L’acqua del lago non è mai immobile

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L’acqua del lago non è mai dolce, pubblicato da Bompiani il 13 gennaio e recentemente candidato al Premio Strega 2021, ha un incipit fulminante.

«Tutte le vite iniziano con una donna e così anche la mia, una donna con i capelli rossi che entra in una stanza e ha addosso un completo di lino, l’ha tirato fuori dall’armadio per l’occasione, se l’è comprato al banco di Porta Portese, il banco buono dei vestiti di marca ribassati, non quelli da poche lire, ma quelli con sopra il cartello: PREZZI VARI».

Informa da subito su quali siano gli elementi universali attorno cui è costruito il libro, così chi inizia la lettura sa cosa lo attende. Questa è la storia di un rapporto madre-figlia, di lotta, di rivalsa, ma soprattutto è la storia di chi narra.

l'acqua del lago

È forse questo l’aspetto che più ha stimolato la nostra curiosità, la costruzione di una voce narrante che, in prima persona, guarda, osserva e giudica. Seguendo la trama si è legittimati a credere che questo sia un romanzo di formazione, ma così non è. La protagonista proviene da una famiglia con gravi difficoltà economiche, che lottando per aggiudicarsi una casa popolare si trasferisce da Roma ad Anguillara Sabazia, sulle rive del lago di Bracciano. La storia segue la sua vita partendo dall’infanzia, passando per l’adolescenza e arrivando poi agli anni dopo la laurea, descrivendo le battaglie combattute a scuola come in famiglia, le amicizie strette e poi bruciate nel corso del tempo e l’ambiente in cui si trova a vivere, l’hinterland romano e la grande città. Eppure del viaggio di formazione sembra mancare l’effettivo sviluppo, l’evoluzione che i personaggi sperimentano attraversando crisi e riti di passaggio.

In quello che si rivela essere piuttosto un romanzo generazionale (l’autrice è nata alla fine degli anni ’80, così anche il suo personaggio) abbiamo riscontrato una dicotomia di fondo, tra la mobilità accelerata di un mondo in continuo sviluppo, quello degli anni ’90 e dei primi 2000, che circonda la narratrice e la sua famiglia, e l’immobilità che, invece, sembra irrigidirle la mente e le gambe. L’azione si stabilisce in un eterno presente e all’interno di uno spazio che, pur modificandosi storicamente e urbanisticamente, viene descritto come immutato. La voce che narra sfugge al tempo e, racchiusa in una bolla di vendette, rancori e progetti tutti individuali e privati, resiste granitica ai grandi eventi politici di massa, così come agli intimi dolori personali.

Abbiamo perciò deciso di porre alcune domande a Giulia Caminito riguardo questa dicotomia, declinandola dal punto di vista narrativo e linguistico, socio-geografico e temporale.

«Quello che ho fatto per anni è stato rimanere dove ero, stesso posto, stessa ora, stesso ruolo, stessa faccia, ad attendere i miei diciotto anni come s’aspetta una profezia, l’arrivo di una tempesta, il crollo di un muro».

La voce di Gaia accompagna il lettore attraverso alcune tappe che appaiono ineludibili nella formazione di questa generazione, eppure la protagonista sembra condannata a un certo immobilismo. La seguiamo mentre rimane in attesa di una rivoluzione, o di un riconoscimento, tentando di soddisfare le pretese della madre – che per lei desidera un riscatto sociale attraverso lo studio –, di combattere i pregiudizi imposti dal suo stato sociale, a osservare il semplice susseguirsi degli eventi. È difficile rintracciare momenti di reale crescita ed evoluzione, l’agire di Gaia sembra avvenire sempre in risposta a sfide lanciate da altri. Qual è – se c’è – il rapporto con il più classico “romanzo di formazione”?

L’immobilità è un tema del romanzo, sicuramente. A partire dalla scelta del lago come fonte d’acqua e di vita nel libro, l’idea è quella di raccontare una superficie chiusa, un orizzonte riconoscibile, un perimetro circoscritto dentro cui si agita la voglia di cambiamento e di ascensione della protagonista. Molta della nostra idea di formazione è infatti proiezione verticale, movimento verso l’alto. Più saprai rispondere alle difficoltà della vita, più studierai, più sarai adatto, più salirai e in alto troverai qualcosa di buono: un premio, l’agio, la salvezza. L’idea di progresso credo governi da tempo non solo la nostra idea di Storia e di Società, ma anche nel nostro piccolo l’esistenza singola, che deve tendere al miglioramento. Almeno questo è quello che Gaia immagina per sé stessa: il compiersi di inaspettate opportunità. Se Un giorno verrà(Bompiani 2019) per me era un romanzo di formazione, soprattutto politica, L’acqua del lago non è mai dolce è quello della formazione mancata, delle sabbie mobili, che più ti muovi per emergere più ti inghiottono.

La scelta di narrare al presente attraverso una prima persona, come hai dichiarato, è motivata dal voler privare il romanzo di una prospettiva teleologica: non c’è un traguardo su cui Gaia siede e da cui guarda il proprio passato, tutto viene raccontato nel momento in cui accade. Quali sono i maggiori ostacoli con cui ti sei dovuta confrontare utilizzando una voce narrante di questo tipo?

Il problema principale è stato trovare una voce adatta e continuativa, credibile e riconoscibile, cosa su cui ho lavorato molto ma che di sicuro è perfettibile e ancora in fieri nel mio percorso personale. Mi veniva naturale all’inizio scrivere al passato, facevo proprio fatica a mettermi in un’altra posizione temporale. Ma ho imparato, lavorando sugli altri due romanzi precedenti, che la scelta del tempo è una scelta cardine, intorno a cui ruotano sia il senso del romanzo che la sua leggibilità. Io mi ero sempre confrontata con lo spostamento tra passato e futuro, tra anticipazioni e momenti appena trascorsi, qui invece ho eliminato la proiezione in avanti, del tutto. Non c’è infatti un punto di arrivo da cui la narratrice ci racconta il suo passato, ma una presa diretta narrativa. C’è questo presente immobile, in cui lei si dibatte.

Gaia conserva in sé una doppia anima: passa da un rapporto viscerale con la parola a una fisicità estrema e violenta, che si mostra (sempre o quasi) ultima risposta possibile quando la verbalizzazione appare inutile. Questa diramazione trova un punto d’incontro preciso: la scena di grande impatto in cui Gaia distrugge il suo vocabolario, simbolo di riscatto promesso e poi negato dalle contingenze di un’epoca. 

«Poi lo vedo, è dritto e robusto, il mio dizionario, se ne sta lì placido, non teme giudizi o cattiverie, allora lo assalto, perché è stato lui il primo a mentirmi, a farmi credere che con le parole avrei cambiato la mia vita, l’avrei riscritta, narrata in prima persona e invece no, sono sempre gli altri a raccontarci, sono loro che trovano le nostre definizioni, le nostre parentesi quadre, le radici da cui proveniamo»

La protagonista non usa più le parole come arma ma finisce per subirle. Com’è avvenuto questo tradimento, nel romanzo e nella realtà?

Il romanzo gioca da una parte sulla incapacità di Gaia di reagire a parole, ogni volta lei dice «vorrei gridare», «vorrei farmi sentire», «vorrei rispondere» ma non lo fa; dall’altra queste parole la abitano, le colleziona da quando è bambina, le condivide segretamente con il lettore e la lettrice, le sfrutta per autonarrarsi, tagliare come meglio crede la realtà. Le parole sono quindi la sua arma e il suo modo di ferire il mondo, ma da queste viene anche colpita perché ha riposto molta fiducia nella possibilità che lo studio e la lettura la aiutassero nei suoi tentativi di rivalsa e la allontanassero dalle indigenze di famiglia, cosa che non succede. Dal mio punto di vista, quello della mia realtà, le parole sono l’unica cosa che non può tradire, io le sento profondamente fedeli, le uniche con cui posso confrontarmi, posso sceglierle, accorparle, disturbarle anche ma cerco sempre di studiarle prima e rispettarle, corteggiarle un po’.

Da una parte la parabola fuori dal tempo di Gaia si innesta in una geografia della provincia in cui il cambiamento ha prodotto – e sta producendo – una complessa stratificazione. L’etnografia lirica di alcuni passi del libro narra l’hinterland romano, ne mostra l’invasione a opera di diversi soggetti sociali, di cui espone il «grado di estraneità». Allo stesso tempo – diversa ma strettamente collegata –, c’è la materializzazione di uno spazio nuovo, un’estensione del paese (o della città?) ancora senza un nome e difficile da definire. 

«[…] il paese si sta allungando verso l’interno e riempiendo di villette a schiera, parcheggi blu, benzinai, supermercati, scuole pubbliche e palestre, quelli di Roma si stanno mescolando a chi è nato lì e questo impasto crea dissapori, inquietudini, apprensioni».

La relazione tra la stratificazione-spazio nuovo e la realtà del paese (che necessita soprannomi/definizioni tramandate) crea un cortocircuito, o almeno lo creava quando Gaia si preparava a iniziare le medie. Pensi che questo nuovo luogo, con i suoi eterogenei abitanti, sia stato finalmente battezzato o forse non ne ha mai avuto bisogno?

Io ho sempre vissuto in quella lingua protesa che non è totalmente provincia e non è totalmente città. L’hinterland romano, almeno dalla parte nord, è composto da molti paesi e borghi storici di piccole dimensioni che coesistono sul bordo frastagliato di una città enorme, tra le più grandi d’Europa che non ha altri paragoni in Italia. Roma dentro il suo Comune ha almeno altre dieci “città” e anche le cittadine che si trovano ai suoi confini fanno parte del suo mondo, ne sono attratte: Roma esercita su di loro una forza magnetica. Ovviamente se da una parte questi posti si sono riempiti di romani in fuga dai costi e dal caos della metropoli, dall’altra le famiglie originarie cercano di tenere sempre viva l’identità specifica del proprio borgo tramite la nominazione misteriosa dei luoghi, le feste annuali come le sagre, il rapporto con qualcosa che Roma non potrà mai avere: il lago. Ecco, io non so se prima o poi Roma mangerà questi paesini che vivono alle sue soglie, però certo quella provincia lì credo sia molto diversa da tanta provincia del resto d’Italia. Io è così che mi sono sempre sentita per tutta l’adolescenza: a una fermata di treno da Roma. E volevo provare a raccontarlo.

C’è qualche autore che ti ha aiutata a definire l’hinterland in cui vive la protagonista?

È un tema molto trattato dalla nostra narrativa quello delle province o le estreme periferie, però no, per questo aspetto non mi viene in mente nessun libro in particolare.

«Noi non abbiamo i cellulari, non abbiamo la televisione, non abbiamo un computer, noi senza mezzi, senza possibilità di comunicazione, chiusi nel passato di un mondo che sta correndo al galoppo, ci sorpassa, ci schiaccia sotto i suoi zoccoli».

Questo passaggio sembra descrivere un aspetto sotterraneo del dislivello economico sperimentato dalla protagonista, e rappresentato a più riprese nel corso delle pagine: più che un separatore sociale, infatti, nel tuo romanzo l’indigenza viene rappresentata come un separatore temporale. Gaia, per mezzo del suo apprendimento forsennato, appare intenzionata ad accelerare il tempo per raggiungere le vite del presente, condannando invece sé stessa a un movimento solo apparente, che conduce all’esaurimento e all’incendio del proprio intelletto. Esiste un momento, nel romanzo, in cui questo percorso avrebbe potuto prendere una piega differente? E Gaia, nel mondo contemporaneo, ha alternative valide a questa corsa febbrile?

Credo ci siano sempre alternative, il percorso della vita di Gaia è legato al mondo in cui cresce ma anche alle sue scelte, e lei ne fa di parecchio azzardate. Avrebbe potuto evitare per esempio di aiutare un gruppo di ragazzi a derubare il suo ex fidanzato pur di farsi regalare un cellulare, avrebbe potuto scegliere una facoltà diversa da quella di filosofia, avrebbe potuto smettere di essere gelosa delle sue amiche e solo godersele, avrebbe potuto ambire a una carriera più fattibile per lei come quella da insegnante, ma non lo ha fatto, perché difficilmente noi lo facciamo, sappiamo scegliere esattamente il meglio per noi e sappiamo, mentre siamo immersi nelle nostre decisioni, capire che cosa ci attende. Lei è una ragazzina, in fondo, e vorrebbe il meglio pur agendo spesso nel peggiore dei modi. Se devo scegliere un momento, quello che cambia le sue sorti, è la scena della racchetta, il primo atto violento che lei compie, l’aggressione al suo compagno di classe delle medie, che la fa sentire per la prima volta rispettata, autosufficiente, presente nel mondo. Un gesto rituale per lei, che continuerà a compiere ogni volta che questo scatenamento di rabbia le sembrerà opportuno, un po’ una fondazione della persona che diventerà.

Su Domani hai recentemente pubblicato un dossier che analizza dati su candidature, vincitori e vincitrici, giuria del Premio Strega, segnalando numerose disparità sulla presenza delle donne. In un’intervista sul tema, hai affermato che: «La constatazione attuale è, ahimè, che tanti bei libri di scrittrici, che sono anche passate per il Premio, sono da tempo introvabili e non vengono neanche più nominati, oltre che non ripubblicati. L’assenza di nominazione, la scomparsa dalle librerie e la totale indifferenza dei programmi scolastici rischiano di lasciare un vuoto pericoloso nella storia della letteratura». Da quali premesse deve partire, secondo te, quest’opera di recupero? Esistono case editrici che stanno attualmente lavorando in tal senso? 

C’è fermento secondo me, su vari fronti. Intanto quello scolastico perché molte insegnanti stanno smuovendo la questione dei programmi ministeriali e chiedendo ascolto sulla loro revisione o integrazione a favore di una presenza delle donne decisamente più marcata. Le studiose e gli studiosi continuano il prezioso lavoro di conservazione della memoria delle scrittrici, penso alla Società italiana delle Letterate. Poi editorialmente parlando sono nate riviste, collettivi, gruppi di studio, ci sono stati incontri, tavole rotonde, seminari; la forza c’è e le conoscenze pure. All’estero spesso nei corsi di italianistica si sta optando per l’inclusione delle scrittrici dimenticate nei programmi, anche più che negli atenei italiani. Vanno avanti le raccolte dati, a cui abbiamo partecipato anche io e Giorgia Tolfo con il dossier pubblicato su Domani, che servono per una mappatura più chiara e condivisa. I podcast, che hanno ricevuto molta attenzione in questo anno, anche testimoniano interesse per la riscoperta delle scrittrici, ve ne segnalo due Misconosciute e Phenomena. Il dibattito è ormai aperto e in molti e molte ascoltano, bisognerà non mollare la presa e continuare a fare rete comune per portare avanti progetti, ricerche e anche concreti cambiamenti. Tra gli editori penso a Cliquot, Elliot, Effequ, Safarà, Rina edizioni, Iacobelli, Reader for blind che inaugurerà una nuova collana “Le polveri” in cui ci saranno molte scrittrici. Anche i grandi editori non mancano, basti pensare alla recente pubblicazione di Paola Masino da parte di Feltrinelli o l’edizione Mondadori di tutte le poesie di Ada Negri.