Ricognizione antropocenica della scrittura collettiva italiana negli anni Zero
L’Antropocene si è ormai imposto come questione inevitabile anche nella letteratura contemporanea. La sfida più urgente posta a chi scrive è la sua rappresentazione: la capacità della letteratura di immaginarlo e narrarlo.
Tuttavia, il fare-letteratura non si esaurisce in un contenitore di temi e ambientazioni; esso pretende che ci si interroghi sulla forma dei testi, nonché sul metodo di composizione degli stessi. Il ragionamento sulla forma richiede un atto situativo: la letteratura si colloca nell’Antropocene, accetta questo posizionamento storico e ne fa derivare una poetica, che potremmo quindi definire antropocenica. Ma fare letteratura antropocenica non significa solo scrivere romanzi ambientati nell’Antropocene: significa necessariamente criticarne le cause materiali e le condizioni culturali. Ne consegue che il concetto che più di tutti debba essere messo in crisi è l’antropocentrismo. Sembrerà paradossale proporre di rendere “meno antropocentrica” una pratica prettamente umana: come può, quindi, la scrittura letteraria porsi di fronte a questa difficoltà?
Abbiamo voluto cogliere e approfondire lo spunto di Meschiari, per cercare il come la scrittura collettiva possa divenire antropocenica: se da un lato è di certo urgente avanzare e tentare l’invenzione di nuovi generi, di nuove combinazioni tematiche e di una nuove responsabilità che ogni autorialità dovrebbe addossarsi, dall’altro si deve riflettere su come queste collettività autoriali operino, dall’ideazione alla scrittura concreta fino alla redazione. In altre parole, ciò che vorremmo aggiungere alla proposta saggistica di Meschiari è una riflessione sulle pratiche collettive letterarie, che avverrà in forma di ricognizione.
Sarebbe impossibile parlare di scritture collettive in Italia senza partire dal gruppo che più di tutti ha influenzato questo discorso: i Wu Ming, già Luther Blissett, nati a Bologna a fine millennio. Nel corso degli anni, il gruppo «firmò pubblicazioni, opere d’arte, performance, trasmissioni radiofoniche, beffe mediatiche, e rivendicò azioni di guerriglia culturale. Ogni nuovo intervento accresceva la reputazione di questo eroe popolare, uno e multiplo»[4]. Questo saltimbanco polifonico rimane a oggi la figura di punta e più nota del panorama italiano di letteratura collettiva, grazie a romanzi come Q (1999), 54 (2002), Altai (2009) e altri. Vista la complessità e la longevità di questo fenomeno letterario, ci concentreremo sul periodo che va dal 1999 al 2009, anni in cui i Wu Ming affinano e definiscono il loro rapporto con la pratica collettiva.
Q peccava infatti di un eccesso di improvvisazione, manifesto in un’aperta riconoscibilità delle diverse mani al lavoro; d’altronde, come ricordano ancora i Wu Ming, il metodo scelto per lavorare ai romanzi prediligeva una netta divisione dei compiti fra i componenti del gruppo: «Un capitolo a testa. Quattro capitoli dunque sono costantemente sotto scrittura parallela, prima della rifusione. […] Il problema, ovvio, è la cucitura»[6]. Proprio sulla cucitura – sul lavoro di revisione, di post-produzione – i Wu Ming si concentreranno nelle opere successive, fino ad affinare il metodo in Altai, seguito spirituale di Q.
Si raggiunge così un paradosso autoriale. Se, da un lato, i Wu Ming ricordano che, di romanzo in romanzo, «gli interventi di gruppo sono stati effettuati in modo molto più invasivo, in modo da generare quanto più possibile uno stile unico»[7]; dall’altro, questo stile unico riporta alla costituzione di un super-individuo autoriale che si è sostituito, prima, agli autori in carne e ossa e, poi, alla collettività stessa. A distanza di vent’anni dagli esordi, i Wu Ming insistono sul raggiungimento di «una voce unica», creata «a partire da persone diverse»[8], come insegnano nel “Laboratorio di scrittura interculturale e meticcia” che Wu Ming 2 tiene annualmente all’Università di Bologna.
Se la questione è trovare nuove risposte collettive all’Antropocene, sorge spontaneo domandarsi: che senso ha la scrittura collettiva se viene ricondotta all’individuale? Ovvero, perché operare collettivamente, se l’obiettivo è ricostituire una voce unica?
Dai genitori passiamo ai figlioli: i Kai Zen nascono da un laboratorio di scrittura collettiva dei Wu Ming all’inizio degli anni 2000. L’esperienza laboratoriale è poi sfociata, nel 2002, nella pubblicazione di Ti chiamerò Russell, il cui metodo di composizione è stato definito «romanzo totale»[9]. Questa etichetta indica un romanzo che si compone di diversi capitoli, ciascuno scritto da unə singolə autorə. Nel caso di Ti chiamerò Russell il primo capitolo è stato scritto dai Wu Ming e lanciato in rete, come input narrativo estendibile da chiunque volesse partecipare. Lə scrittorə hanno inviato di volta in volta le loro proposte, la cui selezione era sottoposta al vaglio critico dei Wu Ming stessi.
La potenza di Eymerich (2005) è la prima effettiva prova collettiva dei Kai Zen fuori dall’egida wuminghiana, riprendendo il personaggio di Valerio Evangelisti (che, pur non avendo collaborato alla narrazione, ha firmato la postfazione al romanzo). Da un lato, si tratta di un passo indietro, specie nella rinuncia all’idea delle finestre narrative potenziali, i capitoli sopravvissuti alla selezione critica; dall’altro, viene superata l’esplicitazione delle individualità scriventi: in Ti chiamerò Russell di ogni capitolo era nota la penna, mentre in La potenza di Eymerich questa è celata e persa nell’anonimato collettivo. Il metodo resta quello del romanzo totale, ma stavolta sono i Kai Zen a operare la funzione curatoriale dell’opera, alla quale infatti partecipano altre autorialità, collettive e non (Emerson Krott, il laboratorio Scripta Volant e Wu Ming 5).
Il metodo del romanzo totale sembra dunque non adattarsi alla scrittura collettiva antropocenica che stiamo cercando. La forma di collettività che si viene a costituire attorno all’opera è ancora un’unione di individui ben definiti: i partecipanti sono ‘collettivi’ solo nella fase di revisione e assemblaggio dei testi, ma non nella pratica scrittoria, che rimane affidata ai singoli membri. Una nota interessante può essere ricercata, semmai, in una proposta avanzata in questi ultimi anni dai Kai Zen sul loro blog. Dal romanzo totale si passa al «romanzo psichico»: «Lo potremmo definire un iperromanzo, ma ci piace pensare che si tratti di un romanzo psichico, di una meditazione narrativa, una pratica (kai) zen per esercitare il decontrollo»[10].
Il romanzo totale viene a frammentarsi, con la proposta di una serie di spunti teorici e narrativi che i Kai Zen mettono a disposizione dellə lettorə del blog. Questə ultimə avranno la libertà di immaginare i propri personali ‘romanzi’ psichici, che prenderanno la forma di riflessioni e meditazioni autonome, afferenti a una collettività aperta e quasi inconscia, non necessariamente rifluenti in una forma scritta univoca. Il principio cardine, per la prima volta, diventa la cessione del controllo autoriale allə singolə lettorə. Nonostante il romanzo psichico non ottenga mai una realizzazione fisica collettiva – ossia, non viene ‘stampato’ un romanzo psichico –, qui è dove i Kai Zen si avvicinano di più a un’idea di scrittura collettiva antropocenica, edificata anzitutto sulla rinuncia al controllo.
Il successivo esempio di cui tratteremo è la sic (Scrittura Industriale Collettiva), fondata da Vanni Santoni e Gregorio Magini nel 2006. L’obiettivo primario prefissato dai due era quello di stabilire un metodo di scrittura collettiva ben definito e replicabile, esplicitamente ispirato ai modelli capitalistici di produzione industriale. La matrice è fordista: «C’è del fordismo in questo sistema: la contingentazione del lavoro, una specie di catena di montaggio creativa»[11]. Per ‘contingentazione’ s’intende la quasi totalità della composizione dei testi, mentre per ‘montaggio’ il lavoro di cucitura affidato al Direttore Artistico. Il Direttore è la figura centrale del metodo sic: costui – sovente nelle persone di Santoni e Magini – è incaricato di scegliere il soggetto della narrazione; elaborare le schede da affidare allə scrittorə, selezionatə tramite bandi lanciati sul blog; e infine montare le schede, una volta completate. Per ‘scheda’ s’intende un foglio di scrittura che può riguardare uno degli elementi del testo, dai personaggi alle scene specifiche. La stesura di questi elementi sarà quindi delegata allə scrittorə – definitə come schiere operaie, vera e propria manodopera letteraria[12] – e successivamente raccolti dal Direttore Artistico per la composizione finale. Lə scrittorə lavorano autonomamente alle schede loro affidate, anzi, sono invitatə a non confrontarsi con lə colleghə distantə, per evitare eventuali contaminazioni e, si presume, la creazione di sindacati.
Nella prospettiva critica fin qui delineata, la prima obiezione possibile sta nel fatto che il metodo sic non approda mai a una forma collettiva. Pur ponendosi nei loro scritti in antitesi a una non troppo definita «scrittura collettiva “classica”»[13], l’alternativa asserve una possibile espressione collettiva, partecipata e ibrida, alla giurisdizione incontestata della direzione artistica. Alcuni dei paragoni addotti dai fondatori rivelano la paradossalità di fondo del metodo: la bottega rinascimentale[14], dove veniva a crearsi un clima d’officina e collaborazione, ma dove altresì le opere portate a compimento recavano un’unica firma, quella del capo bottega; oppure la produzione di un film, in cui il regista assembla secondo la sua visione artistica il lavoro della troupe, riconducendolo alla propria autorialità, e relegando i nomi dei collaboratori ai titoli di coda[15]. Sembra dunque contraddittorio che si definisca ‘collettivo’ un lavoro che nel suo farsi non lo è mai, come essi stessi riconoscono: «In realtà quando si scrive un racconto o un romanzo sic, solo il risultato finale (sia in termini di singola scheda definitiva che di opera finita) trascende l’individualità»[16]. Ma va contestata la coerenza anche di quest’ultima affermazione, poiché nemmeno il risultato è frutto di un lavoro realmente collaborativo, bensì dell’assemblaggio finale compiuto dal Direttore Artistico; il quale, ne consegue, dovrebbe essere infallibile alla maniera del Papa, affinché il metodo possa ritenersi, come auspicano i fondatori, efficiente.
Dalla collettività industriale giungiamo alla collettività antropocenica: partiti da Meschiari ritorniamo a lui, il quale, insieme ad Antonio Vena, ha curato il recente volume Storie della grande estinzione (2020), pubblicato sotto lo pseudonimo “TINA”[18]: nome collettivo che, da un lato, omaggia Tina Michelle Fontaine, «una ragazza nativa del Canada uccisa a 15 anni» e, dall’altro, è un acronimo per la massima thatcheriana “There Is No Alternative”. Il libro è il risultato della call lanciata sul blog «lge – La grande estinzione», che ha portato alla raccolta di un centinaio di ‘micro-romanzi’ sul rapporto fra Antropocene e collasso. Il palinsesto narrativo è quello del Decameron boccacciano, ottimale per ospitare, da un lato, il tema scelto dai due curatori e, dall’altro, una proliferazione di autorə e ambientazioni.
Sebbene, nuovamente, TINA sia il risultato di una somma d’individualità espressive, le cui scritture sono poi sottoposte al vaglio e alla ricombinazione arbitraria delle singolarità curatoriali di Meschiari e Vena, che si pongono, strutturalmente, al di sopra di ogni autorə coinvoltə, vi sono vari aspetti del libro che istituiscono una radicale critica della scrittura individuale borghese[19]. I curatori stabiliscono fin da subito un nesso inscindibile fra narrazione antropocenica e scrittura collettiva: «Queste formulazioni abbiamo voluto incarnarle in qualcosa di più dei romanzi che alcuni di noi scrivono come individui. Volevamo provarle nell’unica dimensione che davvero conta nell’Antropocene: quella collettiva, diffusa come un iperoggetto»[20]. L’individualità viene quindi bollata come limite speculativo, una tendenza retriva che non può comprendere le urgenze della contemporaneità. Questo poiché, «Il romanzo dell’Antropocene è anzitutto un problema di cosmografia (tempo, spazio, ambiente, società, cultura), non di plot, setting o opportunità tematica»[21].
Ragionare di cosmografie richiede uno sforzo collettivo il più ampio possibile: ergo, risulta efficace la decisione d’innestare una strategia di crowdsourcing nella composizione del romanzo. Ciò porta a una forma ibrida e aperta dell’opera, dove le produzioni individuali si affastellano e concatenano in una narrazione spiralica, dove i nessi teorici dei curatori fungono da innesco fra un racconto e l’altro. L’aspetto positivo di questa prossimità e relazionalità dei frammenti – e, di conseguenza, delle individualità coinvolte –, tuttavia, non può non accompagnarsi a uno più critico: ossia, la più volte ribadita centralità funzionale delle figure curatoriali, che marginalizzano in parte il ruolo dei partecipanti.
Ciononostante, il seguito del progetto si è già mosso verso una maggiore ibridazione dei testi e, quindi, delle individualità, come testimonia un recente post sul blog riguardo gli intenti all’origine di TINA 2:
«Il futuro è nelle relazioni. Alcun* hanno proposto di condividere le idee, di scrivere insieme, di trasmutare i testi degli altri. È il momento di farlo. Chi vuole ha la possibilità di entrare nei testi degli altri, affondarci le mani, esplorarne le regioni incognite, approfondirne gli scorci, espanderne le soglie, ibridarne i materiali, glossarne le ambiguità, redigerne lore e manuali, portarne a massa critica gli elementi di base».[22]
Ma l’importanza delle relazioni, e di portare la collaborazione a un livello più profondo e pervasivo, non riguarda ormai soltanto TINA. Infatti, è ciò che tentano di fare anche i Wu Ming in alcuni progetti più recenti, ad esempio quelli multimediali condotti da Wu Ming 1 e 2 sull’impatto locale del cambiamento climatico[23]. Sia queste iniziative dal basso, sia gli intenti futuri promossi con TINA 2, testimoniano un incontro fruttuoso fra temi e metodi, fra teorie e pratiche, della scrittura che si vuole coinvolta e partecipe, in forme collettive, dell’Antropocene.
Giungendo alla chiusura di questa ricognizione, emerge che la risposta all’Antropocene non si risolve in qualsiasi forma di scrittura collettiva, bensì solo in quelle pratiche che la utilizzino come strumento per scardinare il paradigma antropocentrico. Gli esempi più recenti tra quelli indagati sembrano tracciare una direzione fertile, connotata da un afflato transmediale, da un continuo tentativo di contaminare generi e stili tradizionali, ma soprattutto dall’accettazione che è più che mai necessario rinunciare al controllo dell’individualità autoriale. Non pretendiamo di essere stati esaustivi: speriamo invece di poter stimolare la nascita di nuove ricognizioni, che completino il quadro che abbiamo tracciato e arricchiscano il dibattito sulle collettività letterarie.
Illustrazione di Elisa Francioli
[1] M. Meschiari, Antropocene fantastico. Scrivere un altro mondo, Armillaria, Roma 2020.
[2] Ivi, p. 26.
[3] Ibid.
[4] Wu Ming, “Vent’anni dopo”, in Luther Blissett, Q, Einaudi, Torino 2019 (2a ed.), p. V.
[5] G. Casagrande, G. Mozzato, “Intervista a Luther Blisset. Con Q Luther Blisset approda al romanzo”, in Cafè letterario, 6 agosto 1999. [https://www.wuz.it/archivio/cafeletterario.it/interviste/blissett.html]
[6] M. Smargiassi, “Metodo Wu Ming. Scriviamo in quattro come una band”, in La Repubblica, 16 dicembre 2009. [https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2009/12/16/metodo-wuming-scriviamo-in-quattro-come-una.html]
[7] SIC, “SIC intervista Wu Ming”, in SIC Blog, 21 novembre 2009. [https://www.scritturacollettiva.org/blog/sic-intervista-wu-ming]
[8] C. Babini, “Wu Ming 2 e il laboratorio di scrittura interculturale-collettiva meticcia”, in Tracce migranti, 2020. [https://www.nuovetracce.org/scritture-1/wu-ming-2-e-il-laboratorio-di-scrittura-interculturale-collettiva-meticcia]
[9] Wu Ming n+1, Ti chiamerò Russell. Romanzo totale 2002, Bacchilega editore, Imola 2002.
[10] Kai Zen, “Le quindici pietre del giardino zen: un esperimento di romanzo psichico collettivo”, in Kaizenology, aprile 2020.[https://kaizenology.wordpress.com/2020/04/20/le-quindici-pietre-del-giardino-zen-un-esperimento-di-romanzo-psichico-collettivo/]
[11] F. Paloscia, “Un romanzo, 115 autori. «Così raccontiamo la resistenza»”, in La Repubblica, 10 aprile 2013. [https://firenze.repubblica.it/cronaca/2013/04/10/news/un_romanzo_115_autori_cos_raccontiamo_la_resistenza-56346907/]
[12] G. Magini, La Scrittura Industriale Collettiva, p. 55 (Tesi di laurea, Università degli Studi di Firenze). [http://www.scritturacollettiva.org/files/tesi_sic_magini.pdf]
[13] G. Magini, V. Santoni, “Solve et coagula. La funzione autoriale nell’epoca della sua riproducibilità telematica”, in SIC Blog, 23 ottobre 2009. [http://www.scritturacollettiva.org/blog/files/Solve%20et%20coagula.pdf]
[14] D. De Marco, “SIC, l’unione fa l’autore”, in Giudizio Universale, 16 aprile 2013. [http://www.giudiziouniversale.it/articolo/libri/sic-lunione-fa-lautore]
[15] Ibid.: «Grande rilievo quindi ha il compositore: proprio come gli attori che recitano nelle varie scene di un film possono non avere idea del risultato finale, così qui molto dipende da come il materiale grezzo viene non solo selezionato, ma anche costruito, montato, spostato… Sì, la funzione del compositore è simile alla combinazione di regista e montatore nel cinema».
[16] S. D’agostino, “SIC e In Territorio Nemico”, in Finzioni, 16 aprile 2013. [https://www.finzionimagazine.it/news/approfondimento-news/sic-e-in-territorio-]
[17] sarmigezetusa (V. Santoni), “SIE (Sic Italian Epic?)”, in SIC Blog, 1 maggio 2008. [https://www.scritturacollettiva.org/blog/sie-sic-italian-epic]
[18] Tina, Storie della grande estinzione, Aguaplano, Perugia 2020.
[19] A. Ghosh, La grande cecità. Il cambiamento climatico e l’impensabile, Neri Pozza, Vicenza 2017.
[20] Qui, gli autori si riferiscono alla nozione di iperoggetto coniata dal filosofo ingleseTimothy Morton (cfr. T. Morton, Iperoggetti, Nero, Roma 2018.). M. Meschiari, A. Vena, “Una fine e un inizio – TINA AD x Aguaplano”, in La Grande Estinzione, 24 febbraio 2020. [https://lagrandestinzione.com/2020/02/24/una-fine-e-un-inizio-tina-ad-x-aguaplano/]
[21] Tina, Storie della grande estinzione, Aguaplano, Perugia 2020, p. 407.
[22] Kyron, “TINA 2 – Call mash up”, in La Grande Estinzione, 8 settembre 2021. [https://lagrandestinzione.com/2021/09/08/tina2-call-mash-up/]
[23] Wu Ming, “Raccontare il cambiamento climatico: Blues per le terre nuove, un progetto narrativo-geografico di Wu Ming 1”, in GIAP, 5 marzo 2018. [https://www.wumingfoundation.com/giap/2018/03/blues-per-le-terre-nuove/]
