse, ma legate da uno stesso destino di solitudine e di incompletezza. L’incontro tra Seo-re e Jang Hae-Jun è ciò che di meno “accettabile” eticamente si possa avere: l’amore tra una donna sospettata dell’omicidio di suo marito e il detective che si occupa dell’indagine. Eppure Seo-re è l’unica persona che sa affacciarsi alle tribolazioni esistenziali di Jan Hae-Jun, è l’unica che sappia realmente ascoltarlo. E lui, del resto, è l’unico a interessarsi veramente a lei, come persona, e non come oggetto da collezione.
Con Decision to Leave Park Chan-wook apre una porta enorme nel mondo del cinema per diverse ragioni: innanzitutto la forma narrativa, che è scomposta, complessa, capace di passare da un registro ironico da commedia francese a un film della densità di Ferro 3 di Kim Ki-Duk nel corso di una sola scena. I dialoghi sono costruiti su forme linguistiche estremamente contemporanee. In primis l’utilizzo non ostentato della comunicazione digitale, che rende alcuni momenti particolarmente romantici (si vedano le scene in cui Seo-re, che appunto non parla bene il coreano, fa affidamento a Siri per tradurre alcuni frasi profonde e complesse, che vengono poi riprodotte da una voce maschile, semi robotica, ma accompagnate dallo sguardo malinconico di Seo-re, che non apre bocca, e che ha tutto il tempo per fissarsi su Jang Hae-Jun e osservare la sua reazione).
In secondo luogo, Chan-wook ci ricorda con immensa capacità che la vita non è una dicotomia perenne, che il bene e il male, a dispetto di un certo tipo di tradizione cinematografica, sono sopravvalutati. Ma non è solo questo. Ci ricorda anche che le storie più belle sono quelle più realistiche, e che quindi comprendono momenti buffi, momenti paradossali, momenti profondi e semplici. Chan-wook, in questo film, conduce una storia da cinema classico oltre lo schermo, fino a sfondarlo e attrarre lo spettatore in un coacervo di sentimenti inestricabili. Non c’è un lieto fine, ma ancora meglio: non c’è una vera fine. L’incontro tra due persone che scoprono di amarsi continua all’infinito dopo l’episodio raccontato e forse esisteva già prima che lo si raccontasse. È questa la grandissima qualità di Decision to Leave, continuare a esistere, in un verso o nell’altro. Perché è reale. Perché è sincero in ogni sua sfaccettatura e non contiene alcun esercizio di stile.
Infine, l’utilizzo dell’immagine. Il cinema coreano da anni ha fatto enormi passi avanti nel canone con la realizzazione di nuovi punti di vista; Chan-wook è un maestro d’estetica, intesa come bellezza, sì, ma anche come capacità di mettere in relazione il detto al non-detto, o meglio, in questo caso, il visibile all’invisibile. Chan-wook comunica con il gioco, con la fantasia dell’essere qui e ora. Ogni scena restituisce il senso di una costante ricerca e preparazione rispetto ai luoghi dove sceglie di girare. I primi piani non sono nulla rispetto all’abilità di posizionare la macchina da presa ovunque nel paesaggio circostante. Non c’è una forma ordinaria in Decision to Leave: come il registro stilistico anche quella si rinnova continuamente rispetto al momento raccontato. Sembra che il regista coreano conosca a 360 gradi lo spazio dove si trova. Oltre che la consapevolezza di ogni sguardo, ogni smorfia del proprio cast.
È difficile categorizzare un film come Decision To Leave, e sarebbe ingiusto farlo. Perché questo film parla in tanti modi diversi della complessità di un incontro. Ciò che si può dire per certo (forse) è che le varie forme d’amore sono il tema centrale. E grazie a una sceneggiatura scritta magistralmente, si pone un principio: nulla è come sembra, ma soprattutto, nulla è come vorremmo che sembrasse. L’incontro tra due anime legate scompone tutto il resto, e quello che ne rimane è una torbida mischia: purissima, sì, ma ingestibile.
Vittorio Parpaglioni Barbieri è nato a Roma nel 1998. Nel 2018 ha pubblicato un reportage narrativo in India per la rivista Midnight Magazine. Alcuni suoi racconti sono usciti sulle riviste online Suite Italiana e Argo, tra il 2020 e il 2021. È laureato in Lettere Moderne all’Università di Bologna e attualmente scrive di poesia per la rivista letteraria digitale Il Rifugio dell’Ircocervo. Nel 2022 ha pubblicato la raccolta di poesie “Corea” con la casa editrice Arcipelago Itaca.
Ha lavorato come regista del Making Of del film L’Immensità di Emanuele Crialese.