«La scrittura è frutto della memoria più che dell’immaginazione», dice Rodrigo Hasbún, edito presso SUR col suo nuovissimo Gli anni invisibili, in Italia dallo scorso giugno. La memoria, si sa, è spesso un tiranno che vincola al passato e a dettagli che impediscono una riconciliazione con il mondo dell’irrisolto, un concetto che Cervantes aveva bene in mente nelle parole di Don Chisciotte: «¡Oh memoria, enemiga mortal de mi descanso!». Questa «nemica che impedisce il riposo» è per Hasbún il pretesto per una doppia storia, la cui prima parte inizia nella città di Cochabamba, in Bolivia.
Qui si presenta subito al lettore un’alta borghesia che fa a patti con compromessi impensabili. C’è Andrea, una giovane ragazza benestante che rimane incinta di Humbertito, c’è Ladislao, che ha i suoi primi rapporti sessuali con Joan, la prof d’inglese venuta dagli Stati Uniti, e ci sono Julián, Andrade e gli altri ragazzi della scuola, un gruppo di liceali alle prese con vicissitudini che saranno ricordate vent’anni dopo.
Dalla Bolivia al Texas, due degli adolescenti ormai adulti si rivedono in un bar di Houston, ma tutto ciò che è rimasto nell’indistinto di quegli anni, tra l’invisibile e l’opaco, necessita di essere riletto dall’interno di crepe che affiorano di continuo. Hasbún narra di un passato vissuto dagli stessi personaggi e da questi dimenticato o frammentato, una terra divenuta straniera nel presente. Vent’anni dopo, siamo in quella stessa terra, ma selvaggia e adulta. «Ciò che abbiamo non è Cochabamba e ormai abbiamo quasi quarant’anni, l’età in cui la maggior parte delle persone si guarda indietro e scopre che avrebbe potuto fare tutto meglio, che il gioco era già serio allora».
Hasbún crea fin dall’inizio un’impressione di autenticità. La prima parte del romanzo è scritta, in realtà, da uno dei due ragazzi che si ritrovano a Houston, una sorta di meta-autore. L’incipit ha come protagonisti Ladislao e Joan, ma Ladislao e Joan non sono mai esistiti, o meglio, sì, ma con altri nomi e altre voci, come Andrea, i suoi genitori e tutti gli altri, che l’autore di questo romanzo nel romanzo cerca di ricostruire affidandosi all’indefinitezza della memoria, fino all’avvento di qualcosa che cambierà le loro vite per sempre.
Non è una memoria in cui rifugiarsi per consolazione, sono ricordi su quanto di inesatto ci sia ancora nel presente, sulle letture dei ricordi fatte anni dopo e le interpretazioni che ne conseguono. La memoria è uno strumento fallace, non è affidabile, la si può modificare per volontà o per intercessione di sensazioni esterne, un rapporto di falsità che il lettore legge come verità nella prima parte del romanzo; i personaggi di Hasbún sono prodotti semi-completi con un’identità a metà tra ciò che si vuole ricostruire e l’incapacità di poterlo fare con accuratezza. «Se fosse per me gli esseri umani non dovrebbero avere memoria. Il passato è un peso inutile, magari potessimo metterlo da parte, magari potessimo almeno decidere quali ricordi conservare e quali no. I ricordi felici e i ricordi infelici sono ugualmente ingombranti».
Le circostanze e le decisioni che vengono prese sono interdipendenti, ma si basano anche su quello che saremmo potuti diventare se avessimo seguito le regole del gioco, prima di interrogarci a quarant’anni su cosa sarebbe potuto essere se. Per Hasbún la vita si biforca in qualunque momento, non esiste la scelta per eccellenza, poiché interrogarsi fa parte dell’esistenza di ognuno.
Il viaggio è un’altra peculiarità di Hasbún: personaggi che vagano, forse, più che viaggiare, in questa indeterminatezza che rimane identica anche vent’anni dopo. È chiaro che la ricostruzione è affidata a ciò che non si è mai saputo con certezza. Dice il meta-autore: «Se do retta a quella che nel libro chiamo Andrea, in realtà non esiste un legame ovvio tra il presente e il passato. Sono sfere differenti, mondi che si sfiorano appena. Questa donna che ho accanto non è né dovrebbe essere quella ragazza, io non sono né dovrei essere quel ragazzo».
Il mondo di Cochabamba è maschile e di pietra, raramente declinato secondo sfumature più morbide, come nella figura di Ladislao, che soffre il carattere distante di Joan, una statunitense voluttuosa e incurante delle norme; per Andrea, invece, che si trova ad affrontare una gravidanza non desiderata, la forza nasce dalla caparbietà di dire no a dispetto del discutibile mantenimento di uno status quo: l’aborto rappresenta l’unica alternativa possibile, che non sarà comunque priva di conseguenze.
In un mondo pieno di difetti costruito dagli uomini, le donne si scontrano con sistemi di potere e regole che le portano a sopravvivere, senza però annullare una volontà di miglioramento, innanzitutto, personale. Andrea, vent’anni dopo, metterà in discussione anche le parole di Julián, una sorta di demiurgo di ricordi imprecisi, vaghi, ma autentici. Segue Joan, la straniera, la gringa, sulla quale Hasbún mitiga il sentimento spesso diffidente che il sudamericano ha nei confronti dello straniero.
Per l’autore, essere scrittore equivale all’essere straniero, affermando così un diretto legame con un viaggio materiale o virtuale, vede da lontano ciò che sta vicino e si avvicina, viceversa, a ciò che rimane distante o lo è semplicemente, in un cambio di prospettiva perenne che, come la memoria, non porta quiete. Lo stesso sguardo straniero di Joan è un viaggio nelle novità che una nordamericana come lei può portare in un posto in cui certi limiti sono noti agli abitanti di Cochabamba.
La Bolivia è stata un paese di migranti, aspetto ben rappresentato da Hasbún, lui stesso uno scrittore viaggiatore, nella finzione e nella realtà; un paese in cui gli scrittori boliviani vissuti fuori dai confini di origine sono spesso stati considerati sotto uno sguardo diffidente, quasi malvisti. Per quanto Hasbún torni spesso in Bolivia, viaggiare attraverso la scrittura si confà maggiormente alla natura dello scrittore che media i suoi personaggi da un continuo vagare, fino alla loro creazione.
Gli anni invisibili sfuggono al contemporaneo, stanno in mezzo a quelle onde che si increspano per la caduta di un sasso in uno stagno. Si può sperare di ricostruire ciò che è stato, senza però prescindere dall’interrogarsi sulle continue domande che spunteranno a ogni dettaglio non univoco. «¿De qué sirve representarme ahora la incomparable belleza de aquella adorada enemiga mía?» continua a chiedersi Don Chisciotte.
Chiamatemi Zac. Classe 1992, viene da Zancle e non perderà occasione di rimasticare grecismi con tutto lo snobismo possibile, lo stesso che si riserva di usare con quelli che non hanno mai letto Dostoevskij, Melville e Genet. Sa anche essere molto simpatico, soprattutto coi gatti, per i quali inventa un vocabolario quasi ogni giorno. Ha un profondo affetto per Bach, il pianoforte e il mare, che ha visto per anni dal balcone di casa sua sognando di essere Odisseo (ma ha ancora molta paura di Polifemo). I posteri diranno che il suo nome fu scritto nell’acqua, lui si augura almeno che non sia benedetta.