Battere l’avversario sul campus

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Uno legge la prima pagina de I Netanyahu – l’ultimo libro di Joshua Cohen, tradotto da Claudia Durastanti – e pensa: ok, è così che si vince il Pulitzer. Poi prosegue, e pensa: mi aspettavo qualcosa di più. Poi legge l’ultima pagina… e non sa cosa pensare.

Ecco, comincerei proprio dalla fine. È infatti lo stesso Cohen a spiegare la genesi del romanzo, riservando per sé una sezione denominata Ringraziamenti e un ringraziamento speciale (ma che in realtà è molto più di quello che il titolo promette). Quello che si è appena concluso, spiega, è il resoconto di un «episodio minore e in fin dei conti trascurabile» che l’autore ha sentito narrare da Harold Bloom, il famigerato critico a cui Cohen deve un endorsement notevole, visto che aveva definito il suo romanzo del 2015, Il libro dei numeri, uno dei «migliori quattro libri di scrittori ebrei in America». Cohen racconta della frequentazione con l’anziano Bloom, da cui ha potuto ascoltare aneddoti riguardo a ogni scrittore influente degli ultimi cinquant’anni. Ma, spiega, piuttosto che pescare da vicende che avevano come protagonisti Roth o DeLillo o Derrida, ha deciso di parlare di una figura non letteraria, ossia Benzion Netanyahu, padre del più noto Benjamin.

Il protagonista e narratore del romanzo si chiama Ruben Blum. Condivide con Bloom l’età e le origini piuttosto umili: genitori newyorkesi, del Bronx, ebrei, tagliatori di stoffa nel Garment District. Le similitudini però sembrano quasi finire qui. Anche il Blum finzionale è professore universitario, è vero, ma in storia, e non è certo brillante come il suo ispiratore. Sopravvive grazie a una nicchia di studi in storia delle tassazioni, che ha per lo meno il merito di essersi ricavato da solo, così che ora ci campa di rendita. Ma è soprattutto la sua voce privata a essere lontana da quella che, immaginiamo, potesse avere il vero Harold Bloom. Questo protagonista è un padre mite che subisce i suoceri più ricchi e la figlia adolescente, e che si barcamena a fatica nella vita accademica, per niente sicuro della sua identità, e anzi disposto, suo malgrado, a prestarsi alle vessazioni dei colleghi di dipartimento: a lui, che è l’unico professore ebreo di tutta l’università, fanno mettere la barba bianca per impersonare Babbo Natale.

È simpatico, certo, e non stupido. La sua voce sembra un aggiornamento ventiventi della testatissima voce di uno Zuckerman o di un Saul Bellow, anche se forse un po’ più timorata e meno smaliziata, per certi versi più simile a un Malamud o – visto che comunque il linguaggio è a volte pirotecnico – il Nabokov di Pnin. Tale mancanza di orgoglio e personalità è utile a preparare la scena a Netanyahu padre, il cui arrivo destabilizzerà la famiglia di Blum, Blum stesso, e le meccaniche del campus. La storia, più o meno, è questa qui.

Benzion Netanyahu cammina nella neve con mocassini leggeri, risoluto. Non si fa problemi a imbucare tutta la sua famiglia (compreso il figlio Bibi) a casa dei Blum. Parla yiddish e non inglesizza i nomi dei suoi figli. Lavora strenuamente per l’affermazione dello Stato d’Israele, e anche se arriva nella cittadina universitaria upstate nella speranza di ottenere un ruolo di professore di storia, alla storia non crede. Non crede che la sua gente abbia una Storia così come la si intende in Occidente, almeno dai tempi dell’Illuminismo, ossia una storia di emancipazione, costante miglioramento. Gli ebrei, sostiene, hanno solo una storia, un’altalena di finta assimilazione e spietata persecuzione, ripetuta sotto ogni impero nel corso dei secoli. Qui, mi sembra, è il punto. Netanyahu, nonostante a parole non creda nella possibilità di una Storia per il popolo ebraico, di fatto la costruisce, adoperandosi per la costruzione di Israele. Il nostro protagonista invece subisce la mentalità americana tutto sommato di buon grado: Blum, come Bloom, è un ebreo per cui l’ascensore sociale americano ha funzionato, e ha motivo di credere, con moderato ottimismo, che negli USA non verrà sterminato, e che la sua storia sarà in effetti un po’ migliore di quella dei suoi predecessori. Cohen, del resto, non si fa problemi a rendere chiara la sua simpatia per il più mitemente liberale, e non certo per il rivoluzionario.

In un’intervista Cohen rende chiaro che la contrapposizione Blum/Netanyahu assomiglia, ai suoi occhi, a quella fra Harold Bloom e Philip Roth. Il primo un fedele e semplice padre di famiglia (nonostante i rumor di condotte sessuali illecite), il secondo una vera e propria star, dalle relazioni amorose chiacchieratissime. L’uno un dedito studioso di libri altrui, l’altro un egocentrico che ha fatto dell’egocentrismo la sua fortuna. Dunque: scegliendo come protagonisti Blum e Netanyahu (padre), Cohen decide di “abbassare” tale conflitto a persone meno note, e al contempo di cambiare il campo di gioco: questi sono storici e non letterati, il materiale teoretico (ce n’è molto, in lunghe divagazioni e nelle discussioni/conferenze tenute dai prof) non riguarda mai la letteratura (una cosa strana, per un libro ispirato da Bloom).

Il che ci porta all’ultimo tassello. La cosa per cui Bloom è famoso è l’angoscia dell’influenza. Cohen, è ovvio, sente di dover lottare con la generazione precedente di scrittori ebrei – senza soccombere del tutto, se possibile. Di premi ne ha già vinti, assieme al favore della critica. Probabilmente non avrà mai il loro stesso successo ma, del resto, non sono più i tempi. Lui scrive benissimo, il romanzo è bello, anche se a metà ne ero un po’ scontento, perché Netanyahu tarda ad arrivare, ed è annunciato da due lunghe lettere il cui tono e la funzione di “spiegone” non mi hanno entusiasmato (a volte Cohen sembra come John Mayer che suona i pezzi dei Grateful Dead: è tecnicamente più bravo, ha studiato in scuole migliori, eppure non può essere al pari dell’originale). Dunque, cosa fa Cohen? Per smarcarsi dai suoi influenti padri letterari, li traveste con i panni della famiglia ebrea più, scusate il termine, controversa degli ultimi decenni. Cosa Cohen pensi dell’operato e delle convinzioni di Benzion Netanyahu, e ancor più di quelle di Benjamin, è reso chiaro nella postfazione. Non ne pensa niente di buono. Allora, sarete d’accordo con me: accostare Roth a Netanyahu, seppure solo schematicamente, è una cattiveria forse eccessiva. Un colpo basso, e non uno smarcamento elegante (ammesso che una cosa del genere sia possibile).

Serviva? Serviva fare un campus novel, un genere così codificato, per di più scritto nello stile di cinquant’anni fa? Probabilmente sì, perché il romanzo è bello. Ma speriamo che sia servito anzitutto a Cohen per far un po’ di pace coi suoi ingombranti predecessori, in modo che possa scrivere qualcosa di nuovo, come ha già dimostrato di saper fare. A giudicare dall’ultima pagina di cui dicevo, sembra che abbia già cominciato.