Da una stanza vuota dell’ospedale di Poissy, nella periferia nord-ovest di Parigi, Anne Pauly raccoglie gli oggetti del padre. La morte ha messo fine al dolore dell’uomo, ma ha innescato nella figlia una frenesia del ricordo, che si manifesta in due modi: nell’accumulazione compulsiva e nella scrittura di Prima che mi sfugga.
Come dichiara in un’intervista la stessa Pauly, il libro deriva senza dubbio dall’elaborazione di quel lutto, ma risponde anche a una vocazione per la scrittura creativa che non aveva ancora trovato forma. Un esordio notevole, considerando che Avant que j’oublie (titolo originale) esce nel 2019 e si aggiudica numerosi premi l’anno successivo, tra i quali il Prix du Livre Inter 2020. In Italia è stato pubblicato di recente da L’orma editore, nella collana Kreuzville, dedicata alla letteratura contemporanea francese e tedesca.
Il catalogo della casa editrice, tra l’altro, può vantare il nome di Annie Ernaux, modello di riferimento per la stessa Anne Pauly, non tanto per l’amore filiale e l’andamento narrativo fondato sul ricordo de Gli Anni, ma piuttosto – come ha detto sempre a Diacritik – per la critica sociale al proprio ambiente d’origine che attraversa tutta la sua opera.
Ma lasciamo da parte questo tema ancora per qualche paragrafo e concentriamoci sull’andamento narrativo del racconto. L’autobiografia (o, forse meglio, l’autofiction) comincia subito dopo che il corpo di Jean-Pierre Pauly è stato trasferito all’obitorio e prosegue parallelamente su tre assi temporali: il presente, in cui lei e suo fratello devono occuparsi di organizzare il funerale e di svuotare la casa paterna; il passato recente, segnato dalla malattia che degenera fino al ricovero in ospedale; il passato più lontano, quello scomodo, perché rievoca l’alcolismo, la violenza e la depressione del genitore.
Quando la narratrice, che ormai ha una sua vita a Parigi, è costretta a tornare nell’ambiente in cui è cresciuta, il risultato, piuttosto che essere tragico come lo è, ad esempio, per il protagonista di Juste la fin du monde di Xavier Dolan, è invece bizzarro, spesso esilarante, come quelle commedie francesi in cui il protagonista guarda in camera e, con sguardo complice, palesa allo spettatore ciò che tutti sanno ma è sconveniente manifestare.
Anne descrive le seccanti faccende burocratiche che lei e suo fratello devono assolvere con toni tragicomici: dall’acquisto della bara fino al colloquio col parroco per concordare la funzione, nella mente dell’autrice si affacciano scenari improbabili. Il massimo del surrealismo viene raggiunto al momento delle condoglianze, quando chiunque promette di fare qualsiasi cosa pur di consolarla, e lei immagina di alzare la cornetta e dire:
«Ciao, ti disturbo? Ti telefono perché avrei bisogno che tu andassi a lavorare al posto mio per un mesetto, giusto il tempo di riprendermi, sì, a Issy-lesMoulineaux, nine to five senza ferie né permessi, retribuzione in diritto d’autore, vedrai, la capa ha quasi sempre la luna storta ma è una tipa sveglia» «Buonasera, senti, non so proprio come dire a mio fratello che deve lasciare a entrambi un po’ di spazio per essere tristi invece di occuparlo tutto con il suo corpaccione infiammabile e la sua inestinguibile frustrazione, ti secca parlarci tu?» […] «Buonasera, ti chiamo perché devo capire cosa fare della mia vita e che direzione prendere d’ora in poi per essere degna di ciò che mi hanno lasciato senza però perdermi su una strada che non è la mia per un senso di fedeltà nei confronti di un passato che, in fondo, mi schiaccia. Hai qualche idea? No? Ok, pazienza, me la caverò».
L’ironia per Pauly è lo strumento che mette a nudo la vacuità dei luoghi comuni, ma è anche la difesa mordace contro la rassegnazione.
Ecco che sotto quel sorriso smaliziato comincia a riemergere un’esigenza fortissima e dolorosa: tornare sui fatti passati per riscriverne la narrazione, per conciliare l’immagine di un uomo che poteva essere sia colto e sagace che inabile alla vita, per evitare che i suoi conoscenti finiscano per ricordarlo solo come un ubriacone pericoloso o, peggio, per non ricordarlo affatto. Una volta che Pauly riabilita per sé la relazione col padre, alimentata da una certa complicità e dal comune senso dell’umorismo, rimane l’esigenza di una redenzione che venga dall’esterno.
Per questo, dopo la funzione funebre, le linee temporali si congiungono e il tono si fa nostalgico, dolce e malinconico.
Per tutto il tempo che corre dalla morte del padre al funerale, Anne si è affannata alla ricerca di qualcuno che avesse un aneddoto o anche solo un pensiero luminoso, per rischiarare i lati positivi di una vita con molte ombre, come temesse di portare solo lei il fardello della verità.
Poi è comparso un nome, con un numero, conservato nei cassetti della sua vecchia casa: Juliette.
Amica d’infanzia del padre, la donna custodisce il ricordo nitido di ciò che era stato Jean-Pierre prima che la vita adulta lo abbrutisse: «un uomo giusto, sensibile, contemplativo, silenzioso, che se ti ammetteva nella sua bolla abbassava tutte le difese, un orco timido a cui era capitato, un tempo, di essere un ragazzo innamorato, di odiare la scuola e di giocare al piccolo Huckleberry Finn davanti ai fuochi da campo, la sera, in riva al fiume».
Quello che da prima era solo un sentore, pian piano diventa conferma: suo padre era in nuce un uomo buono, capace di amore e premura, solo che nell’età adulta le sue qualità erano state inquinate dalla vita nella banlieue parigina e da un matrimonio infelice.
Così Jean-Pierre Pauly, piuttosto che un fallito, per la figlia diventa un sovversivo, un punk ante litteram che ha pagato con l’alcolismo e la perdita di un arto il fatto di non essersi integrato nel sistema.
La critica sociale è evidente ma non è mai didascalica; piuttosto traspare dalle rapide descrizioni d’ambiente e dall’incontro con alcuni personaggi della periferia con cui Anne deve interagire, una volta tornata a Poissy, come l’anziano parroco di provincia.
«”No, caro padre, sono una lesbicona nullipara perché il patriarcato mi impedisce di mettere su famiglia con chi mi pare”» è la risposta che Anne vorrebbe dargli alla classica domanda sui figli.
La militanza nel movimento LGBTQIA+ di Anne (sia nel racconto che nella realtà) e il ritratto di una famiglia scomposta, disfunzionale, sono due elementi che, se correlati, rivelano come l’intento della scrittrice sia quello di evidenziare i limiti del modello di famiglia tradizionale, oltre che una più generale rivendicazione dei diritti sociali.
Con il piglio onfalocentrico tipico del romano che va a Barcellona, fa un aperitivo a Poble Sec e dice «Ah, vabbè, ma stamo a San Lorenzo!», anche io ho pensato di Pauly: «tratta in modo ironico di fatti familiari rovinosi, sarà la Veronica Raimo francese». E in effetti la scrittura tagliente, a tratti caustica, la propensione per i dettagli bassi, fisiologici è comune in entrambe le autoficion e così, per convalidare questa mia suggestione (dovuta anche alla lettura ravvicinata) ho tentato di ricondurre queste analogie a una matrice generazionale: entrambe nate negli anni Settanta, hanno vissuto alla periferia di una grande città europea, consumando più cibo in scatola del dovuto e leggendo tanto Philip Roth.
Pauly però non raggiunge mai le vette di cinismo toccate in Niente di vero, anzi ogni tanto si lascia andare a momenti riflessivi, quasi malinconici, in cui traspare ben chiaro l’intento terapeutico della scrittura.
Anne Pauly costruisce il mausoleo di un padre depresso e assente, ma non conosce rabbia (a differenza del fratello), perché sente di somigliargli intimamente, e condannarlo equivarrebbe a non perdonare sé stessa.
La morte di un genitore mette chiunque davanti a una considerazione tanto scomoda quanto inevitabile: ognuno di noi eredita tratti della personalità che vorrebbe cancellare, o quantomeno mitigare, ma che riemergono con forza. Per fare in modo che non tornino su in un rigurgito soffocante l’unica soluzione è accettarli. Un padre manchevole può generare astio, frustrazione, fino all’indifferenza, ma non è così che Pauly figlia mette a tacere il proprio conflitto con Pauly padre. La sua personale versione di amore filiale coincide col restituire dignità a un “orco timido”, mago delle parole crociate e appassionato di filosofia orientale, con l’ammissione delle proprie colpe e col perdono di quelle altrui.
Prima che mi sfugga indaga il rapporto tra una generazione di padri inadeguati e di figlie precarie e offre un antidoto alla morte, che decompone lentamente i corpi e fa nascere in noi la paura della scomparsa del ricordo.
Sarda ma smembrata in più città. La sua fortuna? La didattica a distanza. Nel tempo libero compila file Excel e compone script sconclusionati per una nota casa editrice scolastica. Alla perenne ricerca di un baricentro, che poi si sa: quando il baricentro è fuori, il corpo non si tiene in piedi. Sempre disponibile per bere.