Quest’anno mi è capitato di passare molto tempo da solo in casa. Non saprei dirvi se fosse a causa dell’isolamento, o semplicemente perché non sopportavo il silenzio (la strada sotto le mie finestre era decisamente meno rumorosa), ma, di fatto, ho cominciato a riempire compulsivamente la casa di voci umane. Voci che solo raramente provenivano da chiamate telefoniche, e molto più spesso da podcast o video di ogni sorta, il che mi fa pensare che la mia, seppur solitudine, non fosse tanto una mancanza delle persone care, ma un bisogno molto più primitivo di essere intrattenuto per non rimanere solo con me stesso.
Pochi anni fa per questa necessaria rottura del silenzio, non essendo mai stato avvezzo all’uso della radio, se non alla guida, mi sarei affidato del tutto a un televisore. Per questo mi è stato facile empatizzare con il protagonista di Sangue di Giuda, il romanzo d’esordio di Graziano Gala edito da minimum fax, a cui il televisore «se l’hann arrubbato». Questo furto, un po’ come quello del tappeto di lebowskyana memoria, inaugura la storia. Giuda, che ne è l’eroe, il suo vero nome neanche se lo ricorda. Vive a Merulana (il riferimento non è troppo sottile), un fittizio paese del Sud, forse non molto lontano da Napoli visto che tutti (ma non lui) tifano una squadra di calcio chiamata la Vesuviana. La voce televisiva, preferibilmente quella di Pippo Baudo, gli serve per tenere a bada il fantasma del padre che ancora infesta la sua casa: deve essere successo qualcosa di molto brutto quando Giuda era solo un bambino, un evento che da allora lo assilla, rendendolo agli occhi esterni il pazzo del paese. Quando lo incontriamo noi, Giuda si trova nel cosiddetto autunno della vita: ha una figlia che non lo tollera, non gli fa vedere i nipotini e gli azzotta la pensione. Sua moglie non la vede più da anni, anche se non sappiamo bene perché, ma continua ad amarla e indirizzarle lettere. Insomma Giuda è rimasto pressoché solo, fatta eccezione per un certo vicino di casa poeta americano e, soprattutto, il gatto Ammonio, che piscia ovunque (Graziano, ho apprezzato molto questo tuo libro, e cercherò di dimostrarlo nel resto dell’articolo, ma lasciami dire che ‘sto gatto piscia veramente troppo spesso). C’è poi un candidato sindaco alle elezioni imminenti, tale Mammoni, patron della Vesuviana Calcio che compie affari piuttosto loschi. Giuda dovrà combattere contro le malefatte dei suoi scagnozzi, risolvere i suoi problemi con un moderno 32 pollici, e soprattutto, come si dice, dovrà fare i conti con il suo passato (anche se Giuda criticherebbe questo mio ricorso al luogo comune: «’U passato, Saverio, è fatto, è ‘u futuru chillu ca s’ha da fare. Amm aggiustato ‘o televisore, riparamm puru ‘u restu»).
Ma c’è un elefante nella stanza di questa recensione, e parla in dialetto. Infatti finora ho omesso di dirvi che ciò che più di tutto caratterizza Sangue di Giuda è che è scritto interamente nella lingua del suo protagonista narrante, un misto di napoletano e pugliese, colorato ma sempre comprensibile e scorrevole (davvero, non lasciate che questo vi scoraggi). È una voce bellissima, che ha un ruolo fondamentale nello stabilire il tono della narrazione in cui l’umorismo si lega alla malinconia. Una lingua umile che pur riuscendo a essere alle volte spaventosamente lucida, non giunge a quel cinismo sprezzante e freddo che invece appare quasi inevitabile nella lingua nazionale («Prendo una di quelle strade ca ‘a mattina è tutta cristiani e ‘a notte tutta topi. Li scanso, mi faccio piccolo piccolo e procedo al posto stabilito ca ‘ccà, se non fai te, Dio non interviene e pure Sant’Andò, pe’ la cronaca, s’è dato latitante», oppure: «A Merulana infatti nun face cchiù né cautu né friddu: accà è tuttu nu clima elettorale»). Un italiano standard, zeppo di frasi fatte, entra nelle orecchie di Giuda perché è impiegato dai pochi alleati che gli sono a fianco nelle sue avventure, un commissario di polizia e una sciop assistant («Mi districo, direbbe Monia», «lo vedo proprio provato, per usare na parola sua», oppure «’O Commissario li chiama corsi e ricorsi storici»), mentre sembra che il paese intero, che condivide con lui il dialetto, sia unito nel considerarlo, per l’appunto, un traditore, e non gli serbi alcuna gentilezza. Il rapporto con il vicino poeta anglofono e un po’ ubriacone, chiamato Ferlinghetti (un nome d’arte, o forse nel multiverso di Gala il poeta beat si è trasferito in Campania?), è invece l’occasione per ragionare sulla lingua («Sorrido pure io, che se la lingua è barriera almeno ‘e risate saranno universali», oppure: «“Grazie Ferlinghè”, ci dico. Don uorri risponde, e puru pe’ stasira, Felinghè, amm capitu nu cazzu ma simm riusciti lo stesso»). La voce di Giuda mi è stata così simpatica che avrei voluto conoscere molto di più riguardo la sua storia, e capire come sia finito al punto in cui lo abbiamo trovato (banalmente, che lavoro abbia fatto tutta la vita). Al confronto gli affari loschi che circondano il paese mi sono sembrati meno interessanti, un po’ grotteschi nel tentativo di compiere una satira della semi-provincia del Sud, forse un po’ stereotipata. Ma poi sono arrivate le ultime pagine, e soprattutto l’ultimissima, che mi convincono a metter da parte le critiche, e a consigliarvi senz’altro di leggere Sangue di Giuda.
Vive a Roma ma non dimentica le sue origini avellinesi. È un avido lettore di Cesarea Tinajero. Non appena ha tempo, si dedica alla sua passione: il birdwatching.